Alta Via delle Dolomiti n.1 – Tappa 8

L’Alta Via delle Dolomiti n.1 è un percorso escursionistico lineare che si sviluppa dal Lago di Braies a Case Bortot (BL), 12 tappe (ridotte a 11 per convenienza), oltre 125 km di lunghezza e più di 7.000 m di dislivello. Noi, per comodità, abbiamo invertito il percorso per evitare di bivaccare al Bivacco del Marmol.

TAPPA 8

(Rifugio Nuvolau – Rifugio Scotoni)

Il buio è totale, non riesco a vedere la punta del mio naso. Devo urgentemente andare in bagno a cambiare l’acqua al merlo, ma ho seri dubbi sullo scendere dal letto, è decisamente alto. Allungo la mano dove immagino riposi il mio orologio, illumino il suo quadrante e scopro che l’orario di sveglia è troppo lontano per poter resistere ulteriormente; devo muovermi altrimenti al piano inferiore pioverà a catinelle. Non oso immaginare la faccia di Giada inorridita dalla scena, tutt’altro che divertente. Come un ippopotamo appollaiato su un albero, cerco di disarrampicare allungando la punta del piede verso quello che suppongo sia il letto inferiore, non ci arrivo, forse mancheranno uno o due centimetri, forse tre, sono completamente esposto, nessuna protezione mi separa dal baratro e, abbarbicato come un bradipo a penzoloni su un ramo, cerco a tentoni di trovare un appoggio, niente. Sono a mezz’aria, oltre la sponda del mio letto, a poco meno di due metri di vuoto, poi il pavimento in legno. Riprovo ad allungarmi verso l’altro letto, sono al limite, non lo trovo, ci riprovo e giù, cado a terra, per fortuna in piedi e tutto integro, tranne per il rifugio che risuona con un eco sordo e profondo. Mi nascondo nell’ombra del buio sperando di non aver svegliato anche i villeggianti di Cortina d’Ampezzo, a qualche decina di chilometri di distanza. Con la sola luce dell’orologio esco con la vergogna stampata in faccia. Il corridoio è illuminato, mi dirigo con lunghe falcate verso il luogo della rinascita, finalmente.
Rientro in camera, sento l’odio altrui che mi osserva nel buio, colpa di un risveglio rocambolesco e tutt’altro che silenzioso. Mi arrampico con più facilità rispetto alla prima volta, sfrutto il letto a castello opposto per un ulteriore appoggio, risalgo lo strapiombante dirupo e mi accoccolo sotto le coperte col cuore in gola, pulsante come una locomotiva in corsa. Il silenzio è zittito dal battito che tuona nel mio torace, non riesco a sentire se ho svegliato qualcun altro.
Mi giro sul fianco destro sperando di riaddormentarmi, invano; questa è la punizione per il mio trambusto.

Alba dal Monte Nuvolau: Monte Gusela (sx) con dietro il Pelmo, Monte Cernera con dietro il Civetta

A un quarto alle sei ci fiondiamo all’esterno per ammirare l’alba. Il cielo è completamente terso e sfumato di mille colori che variano dal blu intenso, verso Occidente, al giallo, a Oriente. Non siamo gli unici intirizziti dalla fredda aria, con noi altre sei persone, tutte con lo sguardo fisso verso il sole in procinto di nascere a nuova vita. Scatto alcune foto ai colori del cielo e alle montagne baciate dai caldi toni dell’alba. Non sono propriamente soddisfatto, le mie fotografie avrebbero preferito senz’altro la presenza di qualche nube spumosa, o tirata dal vento, dipinta con le mutevoli tonalità fredde delle prime ore, calde e romantiche nei minuti a seguire.

Alba dal Monte Nuvolau: la sua ombra si proietta verso la Marmolada illuminata dal primo sole

Lo stomaco brontolante richiama ai doveri, ci fiondiamo all’interno del rifugio per la colazione più triste di sempre: caffè ristretto, poche fette di pane, marmellatine e burrini confezionati. Voto 5. Quest’oggi è andata così, speriamo che le prossime siano normali o, chissà, magari anche ricche, dubito.

