L’Alta Via delle Dolomiti n.1 è un percorso escursionistico lineare che si sviluppa dal Lago di Braies a Case Bortot (BL), 12 tappe (ridotte a 11 per convenienza), oltre 125 km di lunghezza e più di 7.000 m di dislivello. Noi, per comodità, abbiamo invertito il percorso per evitare di bivaccare al Bivacco del Marmol.
TAPPA 4
(Rifugio Sommariva al Pramperet – Rifugio Vazzoler)
La notte appena trascorsa ha alternato brevi momenti di silenzio, in cui la quiete ha regnato sovrana nel sonnolente torpore delle ombre, a infiniti attimi temporaleschi in cui brontolii profondi, rantoli cavernosi e tuoni gutturali, ne spezzavano l’armonia. La piccola camerata da sei posti letti, completamente occupata, ha amplificato il pesante russare di un qualcuno, che non sono riuscito a identificare fra le scure ombre delineate nel buio. I tappi incastonati nel canale uditivo non sono una barriera sufficiente a frenare l’inarrestabile ondata di suoni molesti; in futuro dovrò munirmi di armi da difesa molto più sofisticate. Oltre la finestra è buio e solamente una fioca aura luminosa disegna sagome indistinte. Il timore mi assale nel guardare l’orologio, sono le ore 3:15. È finita, non riuscirò più ad addormentarmi e domani sarò uno zombie. Mi rigiro nel sacco-lenzuolo come una trottola fino alla seconda lettura dell’orario, ore 5:00. Mi rigiro nuovamente cercando di allontanarmi dai pensieri, impossibile.
Alle 6:00 mi alzo ed esco per andare a vedere l’alba, sgranchirmi le gambe e respirare aria nuova. Varcare la soglia è come rinascere, i polmoni si gonfiano di ossigeno e gioiscono col profumo di erba umida e resina dei mughi. Nella camerata, al contrario, l’ambiente era saturo di odori e l’aria densa era soffocante. Sei persone che si portano appresso zaini sudati da giorni, un abbigliamento lavato a mano con acqua fredda e poco sapone, persone pulite o forse no, il respirare di un’intera notte. La finestra leggermente aperta ha solo smorzato un’asfissia assicurata, una probabile morte lenta e inevitabile.
La grondaia gocciola vistosamente, umidità notturna o un temporale passato in sordina a me sfuggito. Il prato è fradicio, madido, zuppo, i fili d’erba sono appesantiti dall’acqua che devono sorreggere, appesantiti al punto da essere praticamente sdraiati al suolo. L’anfiteatro montuoso è libero da nuvole e, finalmente, riesco ad ammirare la cresta rocciosa che sovrasta la valle. Il cielo azzurro irradia lucentezza sul mondo sottostante, è talmente limpido da poter vedere le tenui stelle sfuocate dall’alba. Nel fondovalle, al contrario, le bassi nubi coprono tutto con la loro spessa coperta grigiastra; all’orizzonte solo una lontana montagna si erge oltre il mare per risplendere nell’iridescenza del primo sole.
Sento rumori di movimento alle mie spalle, dalle singole camerate escono letargiche figure dagli occhi socchiusi, dai movimenti lenti e impastati, dalle voci roche e sommesse. Lentamente tutto il rifugio si sveglia, torna a nuova vita. Come piccole formiche laboriose, ognuno adempie ai propri doveri: chi si mobilita per allestire le tavolate e preparare la colazione, chi invece assembla gli zaini, si lava e indossa abiti meno sporchi, chi se la prede comoda e si stiracchia all’aperto godendosi placidamente l’aria fresca del mattino. Anche noi prepariamo i nostri averi per una nuova giornata.
A tavola siamo i primi, abbiamo fretta di iniziare la marcia. Colazione con caffè, pane spalmato dell’immancabile crema cioccolato e nocciole, bicchiere di succo e una fettina di crostata. Nel momento in cui ci alziamo per pagare, la maggior parte dei viaggiatori deve ancora entrare nella sala da pranzo per mangiare. Voto 7.
A uscire dal rifugio siamo i primi, mentre gli altri hanno ancora le gambe sotto il tavolo e una fetta di pane fra i denti, noi abbiamo fretta di macinare terreno sotto i nostri piedi. Quest’oggi sarà una corsa contro il tempo: il percorso richiederà oltre 9 ore di marcia e non vogliamo arrivare a sera; inoltre, nel corso del pomeriggio è previsto un temporale e non vogliamo arrivare inzuppati. Quindi, marceremo decisi.

