L’Alta Via delle Dolomiti n.1 è un percorso escursionistico lineare che si sviluppa dal Lago di Braies a Case Bortot (BL), 12 tappe (ridotte a 11 per convenienza), oltre 125 km di lunghezza e più di 7.000 m di dislivello. Noi, per comodità, abbiamo invertito il percorso per evitare di bivaccare al Bivacco del Marmol.
TAPPA 6
(Rifugio Coldai – Rifugio Città di Fiume)
Ore 23:13, sono sveglio. Ore 2:15. Ore 3:05. Ore 3:31, vado in bagno a cambiare l’acqua al merlo. Ore 5:01. Ore 5:15. Ore 5:30, vado in bagno a lavarmi. Ore 6:00, ci alziamo e prepariamo lo zaino. Ore 6:10, siamo in terrazza ad ammirare l’alba, la nascita di un nuovo giorno. Ore 6:15, scalpitiamo in attesa della colazione. All’apertura della porta della sala da pranzo ci troviamo soli, io e lei, tavoli, sedie e panche, la colazione a buffet e la solitudine. Caffè, pane con crema di cioccolato e nocciole, una fetta di crostata alla marmellata di mirtilli. Voto 7.

Pronti a partire col sole oltre l’orizzonte. Siamo i primi, mentre tutti hanno le gambe sotto i tavoli noi le abbiamo in movimento. Attacchiamo la discesa lungo il sentiero affacciato sulla Val di Zoldo, con decisione, grinta ed energia da vendere. Una marmotta ci saluta da un masso solitario, qualche decina di metri più in basso rispetto al sentiero, la sua mole è seconda solo a quella di una pasciuta nutria. Camminiamo col sole già alto nel cielo, il cielo azzurro e qualche striatura biancastra che sporca la volta celeste.
Maciniamo in meno di mezz’ora il dislivello che separa Rifugio Coldai a Malga Pioda (1.843 m s.l.m.). Da qui in poi è in programma un’altra marcia serrata sulla strada ghiaiosa in veste estiva, o pista da sci se in veste invernale. Salutiamo il gregge di pecore che sonnecchia nel prato, una capra nera come la pece fa la bulla fra gli altri ovini e solamente una pecora adulta riesce a tenerle testa.

Lungo questi tratti facili cerchiamo di rosicchiare ogni minuto che le gambe riescono a conquistare, prezioso tempo che sottraiamo al temporale previsto per le 14:00. Seppure la probabilità che la pioggia ci raggiunga sia solo del 50-60%, preferiamo mettere le ali ai piedi per incrementare il margine di sicurezza. La strada è di una noia infinita, è quasi più stancante correre sulla sua veste ghiaiosa che affrontare un’irta ascesa su sentiero. Stremati, non dalla fatica, arriviamo finalmente al Rifugio Palafavera (1.525 m s.l.m.) in sessantacinque minuti.
Indicazioni sulla direzione da prendere non ce n’è, quindi, cartina alla mano, decidiamo di seguire la strada asfaltata e puntare al Rifugio Monte Pelmo. Riprendiamo la marcia. Prima di giungere al rifugio incontriamo una palina che ci segnala il giusto sentiero, tagliamo nel bosco e saliamo il pendio. La selva è fradicia di umidità, le fronde gocciolano copiosamente e il terreno è intriso d’acqua; i nostri scarponi scivolano e sprofondano sulla terra bagnata. In alcuni punti i segnavia sono parzialmente coperti dalla vegetazione lussureggiante o sbiaditi dal tempo, in altri casi segnano vie parallele, forse la traccia vecchia e quella nuova.

