Col passare degli anni acquisisco la consapevolezza che la vita è una scoperta continua, ma allo stesso tempo mi rendo conto che l’azione della scoperta è la quotidianità della vita stessa.
Continuativo e quotidiano, aggettivi che presi da soli sono normali, forse noiosi o addirittura banali. Inseriti in una frase accanto alla scoperta, continua scoperta o scoperta quotidiana, sembrano più intriganti, avvincenti e imprevedibili, sicuramente tutt’altro che tediosi nella loro singolarità. In questo è da ringraziare colei che ha il potere di mostrare nuove realtà, improvvise e inaspettate, qualunque esse siano.
La scoperta
I fari dell’auto illuminano il selciato asfaltato della strada che zigzaga in curve e tornanti puntando verso casa. A sinistra, il guardrail scorre veloce in una linea serpentiforme che diviene confine fra il mio stretto mondo e la nera vallata sottostante. A destra, invece, corrono veloci sagome informi, distinti grovigli di mutevole forma e dimensione, miscugli di matasse ingarbugliate di luci e ombre che al passare dei fasci luminosi si trasformano in mostri lugubri e spettrali; proiezioni di forti emozioni appena passate, metamorfosi astratta di arbusti e tronchi d’albero.
E’ notte fonda, scura come la pece più buia. Potrebbe essere mezzanotte, in verità sono le sette di sera (a Novembre il giorno ha vita breve).
Le stelle brillano nel cielo, ma non riesco a scorgerle. I miei occhi non vedono altro che la strada, sconosciuta, quindi imprevista, rischiosa e potenzialmente pericolosa; in questo momento ho occhi solo per lei, il resto può attendere. L’unica rassicurante certezza è il mio compagno di viaggio, il navigatore puntato a Granada.
Sono in ritardo, mi aspettano impazientemente per la cena. Le innumerevoli ore trascorse dalla mia partenza non potrebbero essere contenute tutte assieme in una giornata, ne servirebbero almeno due capienti.
Il viaggio è una macedonia sconclusionata di ananas, olive taggiasche, polpa di tamarindo, cetrioli, rucola, zucchero e pepe, e una spruzzata di aceto bianco di mele. Occhi, bocca, naso e stomaco sono disgustati all’idea di questo ambiguo miscuglio; che in fondo ha un suo perché. Gli ingredienti scelti (decisi per puro caso) rappresentano i ricordi, le emozioni e le pazzie di quest’oggi: l’avventura più emozionante della mia vita; almeno fino ad ora.
Lascio l’auto in un piccolo parcheggio sterrato della Strada A-4050, comunemente conosciuta come Carretera de la Cabra; almeno dalle parti di Otívar, in provincia di Granada.
L’aria è briosa, fresca, profuma di terra, di macchia mediterranea, di spezie e di legno arso dal Sole estivo. Il vento soffia impetuoso nelle chiome dei radi alberi, questi ondeggiano in un mare turchese al ritmo delle sferzate che trasportano essenze e fragranze senza nome. Mi chiedo quanto possa durare questa buriana e quanto potrò resisterle prima di capitolare, esaurito e frastornato.
La cartina digitale in mio possesso è il confine tra l’immagine bramata e la realtà che non conosco. Due mondi opposti: da una parte la programmazione del viaggio su carta (a Settembre in Italia) e dall’altra gli obiettivi da raggiungere su terra (a Novembre in Spagna), un lembo di terra a unirli chiamato Francia e uno temporale detto Ottobre.
Supero quest’inesistente linea che delimita spazi, ambizioni, progetti, idee, immagini e ignoto. L’avventura, quella sprezzante emozione di cui non riesco a fare a meno, è semplicemente libertà. Quella stessa libertà che mi sottomette alla sua dipendenza, come una droga.