Raccattiamo i nostri averi dalla camerata, paghiamo il conto e volgiamo i pensieri alla tappa che ci aspetta: obiettivo Rifugio Scotoni. Più che un rifugio ci attende una specie di alberghetto montano. Dopo tanta vita selvatica, un po’ di comodità è ben accetta, soprattutto se la colazione è abbondante. Mauro, sempre a pensare e a parlare di cibo, almeno cambia ogni tanto.
Scendiamo dalla cima del Monte Nuvolau seguendo una serie di lastroni rocciosi che fungono da sentiero. Più in basso, presso la Forcella Nuvolau, intravediamo il Rifugio Averau. Il mio solitario neurone propone una seconda colazione, ma la forza di volontà vince sulla proposta indecente; purtroppo ci aspetta una giornata lunghissima e non abbiamo molto tempo da perdere. Ci consoleremo con cioccolato e frutta secca, tanto per placare la bestia che presto si risveglierà.
Raggiunto il Rifugio Averau, lasciamo il sentiero roccioso per una noiosa pista da sci, sassi e erba. La monotonia viene soppiantata abbastanza velocemente da un nuovo sentiero che taglia verso sinistra.

Un muretto a secco punta in direzione delle Tofane coperte da un cielo cristallino

D’ora in avanti la traccia seguirà il pendio nord-occidentale del Monte Averau, fra tratti pianeggianti e altri leggermente discendenti. La prima parte è all’insegna di prati fioriti, radi larici e numerosi massi e macigni. Gradualmente compaiono i primi abeti e le arbustive prendono il posto alle erbacee. Infine, restano solo le arboree fra le quali spiccano gli abeti su tutte.

Sentiero di discesa verso il Passo Falzarego, Tofane a troneggiare la valle

Incontriamo le prime persone, in salita, che si dirigono verso i rifugi per noi oramai lontani. Sentiamo che ci stiamo avvicinando alla civiltà, in lontananza aumentano i rumori e suoni provenienti dai motori delle auto, dal clacson dei pullman e dal vociare di alcune persone. Passo di Falzarego è vicino, ne percepiamo l’aurea turistica.
Il bosco termina secco in un ampio prato verdeggiante solcato da un baldanzoso torrentello, poco oltre una mandria di persone cerca il sentiero che le porterà chissà dove, lì a due passi la strada trafficata.
Una volta raggiunto l’asfalto, il nostro unico interesse è quello di lasciarcelo alle spalle per tuffarci nuovamente nella nostra selvaggia solitudine. Presso l’edificio Bar Ra Nona c’è il bivio fra la civiltà e la montagna, ovviamente scegliamo la seconda direzione. Rabbocchiamo le sacche per l’acqua alla fontana, un pezzetto di cioccolato fondente e via verso una nuova avventura.
Il sentiero si tuffa immediatamente nel vicino bosco di abeti e qualche rada latifoglia, prosegue poi fra tratti brevemente pianeggianti e salitelle delicate. I quaranta metri di dislivello positivo ci portano con rapidità a una strada sterrata che proviene da chissà dove; ne ignoriamo le origini, ci interessa il suo divenire, le Tofane. Una prima parte in leggera salita, a destra il quasi verticale pendio e a sinistra il fondovalle di abeti e larici, poi un tratto buio attraverso un tunnel militare scavato nella nuda roccia, successivamente la strada si inerpica lungo il ruvido pendio roccioso che declina ripidamente dalle vicinissime Tofane.