Il Sentiero CAI 474 sale in quota con tenacia, ma senza strappi violenti. Macina metri di dislivello senza sosta fino a raggiungere l’incrocio con un’altra traccia che taglia orizzontalmente il pendio. Il bosco di abeti lascia man mano il posto ai larici e betulle, i mughi attendono a una quota maggiore.
Attraversiamo angoli di bosco che tracimano acqua da tutti i pori del terreno, sembra che il bosco poggi le radici su un ruscello. Continuiamo a salire senza sosta, Giada avanti, io indietro ad allungare l’occhio in ogni pertugio del sottobosco nella vana ricerca di funghi da fotografare, niente.
Captiamo delle voci straniere in lontananza che ci avvisano dell’imminente incrocio con il Sentiero CAI 472. Salutiamo il gruppetto di americani in marcia verso valle, noi manteniamo il passo in ascesa. In breve tempo i mughi sostituiscono le piante ad alto fusto, prendono il sopravvento sull’ambiente e cambiano la morfologia del bosco.

Giunti al bivio guardiamo la palina e le numerose indicazioni impresse sulle sue bandierine, confrontiamo le loro tempistiche con il nostro orologio, osserviamo il cielo e le nuvole che nascondono il Pelmo, pensiamo alle previsioni meteorologiche e discutiamo sul da farsi. Andiamo verso sinistra, strada più veloce e semplice, o verso destra, percorso lungo e impegnativo? Puntare alla facilità ci permetterebbe di raggiungere il sito ove giacciono le impronte dei dinosauri, quaranta minuti per arrivarci, trenta per tornare. Affrontare le difficoltà implica rimandare i rettili estinti a nuova data da determinare. I dubbi si adombrano con le nuvole e la meteorologia non ci aiuta nella scelta. Il resto del cielo è praticamente limpido, tranne per alcune nuvolaglie addensate sui monti; niente di preoccupante, per ora.
Decisione alla mano, prendiamo la traccia che punta a Oriente in direzione Rifugio Venezia.

La cartina in nostro possesso indica un tracciato lungo e semplice, con tratti pianeggianti alternati a delicate salitelle. In meno di dieci passi ci scontriamo con paludi terrose, passerelle in legno scivolose come ghiaccio, pantani in cui gli scarponi sprofondano fino alle stringhe e un notevole rallentamento della marcia. Terminate le insidie, acceleriamo nuovamente per mantenere un ritmo più sostenuto. Voliamo sul sentiero, abbiamo le ali ai piedi. Camminiamo, quasi corriamo, fra i mughi, piccoli fiori ai loro piedi, il sole che splende, tiepido, l’aria umida e fresca che ci solletica la pelle. Canticchiamo motivetti stonati che nascono dall’allegria, dalla gioia di vivere momenti di leggerezza. Il peso degli zaini grava sulle spalle, ma non sugli animi, carichi e grintosi, leggeri e giocosi.
Nei pressi del Sass de Formedal, la via sale per conquistare un centinaio di metri di quota. Il dosso e ricoperto da larici e radi abeti, massi precipitati dal Pelmo, pareti strapiombanti sopra i nostri occhi. In seguito, il percorso scende rapidamente, perde quota fino a tuffarsi in una sassaia che taglia orizzontalmente, infine, sale fino al Passo di Rutorto (1.950 m s.l.m.).
Il tratto piano è una passeggiata, totalmente l’opposto la salita successiva. Qui il sentiero è talmente bagnato che ogni due passi in avanti, uno scappa indietro. Arranchiamo puntando piedi e racchette, saltellando da un tratto erboso all’altro e, ove è possibile, evitiamo la traccia fangosa tagliando verticalmente per i prati. I nostri pantaloni sono lerci, hanno virato la loro tinta verso quella terrosa e rossiccia; senza tener conto degli scarponi, anche loro hanno acquisito un nuovo look. Il rifugio è dietro un dosso erboso, solo, isolato dal mondo, con la maestosità del Pelmo a vigilare dall’alto.
Al Rifugio Venezia (1.946 m s.l.m.) guardiamo l’orologio e sorridiamo nel constatare d’aver guadagnato ben trentacinque minuti rispetto alle varie tempistiche incontrate al bivio dei dinosauri. Cioccolato fondente, zenzero candito e mirtilli disidratati. La nostra pausa termina in qualche minuto.
Direzione Forcella di Val d’Arcia, la nostra nuova tappa intermedia. D’ora in avanti cammineremo sui ghiaioni che ammantano i piedi del Pelmo, bianchi, abbacinanti, aspri, solcati da innumerevoli canali alluvionali e da frane, selvaggi, inospitali, nudi. La rampa iniziale impressiona le gambe indolenzite, ma in breve tempo i muscoli tornano a scaldarsi e la marcia riprende il suo ritmo. I tratti ascendenti si alternano a brevi pianeggianti, mai in discesa. La traccia solca tutto il ghiaione del monte, diagonalmente dal rifugio fino a una stretta forcella incastonata fra la parete e una torre rocciosa.