Il sentiero che porta al Río Verde si dimentica bene presto dell’auto bluette, solitaria in compagnia del vento. Entra in un mondo che mai avrei immaginato, tantomeno sperato. Abituato ai classici boschi di latifoglie e conifere delle Alpi, trovarsi in uno nuovo è una scoperta inimmaginabile. Erbacee, arbustive e arboree, tutte assieme appassionatamente in un miscuglio disordinato, naturale, armonico e armonioso come le fragranze che lo saturano. Menzionare le sconosciute è impossibile, al contrario posso convocare la quercia, il corbezzolo, l’erica arborea, l’oleandro e il rosmarino. Quest’ultimo, primo fra queste essenze presenti o assenti, non immaginavo minimamente come potesse essere in natura; al massimo nell’orto di casa o in qualche siepe aromatica. E’ ovunque, sparpagliato a macchia di leopardo nel sottobosco con portamenti sgraziati e disordinati, minuto o mediamente elevato. Arricchisce il bouquet di profumi della macchia mediterranea con il suo aroma inconfondibile, intenso e speziato. Lungo il sentiero sottraggo alcune foglioline a un’ignara pianticella e, consapevole del reato commesso, le strofino avidamente fra le dita portandomi al naso la sua travolgente fragranza.

Il ricordo della strada si allontana con il proseguimento della traccia che solca i rosmarini. Questa zigzaga morbidamente lungo il versante settentrionale del lungo colle perdendo quota con molta calma. L’ultima parte, invece, è un pizzico più frettolosa e, all’opposto della prima, serpeggia più rapidamente fino a raggiungere la Cascada de los Árboles Petrificados. Senza masticare lo spagnolo, si capisce abbastanza chiaramente a cosa sia riferito il nome, meno la sua origine.
A risolvere l’enigma ci pensa un cartello informativo: negli anni ’20, le aziende del legno di queste montagne trasportavano i tronchi de el pino resinero (Pinus pinaster, pino marittimo per intenderci) verso valle presso la segheria Cázulas. Durante il trasporto, alcuni tronchi rimanevano incastrati in punti di difficile accesso, come questa cascata. Col passare del tempo, il calcare disciolto nell’acqua del torrente si è depositato nei e sui tronchi formando concrezioni porose di calcare che assomigliano al tufo. L’elevata porosità è dovuta ai materiali vegetali dei tronchi che durante la decomposizione sono scomparsi lasciando buchi al loro posto. La roccia formatasi conserva la forma del tronco originario.

La natura riesce sempre a sorprendere. Seppur l’uomo cerchi di domarla, lei riesce sempre a trovare la sua strada, qualunque essa sia, per trovare il suo unico e inimitabile equilibrio. In questo caso, creando arte e bellezza.
Il sentiero confluisce nella vicina carrareccia sterrata, di un bianco accecante, proveniente da un altro ingresso alla valle. Era l’alternativa al sentiero, ma non v’è confronto nella scelta, il sentiero vince sempre a mani basse su una strada sterrata.
Seguo la nuova arrivata che si insinua maggiormente nel ventre del canyon chiamato Barranco acuático las chorreras. Alcune curve dopo, sul lato opposto della valle, ci sono altre formazioni rocciose di origine calcarea che caratterizzano l’intero versante di quel colle.



Altre cascate simili alla prima, con o senza tronchi nel ventre; questo non riesco a capirlo dalla distanza. Il calcare grigio-ocraceo assomiglia alle sculture di sabbia che facevo da bambino quando colavo sabbia e acqua con la mano e si formavano pinnacoli e colate informi, rigate e sgraziate. E’ il pendio del colle a essersi sciolto o sono i depositi calcarei ad aver creato queste butterazioni scarificate dall’acqua? Una domanda che resta senza risposta, forse un giorno chiederò a un geologo.
La strada cangiante segue a breve distanza il Río Verde, qualche metro più in basso. Gradualmente, fra curve e tornanti, perde ulteriormente quota fino a raggiungere il torrente dalla flemmatica pigrizia.

Inizio a intuire il motivo per cui hanno chiamato questo fiumiciattolo, Río Verde. Sarà per il colore?
Finalmente quest’oggi potrò sfogarmi con tutti gli effetti seta che vorrò creare, che contentezza, che bellezza! Vorrei urlarlo ad alta voce, ma che gusto c’è a condividerlo se sono l’unico a sentirlo. Ebbene si, non ho incontrato un essere vivente, a parte quelli del regno vegetale.
Riempio gli occhi con questi stupendi colori, sfumature, screziature, di verde su verde e di verde in contrasto con le calcaree rocce grigio-aranciate.