La galleria scavata durante la Grande Guerra

Fra tornanti che guadagnano quota a ogni curva raggiungiamo il bivio che costringe alla virata di rotta: lasciamo la cangiante carrareccia affollata di camminatori per fare nostro un nuovo sentiero. Questo taglia orizzontalmente sotto arcigne bastionate rocciose dalle tonalità grigio-aranciate che ne celano il divenire.
La via corre selvaggia e dà l’impressione di essere poco battuta, ma risalta netta e ben distinta. Dapprima segue una quota prestabilita tagliando una costa forzatamente scoscesa. In seguito scende ripidamente perdendo metri d’altitudine a ogni passo, la caduta, questa, termina al culmine inferiore di questo tragitto ove la curva ascendente riconquista gradualmente quote maggiori. Lungo questo cammino incontriamo numerosi siti ove giacciono resti della Grande Guerra, edifici militari, bunker, ripari per le munizioni o semplicemente accumuli di sassi, legni e ferraglia dimenticati nel tempo. Con fervida fantasia immaginiamo le vite che hanno respirato questi aspri luoghi inospitali, stagioni fredde, fatiche e sofferenze, la guerra; fantastichiamo pensando a cose che mai, e poi mai, potremo realmente provare e con la speranza che non si ripetano.
Caldo, assenza di vento, afa, umidità dalla stagnante presenza, aria densa e pesante. Pelle calda e madida di sudore, spalle gravate dal peso dello zaino, fatiche passate e presenti, e pensieri volti a quelle future. I nostri volti descrivono una sofferenza intangibile, parole scritte dal rossore della pelle e dalle gocce salate che ne rigano la superficie. Il fiato corto annega nella sospensione acquosa che aleggia nell’etere denso come melassa. Ci fermiamo all’ombra di un gruppo di abeti per sorseggiare un nettare delicato, fluido e rinfrescante, rigenerante, acqua di sorgente, la oramai lontanissima fontana del Bar.

Gymnadenia odoratissima, orchidea spontanea

Nei pressi di Alpe Sotecordes captiamo voci lontane e indistinte, chiaramente segno di civiltà. Passatemi il termine, siamo “contenti” di questo ricongiungimento cittadino. Per noi la strada sterrata significa abbandonare definitivamente il supplizio interminabile che ci ha preceduti, accompagnati e inseguiti durante questa afosa marcia sotto gli sferzanti raggi del sole. La nuova aria è anch’essa calda, ma al contrario della precedente è deliziosamente leggera e di facile bevuta. La nuova carrareccia è anch’essa abbacinante, ma scivola rapidamente sotto le nostre affaticate falcate. Questa congiunge il vicino Rifugio Angelo Dibona al più distante Rifugio Tofana, noi non andremo in nessuno dei suddetti, ci limiteremo a percorrerne parte del tracciato per conquistare qualche centinaio di metri di quota e, infine, virare nuovamente.

Gymnadenia odoratissima, orchidea spontanea
Platanthera bifolia ssp. bifolia, orchidea spontanea