Torreggiano pareti che salgono verticali e si perdono nelle grigie nubi. Le lontane nuvole, che ore addietro erano arroccate su distanti vette, sono irrequiete, scalciano, si divincolano dalla salda presa dei monti. Alcune si allontanano, sostituite da altre, per poi rotolare nel cielo fino a scontrarsi contro nuove alture; talune, al contrario, preferiscono restare appollaiate come nidi d’aquila in cima a un dirupo. Attraversiamo un profondo canale scavato dalla pioggia torrenziale come un aratro quando solca il terreno; scendiamo da una sponda e risaliamo quella opposta con i piedi che scivolano sul fine ghiaino. Alziamo gli occhi, la forcella incastrata fra le rocce è in attesa del nostro arrivo. Un tratto zigzagante nella friabile terra sale nella forra e con estrema rapidità ne conquista la sommità incuneata fra le alte e impervie rocce verticali. Lassù, oltre il valico, si apre un nuovo paesaggio: rocce a picco sulla valle, cangianti pendii sassosi, primi i mughi, poi i larici e infine gli abeti, alpeggi in lontananza, montagne arcigne sulla distanza, gravi nubi temporalesche a troneggiare sul mondo sottostante. Voltiamo lo sguardo verso la strada appena percorsa, il grigio avanza e un mare lattiginoso di umidità ingloba tutto quello che incontra trasformandolo in niente.

Sentiero Flaibani: la via taglia orizzontalmente verso sinistra, esposta e decisamente sprotetta. Sotto, centinaia di metri di vuoto, roccia e nient’altro. La traccia sale, spiana, scende e risale. Un primo tratto attrezzato con un cavo d’acciaio, poi una salita franosa, un tratto nel nulla, un’altra fune metallica abbinata allo strapiombo, un altro tratto friabile e, infine, la salita finale verso la forcella. Niente di difficile, serve tanta attenzione, concentrazione e occhio sul suolo sui cui appoggiare il peso.
Siamo completamente immersi nella nebbia, la visibilità è di qualche metro e gli unici dettagli che scorgiamo sono ghiaia, sabbia fine, sassi, rade erbe, rari fiori, rarissime orchidee, la traccia che seguiamo come segugi, i segnavia che ogni tanto si perdono nella nube, il rumore dei nostri passi pesanti e affaticati, il respiro nostro e del vento, la briosa temperatura e i corpi accaldati.

Un’ombra oscura si affaccia dalla forcella, una silhouette ferma guarda nella grigia oscurità per udire le nostre parole, si muove incerta e, al nostro avvicinarci, scopare dietro le rocce. Siamo vicini alla meta intermedia, ma chissà chi è colui o colei oltre l’umidità? Alla Forcella di Val d’Arcia (2.476 m s.l.m.) veniamo accolti dal sorriso di una coppia di tedeschi in nostra attesa. La Val d’Arcia è illuminata dal sole e il vento freddo spira alle nostre spalle. Al riparo poco sotto la sella, osserviamo i papaveri incastonati nella sassaia come una galassia di stelle. Loro, incuranti di qualsivoglia avversità, splendono al sole e nell’ombra dei nuvoloni con il loro brillante giallo.