Banchi d’umidità rotolano sopra il tetto del rifugio e si dirigono celermente verso la muraglia rocciosa che li trattiene. Le erbe dei prati, madide di rugiada, bagnano immediatamente i pantaloni, ne tracciano disegni astratti e sul loro tessuto tracciano pennellate che, passo dopo passo, si sfumano in una tela informe chiazzata di verde e di terra. Le nostre impronte scrivono sul terreno umido parole narranti il nostro passaggio, effimeri racconti che saranno cancellati da altre storie o, semplicemente, dal prossimo acquazzone. Le racchette graffiano e punzecchiano il morbido terriccio, lo rigano e lo infilzano senza produrre dolore, lasciano una scia di righe sgraziate e punti profondi, apparentemente senza significato. I boschi di mughi prendono velocemente il posto del pascolo, i verdi brillanti si sfumano i quelli più scuri, i profumi di umidità si sciolgono in altri resinosi e speziati. Nel momento in cui raggiungiamo il bivio incontrato in precedenza, la temperatura dell’aria cambia velocemente, le nebbie si alzano e si sciolgono nel cielo terso che le sovrasta, la densità dell’aria diviene più spessa, quasi palpabile, e la sua freschezza si appiccica alla nostra pelle. Qui, il sentiero prende la via di destra, fra mughi e radi larici che si innalzano solitari. Orchidee rosate fanno capolino ai piedi dei bassi pini ove le erbacee sono riuscite a strappare terreno prezioso alle legnose arbustive. Vaniglia, spezie, resina e legno, sono alcuni dei profumi che le mie narici riescono a riconoscere, rododendro, ginepro, larice e mugo, sono le piante che me li ricordano.

I tratti di leggera salita, modesta discesa, e altri pianeggianti, portano in vista della Forcella del Moschesin (1.940 m s.l.m.). Un tranquillo pendio con qualche decina di metri d’ascesa ci separa dal varco fra le montagne, a destra Spiz di Moschesin e a sinistra Costa del Barancion, alle nostre spalle la Val Balanzola e oltre un nuovo mondo da scoprire.


Al passo ci aspetta il Forte del Moschesin, presidio militare progettano per difendere la Patria dalle invasioni straniere degli inizi del ‘900. Un rudere dalle mura in bianca pietra calcarea, un tetto dipinto di blu, da piante e fiori che ne abitano le spoglie dimenticate. Il presente è solo un ricordo tangibile di una storia conosciuta dai libri e che per nostra fortuna non abbiamo vissuto; è qui per non dimenticare.
Riprendiamo la marcia lungo il pianeggiante sentiero che taglia in costa la montagna dello Spiz di Moschesin, poi seguiamo la discesa seguendo numerosi tornanti.


Mughi e alcuni larici qua e là, poi mughi e numerosi larici con qualche abete, infine radi mughi con svariati abeti e larici, infine il bosco che accerchia Malga del Moschesin con il suo pascolo dalle alte erbe. Una fontana zampilla acqua cristallina nella sua vasca, l’unica forma vivente presente in questa desolazione statica.




Incontriamo un paio di escursionisti, i primi della giornata, anzi no, i secondi a seguito delle due ragazze americane sbucate dal nulla in prossimità del Forte del Moschesin; chissà da dove arrivavano e dove avranno dormito, tende non ne abbiamo intraviste fra i loro fardelli. Dubitiamo possano arrivare dal Passo Duran, ancora troppo distante, forse da punti di partenza più vicini che non conosciamo o forse decisamente più mattiniere dei soliti due onnipresenti. Bando alle ciance, fantasticherie a parte, manteniamo il passo perché ci attende fin troppa strada.
Nel fitto bosco di abeti e larici, la luce del sole sembra essere un lontano ricordo. Muschi e licheni crescono ovunque, come numerosi funghi dalle carnagioni variopinte e dai gusti sicuramente da non assaporare, salvo conoscerli approfonditamente. Nel nostro caso, ci limitiamo a osservare e ammirare. Un rombo ci distrae dalle fantasticherie culinarie. Echeggia un frastuono fra le alte fronde delle piante, nel cielo sopra le nostre teste, fra le pareti rocciose delle montagne. In un primo momento non capiamo cosa sia, perdura, si muove, evolve nell’aria, in un momento è forte e subito dopo più pacato e lontano, e poi riecheggia di nuovo, più distinto. Pensiamo a un aereo di linea, ma è tutto così inusuale, bizzarro e anomalo. Con un punto di domanda stampato in fronte, riprendiamo il cammino.
La traccia, ben visibile, alterna piani a delicate discese, e viceversa. Gradualmente ci avviciniamo ai piedi del Castello di Moschesin; montagna arcigna, aspra, selvaggia, dura e impervia che si erge a dominare la valle, il bosco cede terreno a massi, sassi, macigni, pietraie, precipitati in tempi remoti, forse anche recenti. Il frastuono, ora divenuto quasi assordante, cupo e viscerale, si scontra con la quiete della natura come uno tsunami quando incontra la costa. Alziamo gli occhi in cerca di qualcosa, ma i rami ostacolano la visuale. Un aereo, chissà quale aereo può fare questo casino, proprio non riusciamo a immaginarlo. Andiamo avanti, ora i punti interrogativi sono due.
Il bosco finisce ove inizia la sassaia. Affrontiamo una distesa di pietraie cangianti a perdita d’occhio, verso l’alto, bianco fino alle cime, verso il basso, bianco fino ai boschi, verso Nord, bianco fino ai pendii solcati dal sentiero; bianco ovunque. Massi a non finire, sassi a fare un’indigestione, ghiaia e sabbia da riempirci un mare intero. Solo alcune erbe, mughi e altre piante sono riuscite a rubare preziosa terra a questa desolazione infinita, rade, singolarmente sparpagliate in questo deserto.