Ciurme di camminatori, salgono in grumi di quattro e cinque persone verso i tavoli dei rifugi alpini, agghindati nella moda domenicale del momento. Li sorpassiamo incuranti del loro vociare, l’unico interesse è il prossimo bivio che, inevitabilmente, ci porterà sul sentiero di ritorno di questo infinito tornante dell’Alta Via delle Dolomiti n.1. Sia chiaro, molto chiaro, esplicitamente limpido, quasi perentorio nel suo significato, evidenziato e ingrassettato: evitate di percorrere questa superflua traccia che allunga inutilmente un già di per se esteso cammino, sia chiaro! Chiaro? Questo, non perché è di raccapriccianti vedute (sono stupende e panoramicamente sceniche), non perché è di difficile percorrenza (è praticamente pianeggiante salvo per alcuni tratti di salite o discese), non perché in Estate è un supplizio sotto il cocente sole, non perché è infinitamente lungo, non perché vi fa percorrere chilometri di un immenso tornante che vi porta al punto iniziale (a soli duecento metri di quota di differenza), bensì perché l’ultima frase contiene la pesantissima verità che questi zerovirgoladue chilometri di quota sono decisamente meglio se tagliati nella loro linearità quasi verticale, che nei loro sette milioni di millimetri di sentiero alternativo.
Siamo veramente stanchi, anzi no, stufi. Guardiamo il nuovo tracciato che corre parallelo a quello da poco percorso, seppure a 200 m di quota superiore. Malediciamo entrambe la mia testardaggine nel voler seguire l’itinerario per come è stato ideato, ma oramai sia qui, immersi fra stupende pareti di verticale roccia aranciata che corrono verso il cielo, ghiaioni a perdita d’occhio, radi fiori sparsi fra i sassi e distinti tunnel della Prima Guerra Mondiale che sbucano dalle aspre falesie rossastre. Il panorama è stupendo, unico, ma faticoso. Salutiamo con un arrivederci a tempi migliori, magari con corpi freschi e menti più lucide, certamente per future avventure meravigliose.
La via taglia lungo le propaggini ghiaiose e sassose che si aprono a ventaglio ai piedi delle Tofane, da una parte le verticalità del presente e del futuro, e dall’altra le obliquità del passato. Un breve spuntino, in coincidenza col bivio, ci darà la forza per continuare; dobbiamo solamente trovare un riparo dagli sferzanti raggi solari che frustano i nostri corpi. Dobbiamo riprendere la nostra vita, farla riposare, ritemprare e coccolare con nuove energie.
Camminiamo spediti con gli occhi fissi sui passi, il peso sulle nostre spalle, nelle nostre menti e nei muscoli latticamente acidificati.
Un cartello indicante Grotta della Tofana, punta nelle viscere della montagna. Siamo incuriositi e l’appetito ci solletica la deviazione, ma veniamo inesorabilmente proiettati nel presente: la stanchezza e l’afa annullano questi pensieri e siamo costretti a rimandare a tempi migliori. La marcia serrata prosegue.
Manca poco all’arrivo, o meglio alla passata strada sterrata del tunnel che fu. La vediamo a qualche centinaio di metri di distanza, vicina, quasi a portata di mano, ma le energie stanno sfumando nel vento che non c’è e i nostri corpi necessitano ardentemente di carpire nuove energie da una qualsiasi fonte nutritiva.

Pinnacoli rocciosi delle Tofane

Il paesaggio a noi vicino è brullo, scosceso e non vi è nulla che può minimamente assomigliare a un riparo. Attorno a noi solo sassi e erbe. Un masso, alto forse due metri, allunga una finissima ombra che potrebbe accoglierci. Scendiamo in direzione della massiccia presenza, valutiamo il giaciglio e, incuranti della sporcizia lasciata da incivili, ritagliamo un angolino per noi. Pane con marmellata, cioccolato fondente, zenzero e mirtilli disidratati e tanta fresca acqua. Alcuni minuti, interminabili, ci separano dalla ripartenza. Non possiamo procrastinare oltre, dobbiamo riprendere il viaggio.
Maciniamo la strada che ci separa dall’arrivo con nuove energie spumeggianti, purtroppo è ancora lontano e invisibile. Le Gallerie del Castelletto troneggiano sui nostri sguardi e sulle valli circostanti. Affascinanti, intriganti, sfiziosamente interessanti da percorrere e scoprire, che dire, arrivederci alla prossima occasione. Ora come ora, l’elenco delle cose da fare in questa zona si allunga a dismisura, a ogni passo si aggiungono nuove voci e, sicuramente, molto altro ancora è ignoto ai nostri occhi, alla nostra acquolina, all’insaziabile voglia di scoprire le bellezze di questo mondo.
Forcella Col dei Bois è a portata di mano, qui scopriamo i ruderi di edifici militari di vario stampo e fattura, scheletri dimenticati, anime perdute nel tempo, nelle intemperie e nella sciacalleria generale, immagino. Incuriositi da un sito poco lontano, lo raggiungiamo per scoprire quello che supponiamo essere un quartier generale, un deposito munizioni o altro ancora. I duri e impervi paesaggi circostanti, le nuvole grigiastre che corrono nell’azzurro, la grigia roccia e i prati spogli, le vite che aleggiano nella storia di questi luoghi, rendono ancor più drammatico questo ambiente montano.