Scendiamo seguendo i segnavia bianco-rossi che tracciano il sentiero sul versante sinistro della valle, poi qualche decina di metri più in basso tagliamo a destra per seguire il Sentiero CAI 480. Affrontiamo il pendente ghiaione, decisamente franoso, che si placa poco oltre in un traverso pianeggiante, cala poi gradualmente fino a un dosso poco lontano.

Qui, sotto la supervisione di Cima Forada, ci fermiamo per una meritatissima pausa. Il sole bacia i belli, nel nostro caso anche i puzzolenti. Pranziamo col panino alla marmellata, cioccolato fondente, zenzero candito e tanti sorrisi per aver concluso il grosso ostacolo della giornata evitando il temporale. Sia lodato il 50-60% di probabilità, ora siamo certi che il 50-40% opposto ha giocato a nostro favore.

Il relax dura poco, o forse sembra essere volato via troppo velocemente, in ogni caso dobbiamo ripartire prima che le nuvole esaudiscano le previsioni meteo.
Il sentiero, dopo un ulteriore tratto pianeggiante, scende velocemente su terreno friabile, poi cambia totalmente quando vira verso sinistra dove si insinua in uno stretto canalone.

La vera difficoltà della giornata arriva ora, quasi inaspettata. Scendere senza franare a valle con tutto quello che ci circonda, zaini e sentiero compreso, è difficoltoso. Stringiamo i denti fra cavi d’acciaio spezzati, fra punti franati e altri saldi sul posto, ma dannatamente sdrucciolevoli. Arriviamo in fondo ove ci accoglie un blando sentiero che trotterella fra i massi e i radi larici. Gambe indolenzite, ginocchia doloranti. Alziamo lo sguardo nello stretto canalone e ci ripetiamo tutti i “mai più” evocati durante la discesa. In ascesa potrebbe essere più facile da affrontare, ma al contrario tutto il contrario, specialmente con zaini pesanti e una lunga camminata a gravare sulle gambe.