Attraversato il torrente, la via diviene sentiero. Mantiene la quota seguendo l’isoipsa da lui scelta fino a raggiungere il versante opposto della valle. Da una parte cespugli di essenze varie ed eventuali (che non conosco) si inerpicano con tenacia sul versante scosceso del colle roccioso, dall’altra gli stessi arbusti si tuffano a capofitto verso la sottostante valle. Qui si apre a “Y” nel punto di unione con una minuta laterale, quella dove termina il traverso panoramico. Questa apertura sul canyon mostra un panorama spettacolare che si estende linearmente lungo il corpo centrale della stretta gola. Lungo entrambe i versanti orografici, pendii impervi corrono su e giù per i monti che ghermisco la valle. I grigi-ocracei della terra secca sono ammantati dalla rada vegetazione della macchia mediterranea. Il vento, oramai un ricordo lontano, trasporta gradevoli fragranze proveniente dalla terra secca e dalle piante aromatiche.
Raggiunta la vallecola opposta, la traccia ben segnata discende nel canyon con brevi tornanti e senza grandi difficoltà.
Nella fitta boscaglia, a pochi metri di distanza, dei movimenti rapidi fuggono allo sguardo per allontanarsi sul versante opposto. Avanzo con passi leggeri per non far scappare la preda fotografica, si mimetizza perfettamente nella vegetazione secca e non riesco a scorgerla. Mi fermo davanti a una finestra luminosa della boscaglia, resto immobile per alcuni secondi, attimi utili per far muovere la curiosità ai tre stambecchi iberici (Capra pyrenaica).

Loro, una femmina adulta e due cuccioli, e io, un escursionista straniero, ci osserviamo sulla distanza, entrambe incuriositi dall’inusuale apparizione.
Sento il Río Verde gorgheggiare fra i lontani anfratti della forra, la curiosità mi assale. Allontano l’attenzione verso il fondovalle, col loro sguardo incollato alla mia sagoma misteriosa.
Il paradiso all’improvviso, perdo i sensi nei minuti o forse ore a seguire. In totale estasi per le rocce a picco sull’acqua, per i verdi che nascono da spumeggiante bianco, per l’acqua saltellante che si tuffa da gole strette, impossibili, inaccessibili.



Immagino quanto sia emozionante percorrere in discesa il Río Verde facendo canyoning, torrentismo. Alla prossima occasione, un’altra avventura su cui affondare le zanne.
Il sentiero continua, si fa per dire. Incontro un cartello esplicito, ma non troppo: Fin de Sendero Río Verde. Cosa significa? Indica la fine del percorso, in quanto è terminata la parte ufficiale del tracciato, o effettivamente non si può proseguire? La traccia continua, che fare? Mi trovo a un bivio: tornare sui miei passi o proseguire? Che domande.
E’ primo pomeriggio e ho ancora parecchie ore al tramonto. Il sentiero del Río Verde segue la sua linearità ufficiosa, con esso la mia presenza, proseguo. Alla peggio procederò lungo la strada asfaltata che nasce alla fine del canyon, l’alternativa rispetto a ripercorrere i miei passi. Accettabile, fattibile.
Un ponte di cavi d’acciaio e assi in legno ben tenute porta la via sul versante opposto, al tiepido sole novembrino. Volo da una parete all’altra, poco più in basso il torrente sguazza fra le rocce calcaree per raggiungere una pacifica pozza d’acqua verde smeraldo.
Peccato sia Novembre, le acque del Río Verde fanno perdere la testa da quanto sono ammalianti e seducenti. In sé non è freddissima, ma non è il caso di ammalarsi; meglio rimandare a stagione più consona.

Ho altro a cui pensare: lunghe esposizioni e effetti seta dell’acqua. Bastano questi per nuotare con gli occhi in questi colori e trasparenze; che bellezza…
Proseguendo si raggiunge in breve tempo un altro ponte che attraversa per una seconda volta il torrente; o meglio, attraversava. Il ponte è riverso sulla riva rocciosa e giace inerme, dimenticato. Oltrepassarlo non è difficile, basta non cadere in acqua con tutta l’attrezzatura fotografica.
Sul lato opposto si innalza una parete rocciosa diversa da quelle incontrate fino ad ora, assomiglia alla volta di una grotta con innumerevoli stalattiti che penzolano come grappoli di glicine. La traccia porta nei pressi della grande bocca cavernosa, e una brevissima deviazione direttamente nelle sue fauci, fra i suoi denti. Ricordo perfettamente l’assenza di questo posto su mappe, cartine, percorsi studiati prima di inoltrarmi in questo viaggio; non ne capisco il motivo. Un’altra volta ancora e resto senza fiato. Descrivere la sua maestosità è inimmaginabile, è qualcosa di immenso. Sarà alta diverse decine di metri, una mezza sfera spaccata a metà chissà da cosa, chissà in quale era preistorica. Stalattiti e stalagmiti si guardano a distanza. I grigi-ocracei, quasi aranciati di questo ambiente mastodontico contrastano i verdi delle vicine piante, minute e quasi insignificanti. Le formazioni calcaree sono butterate, porose, spugnose, seppur dure come roccia. Anche qui servirebbe un geologo per illustrare tecnicamente questa creazione artistica della natura.