Il tuono torna, questa volta doppio. Occhi al cielo per scrutare ogni pixel di questo schermo azzurro. Fra alcuni banchi di nubi compaiono aerei militari che piroettano, vanno in una direzione e subito dopo virano verso un’altra, ruotano su loro stessi, si incrociano e poi si allontanano. Sbigottiti, siamo senza fiato, senza parole. Mi chiedo perché fra i vari parchi naturali delle Dolomiti sia possibile questo, sono allibito. Non è permesso il volo di un drone nei parchi, ma al contrario possono volare sul confine del Parco stesso dei caccia da combattimento? Stiamo scherzando?
Macino la ghiaia sotto gli scarponi per non pensare a quello che ho udito e visto. Un altro doppio rombante fracasso tuona nella vallate, il cielo è solcato da altre due scie biancastre.
Giungiamo alla Forcella Dagarei (1.620 m s.l.m.). Abbiamo perso il conto dei voli acrobatici, forse sette o addirittura otto. Mi immagino la montagna come un luogo tranquillo, dove l’uomo ha lasciato un segno meno indelebile rispetto a città e paesi, o di pianure antropizzate. Un posto dove puoi trovare pacifici animali selvatici che brucano beatamente fra i loro pensieri, dove l’aria non è inquinata ma fresca e pura, dove i muschi e i licheni crescono ovunque vogliano sentendosi liberi di colonizzare sassi e tronchi. Oggi, al contrario, è stato tutto brutalmente stuprato dal vile Dio Denaro. Inspiro a pieni polmoni quasi per fare annegare questi pensieri, espiro tutta l’aria come per strapparmeli di dosso, guardo il sentiero che si dilegua nel fitto bosco per annebbiare il ricordo.
Manca una manciata di minuti all’arrivo della strada sterrata che ci porterà al Passo Duran, forse 15-20 minuti al massimo. Percorriamo qualche metro e i segnavia scompaiono assieme a numerosi alberi abbattuti. Sul versante sinistro non è possibile proseguire, proviamo a scendere tenendo la destra nella speranza di intravedere sulla sponda opposta i tracciolini bianco-rossi, ma niente. In poco tempo ne scorgiamo uno, quindi puntiamo al ruscelletto sul fondo e poi risaliamo; sentiero ritrovato. Andiamo spediti e sicuri verso la meta intermedia.
Costringo la mia compagna di avventure a una pausa obbligatoria, ho scoperto uno stuolo di finferli (Cantharellus cibarius) a qualche metro da noi e voglio proprio fotografarli. Saranno una ventina, forse più. Gialli e aranciati, carnosi, alcuni sono adulti, altri no, molti sono pronti per essere mangiati gli altri, piccoli, assomigliano a tondeggianti praline. Sono bellissimi, mai ne ho trovati così tanti tutti assieme, stupendi.