Oramai siamo praticamente giunti al termine della tappa, mancheranno manciate di minuti prima dell’arrivo. La via punta a destra verso la vicinissima Forcella Forada (1.977 m s.l.m.), ma prima di raggiungerla dobbiamo affrontare un altro guado fangoso. Alla sella voltiamo verso sinistra, scendiamo gradualmente e, per diversi tratti, siamo obbligati a zompettare di sasso in sasso per non sprofondare nelle paludi. Infine, l’ultima parte del cammino è in un bosco di abeti. All’avvicinarci alla meta odiamo una cacofonia multilingua che mi fa mal sperare in un arrivo tranquillo, pacifico, rilassante.
Sbuchiamo dal bosco e veniamo inghiottiti da orde di persone vocianti, urlanti e chiassose, rumorose come intere mandrie di bufali inferociti. Una dozzina di manze pascola, o dorme, nel prato antistante il Rifugio Città di Fiume; sono indifferenti al caos, o forse abituate. I turisti sono freschi, puliti, profumati, noi al contrario sudici, sporchi di terra fino alle ginocchia, puzzolenti. Ore e ore trascorse nel silenzio, nel flebile rumore dei nostri pensieri immersi nella fatica, nello scricchiolio degli scarponi sui sassi, nel cinguettio degli uccellini in volo, nel fruscio del vento nelle fronte degli alberi, nel ronzio degli insetti alla ricerca dei nuovi fiori; tutto questo spazzato via in un istante. La mia testa torna alle ore precedenti e cerca di scappare, il mio corpo resta immobile, stanco e indolenzito, inerte. La nostra aurea selvatica, conquistata con fatica e tanto sudore, è stata calpestata dal noioso e fastidioso vociare di questi montanari della Domenica, dalle viziate vocine dei bimbi che pretendono chissà come, addirittura, di voler andare in spiaggia per giocare con la sabbia, o di adulti che litigano per pretese culinarie da cittadino modello o da abbigliamenti dove la cosa più tecnica è l’abito all’ultima moda. Il solito polemico, ma che ve lo ripeto a fare.
Giada, quella meno lercia fra i due, entra per annunciare il nostro arrivo, io, al contrario, preferisco restare in disparte perché sono più zozzo delle manze sdraiate nella terra bagnata. Mi sento osservato da occhi increduli, sbigottiti e probabilmente schifati; sono così diverso da loro che forse sono io quello fuori posto, qui in montagna.
Sicuramente qualcuno di voi lettori mi odierà, ma me ne farò una ragione.
Seguiamo una delle rifugiste, ci accompagna al piano superiore dove ci aspetta una camerata da sei posti letto. Saremo soli o in compagnia? Stasera lo scopriremo, ora pensiamo a smontare gli zaini e gli indumenti lerci. I primi restano immobili sul pavimento con la loro massiccia mole. I secondi mi sembra che abbiano voglia di svignarsela, hanno vita propria, forse acquisita dal nostro sudiciume, anche loro hanno una parte di noi stessi. Spero che l’intraprendenza di pantaloni e magliette sia volta a farsi una bella lavata, sarebbe utile, oltre che divertente.
Doccia calda, finalmente! Mi bagno, mi insapono, mi sciacquo e gelida acqua mi investe come un treno in corsa. Chiudo gli occhi e termino il lavoro. In pratica: bisogna aprire l’acqua fredda, inserire la moneta, girare il rubinetto sul caldo, attendere trenta secondi che diventano quaranta, e infine fare il bagnetto. Peccato che fra una cosa e l’altra, seppur in velocità, tutto si tramuta inesorabilmente in freddura. Punito a parlare male delle persone. A Giada stessa sorte, sarà la mia aurea maligna.
A casa mia comanda lo stomaco e quando brontola, seriamente, devo umilmente ubbidirgli a capo chino sul piatto. In questo caso si tratta di polenta, funghi trifolati e soppressa, un salume locale. La mia compagna di avventure, e sventure, si accontenta di una pasta al pomodoro.
Avete presente il temporale previsto per oggi? Ecco, manco si è fatto vedere con una singola gocciolina d’acqua. Meglio così, per tutti, soprattutto per i nostri panni stesi ad asciugare, al sole e al vento. Mi sono dimenticato di citare il lavaggio, ma poco importa o volete che ve ne parli? Preferisco godermi il sole, l’ultimo della giornata, per chiacchierare col mio amore a ricordo delle avventure vissute, per scrivere nero su bianco ogni emozione provata, per svagarmi con una partita a carte o per osservare le vacche addormentate.
I nostri pensieri tornano alla realtà quando una mucca, la capa della mandria, muggisce al vento come un lupo ulula alla luna. Tutte le altre si alzano e la seguono in fila indiana verso un luogo a noi ignoto, ma per comodità definirei casa, la stalla, forse per la mungitura serale o la pappa. Mezz’ora, più o meno, e una vacca richiama la nostra attenzione, o forse cerca le compagne. Dove sia stata fino a questo momento, nessuno lo sa, perché non abbia seguito le sorelle, nessuno lo sa, quale erbetta si sia fumata, resta un mistero e forse in tanti vorrebbero conoscerla. Muggisce come una disperata, sola, dimenticata. La guardiamo con visi increduli, sorridenti per l’assurda scenetta. Lei, sconsolata, lentamente segue le tracce delle amiche, forse ne percepisce l’odore o probabilmente si ricorda la via di casa. Rientriamo in rifugio allo scoccare del tramonto, la temperatura cala all’aumentare dell’umidità. Alla tavolata finalmente conosciamo qualcuno: una coppia di Milano e due ragazzi vicentini. Dico finalmente perché non abbiamo avuto grandi possibilità di chiacchierare con altre persone, quindi cogliamo l’occasione al volo. A parlare di tavolata, non posso evitare di citare la cena: penne al ragù per entrambe, omelette con pomodori, carote e formaggio per me, salsiccia con polenta grigliata e pomodori con carote per lei, pesche sciroppate per entrambe, queste ultime non le mangiavo da un’eternità, finalmente ho potuto riapprezzarne la dolcezza. Voto 5.