Resti di edifici militari nei pressi di Forcella Col dei Bois

La cartina in nostro possesso disegna due linee: una continua e una tratteggiata. La prima è quella ufficiale, punta direttamente alla Forcella Travenanzes. La seconda è quella alternativa, punta al Col dei Bois, gira attorno alla Cima Falzarego e, infine, arriva alla Forcella Travenanzes. Entrambe partono dalla quota di 2.331 m e ambedue giungono a 2.507 m. Quale scegliere? Voi cosa fareste? Noi scegliamo a occhi chiusi, o meglio aperti, mentre volgiamo lo sguardo nelle due direzioni: sentiero pianeggiante e ben segnalato da una parte o sentiero in salita e di dubbia leggibilità dall’altra.

Nigritella rhellicani, orchidea spontanea

Ci incamminiamo seguendo una traccia che in pochi metri si scioglie nelle pietre e nella bassa erba. Minuti ometti di roccia indicano una via che è ben lontana dall’assomigliare a un sentiero. Ci fermiamo, guardiamo alle nostre spalle e il mormorio del dissenso si innalza nel vento. L’ammutinamento è in agguato, ma le speranze non muoiono nel momento in cui veniamo raggiunti da due baldanzosi arrampicatori. Chiediamo lumi, non molto brillanti, ma sufficientemente luminosi per capire dove andare. Col naso all’insù, cerco la via descritta dai ragazzi e, senza perdermi d’animo, porto la mia compagna di avventure verso la salvezza. Scavalchiamo un muro di roccia seguendo una linea erbosa che sale diagonalmente sulla sua verticale parete, sulla sommità compare un plateau montano di prati, sassi e filo spinato. La cima del colle è in vista, Col dei Bois, e da essa ci separa un pendio lineare intagliato da numerose trincee e alcuni bunker.
Il sentiero, dimenticato da tempo immemore, viene ridisegnato dal nostro fiuto puntando al culmine del colle. Seguiamo le ondeggianti curve del terreno cercando la via migliore fra tante inesistenti.

I resti di un bunker lungo il pendio di Col dei Bois

Un tumefatto bunker, solitario e immerso nei suoi pensieri, guarda la valle sottostante con inimmaginabile malinconia. Una linea di trincea intaglia la roccia solcandone in profondità la pelle, una cicatrice di indelebile ferocia. Filo spinato a profusione ingioiella la piana desolata, aggrovigliato in ogni dove, perso in ricordi dimenticati. Pezzi di ferro ovunque, niente di interessante o degno di nota. Assomiglia a un campo arato, dove le erbacee sono state rivoltate sottoterra e i lombrichi piroettano all’infuori della zolla coi loro corpicini mollicci e succulenti per il merlo di passaggio. Non è rimasto nulla, solo polvere in un deserto di roccia ed erba.

Resti di una profonda trincea nella landa desolata di Col dei Bois

Incontriamo un secondo bunker, sferico, assomiglia a una palla di cannone, una corazza spessa mezzo metro o forse più, pietrisco cementificato, feritoie e nient’altro. Stranissimo, mai visto niente del genere, affascinante. Infine, la cima con la sua croce in legno aggrovigliata nel filo spinato arrugginito. Il vento teso, freddo, mormora il silenzio di questi luoghi, trasporta lontano la tristezza, verso le cime inglobate da plumbee nubi grigiastre pronte a piangere lacrime di sofferenza.