Col profumo nel naso, completamente inebriato dagli speziati toni fungini, muovo ogni passo in un sogno chimerico.
La discesa in poco tempo si rivela più complicata del previsto, incontriamo nuovamente degli alberi abbattuti dal forte vento dell’Ottobre scorso. Questa volta non sono una decina, ma l’intero bosco ha assunto la posizione orizzontale. Il sentiero è ovviamente sparito sotto un tronco e quelli a seguire, devastazione sia alla nostra destra che a sinistra. Tornare indietro per cercare un’alternativa è improponibile quanto guardare in avanti per intravedere qualcosa di utile per la nostra avanzata. Ci guardiamo negli occhi, lei è intimorita e spaesata, io spaesato e agguerrito. Osservo attentamente la moltitudine di abeti, ceppaie, tronchi, rami, tutto incasinato l’uno sull’altro, l’uno nell’altro, l’uno sotto l’altro; il gioco “shanghai” coi bastoncini rende perfettamente l’idea del paesaggio. Ragioniamo velocemente su come affrontare questo inaspettato groviglio, valutiamo il significato di ceppaia, di tronco orizzontale, di rami che puntano in infinite direzioni, di tronchi appesi, di rami spezzati e appuntiti come lance. Entriamo nel labirinto e dimentichiamo immediatamente l’ingresso. Aggiriamo la prima ceppaia, spezziamo rami, li curviamo e pieghiamo ai nostri voleri. Camminiamo sul primo tronco che punta dritto verso valle, dentro il gioco, nel cuore del groviglio. I nostri passi molleggiano sul suo dorso, puntiamo le racchette sulla corteccia e ci aggrappiamo ai rami che saettano ovunque. Incrociamo un altro albero, più grosso dell’attuale, e cambiamo direzione seguendone la lunga linea orizzontale. Rami, aghi che graffiano la pelle, rami e ancora aghi. Desidero ardentemente un machete per farmi largo in questa bislacca giungla, ma devo accontentarmi delle racchette e delle mie mani. Saltiamo a terra con un balzo di un metro, gli zaini pesanti sulla schiena e le ginocchia scricchiolanti; aiuto Giada per facilitarle il compito a non ammazzarsi come ha rischiato il sottoscritto. Annaspiamo fra altre fronde, meno spesse e impenetrabili di tutte quelle attorno a noi. Aggiriamo altre ceppaie e passo dopo passo riusciamo a scendere verso valle. Ci arrampichiamo su un tronco che sorvola la sterpaglia, ma questo rimane a un’altezza di circa due metri da terra, sotto di lui rami, rami spezzati, sassi e pur sempre duemila millimetri di volo. Mentre descrivo a voce alta cosa ci aspetta, mi sento scrutare dal basso da due grandi occhi azzurri che gridano a voce alta “siamo nella cacca fino al collo!”. Le dico di attendere accanto alla ceppaia, io cammino sul tronco per saggiare le nostre possibilità di successo e lei che mi risponde “dove vuoi che vada?”. Le rispondo che questo ponte è fattibile fino alla fine dove si incrocia con altri, ma che dobbiamo prestare la massima attenzione perché al minimo errore ci aspettano trappole e trabocchetti in stile Indiana Jones; purtroppo non siamo in un film dove possiamo ripetere la scena ciak dopo ciak. Passo dopo passo, con lo sguardo fisso sulla corteccia e le mani salde sulle racchette infilzate su di essa, superiamo anche quest’ultimo ostacolo. Al bivio possiamo scegliere fra due tronchi: uno che punta verso il basso e uno verso sinistra.

Ridiamo, forse per non piangere, alla vista del segnalino bianco-rosso sul tronco del secondo abete, ridiamo, forse per ironia della sorte o per divertimento. Torniamo alla realtà, quella che ci impone di scendere dal tronco e proseguire via terra; la via aerea nelle altre due direzioni porta a intrichi di rami ancor più impenetrabili dei precedenti. Dobbiamo saltare a terra, non saranno duecento centimetri, forse centocinquanta; in ogni caso un bel volo. Vedo terra, niente sassi o rami appuntiti. Calcolo bene la distanza e mi tuffo in una mezza disarrampicata sgraziata, Giada mi segue con le mie braccia allungate per accoglierla e facilitarle nuovamente l’atterraggio. Anche questa è fatta, ne stiamo affrontando troppe tutte insieme. Quasi strisciamo sotto un tronco vicino cercando di farci largo fra i rami e, mio malgrado, qualche ragnatela con ragno annesso. Superiamo piante minori ed esili, o grosse ma dalle chiome più rade. Aggiriamo, scavalchiamo, scivoliamo sotto, cavalchiamo con le gambe a penzoloni o facilmente arrampichiamo.