Questa cattedrale di roccia calcarea è un’emozione immensa, quanto la sua mole arcuata. La mente fantastica in arrampicate strapiombanti fra quei pinnacoli porosi, in curve impossibile a testa in giù sopra metri e metri di vuoto su cui volare. Non vedo segni umani, chiodi, spit o altro, quindi pare inviolata, forse è protetta, forse non la conoscono gli arrampicatori, forse non saprei. Talmente bella, talmente sconosciuta. Continuo a non capire il motivo della sua inesistenza al mondo, tranne quella fisica che odora di umido e roccia.
Torno sui miei passi, attraverso nuovamente il Río Verde per portarmi sul versante al Sole. Il sentiero ora prende gradualmente quota per proseguire oltre in un lungo traverso immerso completamente nella macchia mediterranea.
Lungo l’ascesa trovo sul bordo del sentiero una giovane Capra pyrenaica distesa a terra in un sogno eterno. Credo sia morta da poco, non è gonfia, non ci sono mosche o insetti. Forse sarà scivolata a valle dal pendio impervio sovrastante, forse era malata, oppure i segni del delitto sono sul lato della salma disteso a terra; di certo non la sposto. Un particolare è strano e aggiungerei fuori luogo: manca l’orecchio sinistro. Da ignorante in scienze forensi non sembra strappato, bensì tagliato. La fantasia vola in lidi sconosciuti che è meglio non seguire e investigare, non è il caso di indagare oltre, è sufficientemente inquietante la scena in un contesto selvaggio.
Lungo la via si incontrano due terrazze sulla valle sottostante, punti d’osservazione che regalano brevi pause ad ammirare la bellezza selvaggia della valle.
Inaspettatamente, come la maggior parte delle scoperte di quest’oggi, trovo una pianta di corbezzolo coi frutti maturi. Non posso rifiutarmi di rubarne qualcuno per assaporarne il delicatissimo sapore acidulo; un sapore che quasi avevo dimenticato.
La discesa porta all’ultimo ponte, il penultimo attraversamento. L’ultimo è poco più avanti, su massi grigio-biancastri, e con questo finisce l’avventura. Indimenticabile!
Dimenticavo, ora manca solo il ritorno. Guardo l’orologio, segna le 17:00. Ho almeno tre ore per il ritorno, senza soste e a marcia serrata, ma tornare dal sentiero o per la strada? Bel dilemma. Il sentiero lo conosco, la strada no. Il sentiero è sicuramente più lento, ma la strada è lunga. Vorrei usare Google Maps per capire quanto ci vuole a piedi seguendo la strada, ma in questa forra non c’è campo e, purtroppo, non mi ricordo assolutamente quello che avevo studiato a casa. Cavoli, che fare?
Opto per la strada per un semplice motivo: sulla strada passano le persone, su questo sentiero ci sono solo io e gli stambecchi iberici, ovunque essi siano.
Metto il piede sull’acceleratore e sgambetto lungo la pianeggiante strada sterrata che continua nella forra.
Parcheggi deserti sono la prima avvisaglia di civiltà, seppur inesistente. Oltre, il mondo selvaggio, rude e duro del canyon del Río Verde.
Le pareti divengono verticali, strapiombanti, sembrano inglobare il cielo facendolo scomparire. Queste falesie verticali e arcuate le une verso le altre sono impressionanti. Hanno concrezioni calcaree che si sciolgono cadendo verso il basso, segnate dal tempo, dalle intemperie. Colori, forme, luci e ombre, contrasti di roccia su roccia, e ancora roccia su roccia.
La stretta forra termina come tagliata da un coltello, al di là un’ampia vallata verdeggiante.
La strada sterrata continua fino a raggiungere un bivio, prendo la via di sinistra, in ascesa diretta verso oliveti e rade casupole. Interpello nuovamente il navigatore e la macabra scoperta: 13 km e 2h 30min. Impreco alla mia pazzia che vuole sempre strafare!