I contrasti fra la landa desolata del Col dei Bois e le impervie montagne rocciose dei giorni addietro, il cielo plumbeo incornicia il panorama

Col dei Bois rimane alle nostre spalle mentre scendiamo seguendo una traccia ben visibile e segnalata che taglia obliquamente nella direzione del sentiero dell’Alta Via delle Dolomiti. Tratti franosi si alternano ad altri rocciosi, i colori grigi mutano coi rossi, i verdi delle erbacce sono radi all’opposto dei cumuli di filo spinato, lattine rosso-aranciate, pezzi di ferro e travi di legno sbiancato dal sole e dal gelo. Attraversiamo un ruscello e poi riprendiamo la marcia sull’erba. La via ufficiale ci aspetta a breve distanza, la raggiungiamo e volgiamo lo sguardo verso il colle, le emozioni vissute e le immagini di quel che è stato.

Val Travenanzes e i Cadin di Lagazuoi

Forcella Travenanzes ci attende nel sole e nel vento. Troviamo riparo accanto a un masso poco distante, un solido riparo per una breve pausa, cioccolato, zenzero, acqua. E ripartiamo.
Strada sterrata, ghiaioni verso cielo e ghiaioni verso valle, tutto è friabile. Ogni valle, ogni monte, ogni luogo è diverso dal precedente e dal successivo. Seppure la roccia sembra statuaria, sedentaria, ferma e immobile, ha un passato ricco di storie da raccontare, evoluzioni continue, lente e frenetiche, scalate verso l’alto e frane verso il basso. Mi meraviglio per ogni cosa la natura riesce a regalare, da una foglia secca a una crepa in una parete, da un granello di quarzo a una splendente orchidea spontanea, dallo schiamazzare di un gracchio alpino al volteggiare soave di un’aquila, dal profumo del fieno appena tagliato a quello del sottobosco umido di un fitto bosco.
Noi saliamo, fiumane di gente discendono. Personaggi di ogni tipo sputati dalla funivia, fagocitati dal ristorante e vomitati per il ritorno alle auto. Sguardo basso, un passo dietro l’altro, e puntiamo verso la Forcella Lagazuoi (2.572 m s.l.m.).
Ci attende una nuova valle, di roccia e di radi prati, che si perde all’infinito in un mare di altrettanta pietra e fili d’erba. A sinistra il Sentiero CAI 20, a destra il CAI 20A, il primo ufficiale, il secondo variante. L’indomani andremo a percorrere una breve parte del CAI 20, quindi cogliamo l’occasione per non camminare sulla stessa ghiaia oltre una volta, quindi seguiamo i segnavia alternativi. Allungheremo il percorso di poco e il dislivello è praticamente sempre in discesa, quindi non ci preoccupiamo.
La prima tratta è su piatte rocce che in molti punti annullano il sentiero e la traccia diventa un’idea sulla dura pietra. I segnavia bicolor non sempre sono ben visibili e in un paio di volte rischiamo di perderli, non perché assenti, bensì perché rivolti al contrario. Non disperiamo e non ci perdiamo. Più avanti, il sentiero è talmente ben solcato nel terreno che è impossibile perderlo: ci troviamo sulla pista da sci, o meglio sull’ampia traccia di pietra e sassi che dovrebbe rappresentarla. Questa scende senza se e senza ma, la seguiamo in silenzio coi nostri pensieri annebbiati dalla stanchezza.