Finalmente, dopo non sappiamo quanto tempo, interminabili minuti, forse ore, giungiamo a un pratone e la strada poco distante su cui sfrecciano i centauri; nella verità meno di venti minuti per percorrere circa 200 m di distanza.
Una dolce riva, i sassi e la terra friabile sotto le suole, un guado, gli scarponi sprofondanti fino al fiocco di stringhe, un’irta riva, l’erba alta quanto la mia vita che ci avvolge come una coperta, un prato, la terra fradicia d’acqua e le alte erbe che nascondono i nostri passi, un albero, il segnalino bianco e rosso illuminato dal sole, il sentiero.
Galoppiamo verso l’asfalto, ora vogliamo scappare a gambe levate dalla natura selvaggia, e intricata; prima la cercavamo come se fosse la salvezza per le nostre anime civilizzate, e semplici, ora voliamo verso una nuova libertà.
Un solitario tavolo in legno per picnic ci aspetta all’ombra di un solitario abete che si crogiola al sole. Noi, stanchi e sporchi, ci svacchiamo sulle due panche coi fardelli al nostro fianco, sudati e puzzolenti. Vuotiamo le menti dalla fatica e riempiamo gli stomaci con un grosso panino farcito di marmellata all’albicocca; uno intero a testa. Le due falde di pane sono talmente ricolme che, a ogni morso, zampilla appiccicume aranciato da ogni bolla di lievitazione.
Guardiamo alle nostre spalle il prato e il bosco, ripensiamo alla tragedia lignea che giace inerte al suolo, alla staticità del luogo che sembra non aver sofferto o visto alcunché di terrificante. È tutto così maledettamente normale, pare finto, costruito, assurdamente perfetto, qui la normalità della natura in veste montana, là la distruzione della natura in veste montana, entrambe rappresentano la natura, ma entrambe sono diametralmente opposte, bipolari. Più semplicemente la natura è adattamento, si adatta a qualsiasi cosa, è l’uomo che vede in ogni variazione un qualcosa di strano, insolito, diverso e avverso. Più semplicemente la natura non si accorge di quello che crea o distrugge, perché a ogni mutamento genera nuova variabilità, caos, distrugge o crea, cambia, evolve, e la normalità con un soffio di vento la vanifica in un secondo, ma la stessa distruzione diventa in un attimo una nuova tranquillità. La natura, tutto questo parlare che definirebbe “ciarlare”, lo descriverebbe più semplicemente in “quotidianità“.
Oltre l’abete scorgiamo una palina che indica l’Alta Via delle Dolomiti n.1 e una direzione a noi sconosciuta, forse è una deviazione per evitare la selva disastrata o forse è il sentiero classico; non lo sappiamo, non abbiamo alcun interesse nell’ottenere una risposta ai nostri quesiti e dopo tutta questa fatica è l’ultimo dei nostri pensieri.
Affrontiamo l’asfalto incalzando una falcata all’altra, senza sosta, a marcia serrata, martellante, ritmica, costante. Vogliamo guadagnare ogni secondo o minuto prezioso per la nostra causa: evitare il temporale pomeridiano. Diciotto minuti, ottanta metri di dislivello positivo, milletrecento metri di distanza, Passo Duran conquistato.
Guardiamo il passo con occhi assenti, non cogliamo nessuna emozione da questo luogo. Nel parcheggio, fra le innumerevoli auto e moto, una giovane coppia pranza davanti al posteriore del loro van col culone all’aria, loro seduti sulle sedie pieghevoli, alcune corde a terra, una bottiglia d’acqua brilla al sole, rinvii e moschettoni escono da uno zaino, una bacinella con delle pesche sul dorso di un altro zaino, una borraccia metallica con qualche botta di troppo riversa su un fianco accanto alle gambe della sedia di lui, parlano e ridono, sereni, spensierati come le loro numerose proprietà vomitate dalla vettura camperizzata non appena le hanno aperto il portellone posteriore.
Ora torniamo alla nuda terra, vogliamo che l’asfalto resti solo un lontano ricordo. Un paio di vacche al pascolo ci osserva mentre scaliamo la rampa di rosso terriccio, secco, arso dal sole, mangiato dai rivoli stagionali che si creano durante i temporali estivi, raschiato da zoccoli bovini dalla forma circolare.

L’ascesa, sofferta come tutto il cammino da Belluno fino a qui, causa sole implacabile e caldo afoso, termina in un tratto pianeggiante fra mirtilli e abeti. Più avanti ci aspetta la strada sterrata. Questa si allunga in due direzioni, ovviamente a noi interessa esclusivamente quella verso Occidente che porta al Rifugio Bruto Carestiato.
La mappa in nostro possesso descrive una falsa verità: racconta di un’ascesa delicata pari a circa un centinaio di metri diluiti in due chilometri di distanza, nella realtà tutto sembra raddoppiare, se non addirittura triplicare. Sarà il sole implacabile che, quando decide di mettersi in mostra, rende l’aria umida più irrespirabile, pesante, densa come melassa. Sarà la strada abbacinante di ghiaia e sassi che, quando decide di puntare verso l’alto, rende il nostro cammino più faticoso, noioso, stancante come se il nostro fardello pesasse il doppio. Stringiamo i denti.
Intravediamo un’alpe e sogniamo immediatamente il rifugio, ma la cartina non corrisponde. Siamo giunti a Casera Duran, a meno di metà strada dalla prossima tappa intermedia, e il caldo ha stremato i nostri animi. Continuiamo, senza fermarci, a macinare altra ghiaia sotto le suole degli scarponi, nell’afoso meriggio di questo dì infinto.
Le nuvole di passaggio sgravano la pesantezza di questa tratta, le ombre trasportate dal vento rinfrescano la pelle imperlata di innumerevoli goccioline di sudore, l’aria diviene così più leggera, respirabile, dolce come acqua di sorgente. Le fronde degli alberi sono fonte di ristoro momentaneo, attimi di tregua dal sole imperioso.
Attraversiamo una sassaia che riflette tutta la bellezza del sole, poi un piccolo ruscelletto e infine ci tuffiamo in un boschetto di abeti e larici. Le ombre sono un vero piacere, molto meno la salita. Affrontiamo un tornante, poi un’altra salita. L’ultimo tratto è pura fatica, ma l’udire alcune voci è un sollievo.
Intravediamo delle persone, un tetto, altre persone, un muro, un altro, altre persone, persone, persone e ancora persone. Siamo infine arrivati al Rifugio Bruto Carestiato (1.834 m s.l.m.), invaso di turisti, orde di uomini, donne e bambini, sembra di essere a Venezia in un giorno festivo. La caciara è quasi assordante, manco riesco ad ascoltare i miei pensieri, forse è la stanchezza o forse c’è proprio casino. Resto appoggiato alla staccionata in legno mentre Giada entra nel bar per acquistare una lattina di Coca Cola. Sorseggiamo il nettare dolce-amaro e addentiamo voracemente una stecca di cioccolata. Le menti sono briosamente solleticate dalle bollicine di anidride carbonica, nel mondo esterno il vociare degli adulti, le urla dei bambini che corrono come scalmanati, delirio cittadino nella quiete del mio torpore cerebrale, dentro di me la stanchezza si crogiola nello zucchero.
Oramai la resa dei conti con le energie rimaste è dietro l’angolo, ci attende molta strada, altre salite e discese, e il temporale che inizia ad addensare le nubi sui monti. Riprendiamo la marcia con una nuova energia, ci sentiamo rigenerati. La mia compagna di scorribande zompetta allegra, è contenta per aver bevuto la sua adorata cochina, ma leggo nei suoi occhi il dispiacere per averla divisa; la ringrazio per la fatica della condivisione forzata con un sorriso raggiante, mi sorride di rimando con i suoi occhioni azzurri come il mare; altre energie confluiscono in me. Mi sento carico come una molla, ma allo stesso tempo affaticato e appesantito, ovvio lo zaino. Il sentiero scende delicatamente verso il pendio dei monti, Pala delle Masenade, Cresta delle Masenade, Cima Moiazza Sud. Abeti e larici, muschi morbidosi e mirtilli, sassi e massi. Il bosco termina con l’estendendersi dell’estesa area franosa di ghiaia, sassi e massi. D’ora in poi, per diverse centinaia di metri, ci aspetta un territorio più brullo, bruciato dal sole e scarnificato dalle frane di secoli e millenni addietro.

Il sentiero continua la sua corsa seguendo la costa dei monti, sale leggermente e scende altrettanto dolcemente, aggira i massi, li scavalca, li discente, si tuffa fra i mughi e cammina solitario nella sassaia. I colori sono due: il grigio e il verde. Il primo ha numerose sfumature che virano dal bianco al rosso, dal tortora al piccione, dal calcare all’ardesia, dall’ocra al panna. Il secondo, decisamente meno presente, si tinge di scuro tra i mughi, di chiaro fra le rade erbe. Il resto della tavolozza cromatica è caratterizzata da finissime screziature di numerosi colori invisibili per quanto sono rari: alcuni fiori si mettono in mostra lungo la via, ma timidamente tendono a nascondersi per non farsi notare.

La traccia fa il periplo dell’intera valle fino alla rampa, ripida e boscosa, che sale fino alla Forcella del Camp (1.933 m s.l.m.). Il nostro arrivo viene festeggiato da una decina di manze scodinzolanti che orchestrano i loro campanacci per fare festa, ridiamo per il chiassoso benvenuto. Breve pausa. Le giovani vacche allontanano al nostro arrivo, avranno paura o puzziamo così tanto?
Veniamo punzecchiati da alcune gocce di pioggia, ghiacciata, che sono trasportate dal vento. Nella valle opposta il cielo non è bianco-grigiastro come in precedenza, bensì grigio-nerastro. Le nuvole danno la seria impressione di esaudire i desideri meteorologici previsti da ARPA Veneto.
Prepariamo a portata di mano il guscio, in caso di pioggerellina, e la mantellona, in caso di nubifragio. Non stiamo a perdere tempo, meglio riprendere il cammino per rubare minuti preziosi al temporale in arrivo.
Il sentiero scende immediatamente, si biforca: a destra in piano o a sinistra in discesa. Dobbiamo rimanere in quota e scendere leggermente, la prima opzione sembra essere la più interessante, la seconda meno appetitosa. Tagliamo tenendo il monte sulla nostra destra. Pochi passi e ci troviamo sotto una parete strapiombante di nuda e dura roccia che sale rapidamente per dare vita alla cima Pala del Camp.