Una marmotta al pascolo si immobilizza al nostro arrivo e scappa a zampotte filate nella vicina tana. Ammiriamo la sua leggiadria grassoccia che traballa a ogni passo, onde sinuose di grasso ondeggianti sotto la pelliccia color nocciola chiaro e scuro.
La pista sterrata segue la sinuosità rocciosa del Lagazuoi Piccolo, con essa anche i tracciolini di bianco e rosso dipinti. In prossimità di Col Boccià, la strada devia verso destra, mentre segnaletica e cartina indicano la direzione opposta. Non sappiamo minimamente dove si dirige la finta carrareccia, se non fossimo stanchi lo potremmo immaginare osservando attentamente la mappa. Sappiamo con certezza assoluta dove è diretto il sentiero: dapprima Forcella Sellares e infine Rifugio Scotoni.
Il sentiero scende gradualmente seguendo i profili collinari dei dossi una volta ricoperti dai ghiacci che in tempo immemore nascondevano questi luoghi. Ora prati e sassi, roccia, ghiaia, rigagnoli, radi pini e larici.
Forcella Sellares è in nostra attesa a quota 2.250 m, oltre il suo confine una nuova valle con una lontana strada, un rifugio e un laghetto. I nomi vengono ben presto dimenticati, i nostri neuroni hanno altri pensieri per la testa: l’arrivo. Puntiamo verso Nord-Est, tagliamo in costa il dosso, risaliamo, imprechiamo all’incrocio con un sentiero intravisto in precedenza e, poco oltre, la pista da sci in veste estiva. A saperlo evitavamo di allungare ulteriormente il tragitto, pazienza. La via scivola verso valle con ripidità decisa, secca, che taglia le gambe doloranti, le ginocchia risentono della lunga fatica, del peso dello zaino e l’assenza di energie.
Torno alla realtà nell’incontrare pini, di che razza e specie non saprei proprio, che inaspettatamente caratterizzano l’ambiente circostante coi loro tronchi contorti, vecchi, arsi dal vento e dal freddo, dal tempo e dalle infinite esperienze di vita che hanno veduto. Molto affascinanti e, mi ripeto, inaspettati. Fino a questo momento, lungo tutto il tragitto dell’Alta Via delle Dolomiti, mai avevamo incontrato un ambiente così fascinoso, oserei dire magico.
Torno alla realtà nell’incontrare nuovamente la mia stanchezza che martella, passo dopo passo, le mie articolazioni. Chissà quanto manca: dieci minuti o più, un’ora o più. Siamo nel buio di questo estenuante pomeriggio. La mia compagna trotterella avanti a una decina di metri, io arranco in discesa puntellando le racchette per ammorbidire ogni passo.
Un lontano vociare, quanto mai desiderato, giunge alle nostre orecchie assieme alla vista di un ampio pratone verdeggiante, minute persone, vacche al pascolo, il rifugio tanto sognato, bramato. Sorrido dal dolore, piango dal sudore, la vista si incrocia e le fatiche si annebbiano. Stringo i denti, imprecazione dopo imprecazione conquisto il pianoro sottostante. Un centinaio di metri ci separano dalla meta, un guado in secca, alcune mucche, dei bambini zampettanti attorno a due alpaca e l’arrivo. Un attimo, alpaca? Vedo bene o è un miraggio? Giada mi rimprovera che non l’ho ascoltata, quando eravamo a casa mi aveva già anticipato di questa presenza sofficiosa, ma il mio neurone l’aveva bellamente dimenticata. Sbuffa e si lancia verso i due paffutelli. Io tiro dritto, li ammiro in corsa e mi tuffo sulla panchina finale. È finita!