Non ci soffermiamo ad ammirare il paesaggio per due motivi: il temporale in arrivo e la paura della roccia sopra le nostre teste. Il sentiero, dopo il tratto di falso piano, declina in brevi tornanti veloci e si congiunge con un altro proveniente da sinistra; forse ci siamo congiunti con l’altra variante. Proseguiamo.
I grigi nebulosi turbinano e si alternano con altri più cupi e arcigni, in lontananza i neri sono padroni del cielo. Tagliamo in orizzontale l’immensa sassaia cercando di allungare il passo ove il sentiero lo consente, stanchezza permettendo. Udiamo in lontananza fulmini che echeggiano nella valle, dapprima saltuari ma col passare del tempo sempre più incalzanti. In vista del Col d’Ors, la via sale e si arrampica fra i mughi, infine raggiunge la sella con qualche passaggino faticoso, ma non esageratamente impegnativo. Siamo decisamente stanchi.
Giungiamo all’ennesima tappa intermedia, Col d’Ors, assieme a una coppia di inglesi. Entrambe con direzioni divergenti. Ci chiedono quanto manca al Rifugio Bruto Carestiato, quanto è lungo il sentiero, la sua difficoltà. Leggiamo nei loro occhi la preoccupazione per il temporale, la fatica della salita da poco affrontata, e ancora altra preoccupazione nell’ottenere le mie risposte tutt’altro che dolci. Il temporale arriverà a momenti, forse qualche minuto, o poco più, ma è dietro l’angolo. A noi resta la discesa nel bosco e poi la salita al Rifugio Vazzoler tramite strada sterrata, loro hanno ancora tutto un traverso fino alla forcella, la discesa nel bosco e un altro taglione per tutta la valle prima di arrivare a destinazione. Entrambe verremo colti dalla burrasca, entrambe siamo stanchi, noi siamo consci di quello che ci attende e loro non lo dimostrano, noi siamo preparati tecnicamente e loro non lo sembrano. Gli auguri di buona camminata e buona fortuna si scambiano nell’aria fredda ed elettrica. Ognuno segue la sua strada, il suo destino, la sua fortuna o sfortuna.
Scendiamo. Il primissimo tratto è decisamente impervio, friabile e sdrucciolevole, poi si ammorbidisce rimanendo franoso e scosceso. Nei pressi del bosco di larici iniziano a cadere le prime gocce di pioggia, la preoccupazione accresce. Nel bosco di abeti arrivano i goccioloni, ci fermiamo, trasformiamo la nostra livrea e in meno di due minuti diventiamo mostri informi, uno rosso e uno blu. Siamo due macchie nel verde della foresta, io scarlatto lei oltremare, che si muovono nel buio del temporale come spettri di un incubo. La pioggia diviene ben presto assordante, martellante, torrenziale. Grondiamo acqua, fuori pioggia e dentro sudore; non capisco se perde la mantella, se il confine impermeabile si è sciolto ed è stato spazzato via dal vento. Nella faggeta si aggiunge la grandine, fine, secca, dura e ghiacciata. I tuoni sono sempre più incalzanti, vicini, temibili. In tutto questo trambusto ho paura per i fulmini, addosso ho diverso materiale elettronico e metallico, vedi treppiede e racchette, macchine fotografiche, obiettivi, batterie e altro; mi sento un parafulmine ambulante, ma finché sono nel bosco ho la vana speranza che la saetta possa scaricarsi su soggetti più alti; incrocio le dita, spero ma non ci credo.
Giunti all’ennesima sassaia, la tempesta si placa e in lontananza compare addirittura il sole. Tiriamo un immenso sospiro di sollievo per aver scampato il peggio, almeno per il momento. Manteniamo il ritmo incalzante, maciniamo altro terreno per la paura di una seconda ondata di maltempo. La strada sterrata è sempre più vicina, quasi riusciamo a distinguere i sassi che la ammantano.
Arriviamo infine all’ultima tappa intermedia, la carrareccia, e d’innanzi a noi ci aspetta l’ultimo tragitto prima di concludere definitivamente questa nostra quarta tappa. Togliamo le mantelle.
Nell’etere volteggiano rade goccioline trasportate dal vento che solleticano la pelle sudata. L’aria è umida e tiepida, un leggerissima brezza dal tono delicatamente fresco riempie i nostri polmoni inzuppati. I pantaloni sono fradici, gli scarponi con loro. Tolgo la parte terminale delle due gambe per fare asciugare la pelle, i due mozziconi di tela li appendo allo zaino. Il mantellone lo appollaio sulle lunghe racchette che ho nel frattempo appoggiato a una spalla.

Ripartiamo, stanchi, bagnati, ma baciati da un delicato sole. Siamo in tre, io e lei, il fantasma scarlatto che ondeggia immediatamente dietro il mio zaino. Un tornante, un secondo, un terzo, un quarto e già perdo il conto. Entriamo nel bosco e la strada continua a mantenere l’ascesa, il piano o la discesa proprio non esistono.
Mi siedo su un tronco tagliato per riprendere fiato, beviamo e mangiamo qualcosa; sono esanime, credo di aver esaurito le ultime stille di energia. Vuoto. Riprendiamo la marcia con un passo più lento, ma costante. La mia mente impreca per le mie malsane idee: allungare l’odierna tappa per risparmiare un giorno, portarmi appresso un peso fotografico esagerato. La mente si scindi dal corpo, ora sono due entità separate, ognuna fa quel che gli pare.
L’ultimo pezzo di cioccolato fondente finisce con quelli che in pochi minuti si riveleranno essere i duecento menti finali. I nostri visi sono emblematici e rispecchiano la nostra stanchezza.
Come un’oasi si presenta all’esploratore del deserto, il rifugio si illumina di immenso ai nostri occhi. Quarta tappa conclusa, Rifugio Vazzoler conquistato (1.714 m s.l.m.). Non entriamo, ci fermiamo davanti all’ingresso e molliamo le mantelle sulla panca in pietra, gli zaini per terra, togliamo gli zuppi scarponi coi pesci rossi, cambiamo la t-shirt con una fresca, indossiamo una felpa asciutta e ci sediamo a contemplare il muro. Trascorrono secondi, minuti o forse più, il tempo e lo spazio non hanno più significato, siamo esausti. Scambiandoci il sorriso constatiamo d’aver ripreso una parvenza umana, non spettrale come dinanzi a questo presente.
Entriamo. Dei ragazzi stranieri, dagli accenti indecifrabili, forse tedeschi o scandinavi o altro, giocano a carte al tondo tavolo nell’atrio. Salutiamo un rifugista che in breve ci accompagna nella nostra suite due per tre, esagerando con le dimensioni, con letto a castello, finestra e sedia.
Chiusa la porta, gli zaini esplodono magicamente rigurgitando vestiari vari e varie attrezzature. Sui due letti si riversano le cose asciutte, sul davanzale quelle bagnate da asciugare, per terra quelle da lavare. Ci sediamo sul letto inferiore, immobili, esauriti. Ordiniamo le idee, rimaste indenni dall’immensa fatica, per ripensare alla giornata e ridere per la pazzia.
Oltre il corridoio si allunga un ballatoio con annesso stendino, sarà ben presto colonizzato con le nostre mantelle. In bagno godiamo ogni secondo a nostra disposizione per rinascere a nuova vita con una doccia calda, stupenda, ristoratrice, rigenerante, rivitalizzante. Con la possibilità di bloccare lo scandire dei pochi minuti a disposizione, aumenta la durata per potersi insaponare adeguatamente e sciacquarsi con ogni goccia a disposizione dei secondi in scadenza. Laviamo il vestiario zuppo, sudicio, fetido, nel lungo lavandino. Ultimiamo il processo di lavanderia stendendo calze, pantaloni, mutande e magliette sul solitario filo appesantito dai mantelloni. Torniamo in cameretta, qui appendiamo le cose umide sulle vecchie stringhe, ora la nostra suite è diventata una tendopoli disastrata; come ogni giorno del resto.
Ci riposiamo in attesa della cena, ma restare chiusi in questo bugigattolo è snervante, quindi scendiamo in sala da pranzo per trascorrere il restante tempo. Scriviamo le nostre memorie, ci raccontiamo e sorridiamo della giornata che, tutto sommato, si è conclusa senza inconvenienti, pioggia a parte.

Alla rifugista narriamo le vicende delle ultime ore di corsa sotto il temporale e dell’incontro con la coppia. Di rimando ci racconta la loro storia: arrivati in rifugio per mezzogiorno si sono fermati per pranzo, un pranzo completo, non una portata veloce, successivamente hanno richiesto l’aggiornamento meteo e, a seguito del consiglio di non proseguire, hanno voluto ugualmente continuare pur col temporale alle spalle, e fin troppa strada da dover percorrere. Scrolliamo la testa, il disappunto è esplicito nei nostri sguardi.
Mentre scrivo, mi idrato con una birra media, senza pretese, ma goduriosa da ingollare. La cena giunge come un lampo: spaghetti alla carbonara e spaghetti al pomodoro, uova frittellate con speck e patate saltate e scaloppine di tacchino con patate fritte, strudel e gelato cioccolato e limone. Voto 5.
Chiedo ai rifugisti la disponibilità per avere un vecchio quotidiano, non hanno quotidiani, qui non arrivano. Pondero la mia idea. Chiedo le tovagliette usate per la cena di tutti i commensali, almeno quelle non sporche; acconsentono storcendo il naso. Allo sparecchiamento delle tavolate, scompaiono da una parte le tovaglie di carta e ricompaiono al nostro tavolo. Tutti gli sguardi mi sono addosso, sorrido mentre accartoccio ogni pezzo e lo lascio appallottolato sull’altro lato del tavolo. Sempre con gli occhi sulla mia strana operazione, mi sposto vicino alla stufa, raccatto i nostri scarponi bagnati e li farcisco con le palline, e poi torno al tavolo soddisfatto. Dieci minuti, forse meno, e tutti gli escursionisti sono già affaccendati a copiare le mie mosse. L’indomani avremo tutti gli scarponi asciutti, altro che stufa. Artisticamente realizzato, soddisfatti del lavoro, andiamo in branda per spegnerci in un sogno lungo quanto tutta la notte.