Ora, facciamo il punto della situazione: stremati, stanchi, puzzolenti, sporchi, affamati, assetati e quant’altro non mi viene in mente da scrivere. Entriamo in rifugio, albergo direi, e veniamo accolti da un baldo giovanotto con gli occhi palesemente annebbiati da qualche birra di troppo, sorrido e penso a quanto lo ammiro. Ci accompagna nella camerata da quattro, con bagno annesso e doccia calda senza gettoni, ridiamo dalla gioia e pensiamo a quanto invidiamo noi stessi.
Camera in legno chiaro, immagino di larice. Due letti a castello, un ampio bagno con paradisiaca doccia calda, un wc privato, un lavandino tutto nostro, un terrazzo dove stendere i panni da lavare, una stanza ampia per potersi muovere e far esplodere i nostri zaini senza invadere spazi altrui. Lusso, sfrenato aggiungerei.
Smontiamo gli zaini pensando alla doccia, laviamo i panni pensando alla doccia, stendiamo i vestiti gocciolanti pensando alla doccia, pensando alla doccia attendo Giada mentre sguazza sotto la doccia. Al mio turno, sciolgo ogni singolo muscolo sotto il caldo getto, ogni singola stilla di energia rimasta si diluisce nell’acqua che fluisce nello scarico. Ne esco rigenerato e demolito, nuovo e stanco morto.
Come usciamo dalla stanza entra una coppia, anche loro in cammino sull’Alta Via, ma in senso contrario al nostro. Loro si riprendo dalle fatiche, noi ci fiondiamo all’esterno per godere degli ultimi raggi di sole. Meritatissimo relax in attesa della cena. Weissbier per me e Coca Cola per lei, entrambe a ridacchiare delle buffe figure al pascolo, animali teneramente bizzarri.
Prendiamo posto a un tavolo in legno immerso nella fresca aria che aleggia nella valle. Ne rivendichiamo la proprietà fittizia inondandolo con le nostre cianfrusaglie: quaderni, biro, carte da gioco e il mio powerbank al quale dipartono cavi diretti all’orologio e ai cellulari, un groviglio di tecnologia. A poca distanza dei bambini importunano gli alpaca che, indifferenti, brucano la rasa erba ai loro piedi.
Il sole è incastonato nella cornice disegnata dai pendii scoscesi dei vicini monti, si muove molto lentamente nel suo degradante arco celeste. I caldi raggi luminosi penetrano nell’incavo montano irradiando piante, rocce e le nostre membra stanche. Chiudo gli occhi, inspiro a pieni polmoni la leggerezza dell’aria, i suoi profumi che parlano di bosco, roccia, terra, erba, resina e legna. Una calda coperta mi copre la schiena con un tepore rigenerante, morbido, avvolgente, sensuale. Vorrei sdraiarmi e perdermi nell’eternità del momento, sciogliermi come neve al sole e diventare linfa per il terreno, dimenticare le fatiche ed evaporare nell’etere del meriggio agostano. Torno alla realtà quando una fredda goccia di condensa scivola sulle dita della mano, sorseggio la birra coi pensieri rivolti alle esperienze appena trascorse. Il tepore dell’aria si stempera con le fresche sorsate che solleticano la gola.
Percorriamo nuovamente ogni centimetro dei sentieri calpestati quest’oggi, ogni filo d’erba incontrato, ogni sasso scricchiolato. Ci emozioniamo nuovamente quando viviamo ogni singola sensazione, le bellezze e le fatiche, il caldo e il sudore, i profumi, i sapori e la contentezza del vivere il lungo viaggio, le sue scoperte e le svariate novità.
La realtà ci sfugge di mano non appena il sole scompare gradualmente fra le fronde di lontani larici, poi fra erbe e rocce e, infine, l’ombra ci inghiotte. La temperatura degrada lentamente all’allungarsi dei bui toni delle sagome montuose proiettate dalle luci nascoste del sole. Al trascorrere dei minuti si estendono conquistando la valle, ne passa uno e scompare un ciuffo d’erba, un altro e il corrispettivo rododendro, un’altra manciata e il relativo larice, diversi altri ancora e il crinale lentamente si spegne in toni di verde scuro, divenendo più cupi con l’incalzare dell’oscurità. Il tempo svicola via assieme alle ombre.

Ora, pensiamo alle cose serie, la cena. Arriva, finalmente, un rifugista per rapire le nostre ordinazioni: penne col ragù per lei, rusticiada e strudel per me. Poi scompare alla stessa velocità con cui è piombato al tavolo. Una manciata di minuti e arrivano i nostri piatti, peccato non poter divorare anche la ceramica sulla quale sono arrivate le pietanze, abbiamo una fame animalesca! Voto 7.
A cena terminata, soddisfatti e piacevolmente sazi, rientriamo nel salone principale per ottemperare alle ultime partitelle a carte, Machiavelli prima e Scala 40 dopo. Giada massacra il mio ego per disintegrarlo all’ultimo match. Col calare delle tenebre sul mondo racchiuso nella valle, spostiamo i nostri corpi verso quella che si prospetta una dormita epocale, nel lusso di questo albergo. Notte mondo, a domani per un’altra avventura.


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