Ricapitolo cosa mi aspetta: mancano circa 13 chilometri fra me e l’auto, mancano circa 150 minuti fra me e l’auto, mancano esattamente 60 minuti fra me e il tramonto, ora 59, e poi ben 90 minuti di buio in un posto che non conosco, su una strada che non conosco, dove posso incontrare chiunque e qualunque cosa, fra il tramonto e l’auto. Bene…
Ingurgito alcuni biscotti e idrato il corpo, mi attende una la lunga marcia serrata.
Ora ho 57 minuti di luce, bene…
Dire che metto le ali ai piedi è un eufemismo, le gambe iniziano a vorticare a tal punto da sollevare la polvere nella mia scia; sono al confine fra camminata veloce e corsa. La seconda mi è impossibile per via dello zaino che pesa parecchio, ora troppo. Fra una macchina fotografica e tre obiettivi, fra il drone e il cavalletto, fra una cosa e l’altra, sicuramente sto sgambettando con oltre 7 chilogrammi di goduria; bene.
Tengo monitorata la mappa di Google Maps, tra 6 tornanti e 5 curve posso affrontare il primo taglione.
Lungo la tranquilla camminata di quest’oggi ho tenuto i muscoli caldi, mai affaticati, e ora sentono il riscaldamento come dolce nettare per martellare come non mai.
Primo oliveto, rallento, guardo verso l’alto nella speranza di intravedere il tornante superiore, ma lo gli occhi incontrano erba secca e alta fino al ginocchio, e una ripida salita. Scatto in avanti, tuono lungo il pendio con il cuore martellante. Alla strada rallento quanto basta per riprendere fiato, seguo il tornante, una curva e di nuovo tuono lungo il pendio coltivato a olivi. La strada successiva, pur sempre la stessa di prima, prosegue in una lunghissima curva, un tornante, un’altra curva, un altro tornantello e poi su in volata, tuono nuovamente fra le sterpaglie dell’ennesimo oliveto.
Finalmente raggiungo la Strada A-4050, mancano 10 chilometri e 130 minuti, bene…
Sull’asfalto posso accelerare ulteriormente, quindi ingrano una marcia che non ho e via di corsa, quasi.
Di scorciatoie e taglioni non v’è traccia, l’unica via d’uscita è mantenere il ritmo più elevato possibile.
Il panorama all’imbrunire è stupendo, indimenticabile. Le linee delle montagne si allontanano verso il blu del mare che si fonde col cielo, verso minuscoli puntini luminosi di vita cittadina. Intangibili stelle accennano alla notte a divenire in compagnia del tenue chiarore dell’ultimo Sole, emozionano il panorama con i caldi del tramonto sotto una volta timidamente luccicante.
Impreco, non per la bellezza di tutte questo, ma per la stupidità d’aver sottovalutato il percorso completo.
Mancano 7 chilometri e 90 minuti, bene…
Ultima salita e poi dovrebbe spianare. Iniziano a balenarmi in testa un paio di idee malsane che preferisco scartare, almeno per il momento. Ora penso a due cose, mantenere il ritmo serrato e godermi il tramonto. Spettacolare ed emozionante; la descrizione può terminare qui, non ho tempo da perdere.
Oltrepassato l’ultimo tornante c’è una specie di rettilineo, stringo lo zaino alla vita e sulle spalle, e mi metto a correre come se avessi un toro imbizzarrito alle spalle. Cento metri più avanti rallento al passo precedente, ma mi piace soffrire, ripeto l’operazione per altre tre volte, poi rinuncio. In tutto questo ho guadagnato minuti preziosi al buio che, purtroppo, arriva come una mazzata dal ciel sereno.
Mancano 50 minuti e 4 chilometri, bene…
Riprendo le idee malsane per valutarle: lasciare lo zaino nella boscaglia bordo strada per correre verso l’auto e riprendere poi il fardello (non c’è nessuno, è buio e nessun vedo lo zaino) oppure l’autostop. Scarto la prima per paura di non ritrovare lo zaino, al buio non è facile trovare solidi punti di riferimento, momentaneamente scarto la seconda perché ad ora ho incontrato solamente mezzi in discesa, non in salita.
Accendo la luce frontale per farmi vedere, non si sa mai che qualcuno mi travolga nell’oscurità.
A circa 2 chilometri, forse più, forse meno, vengo raggiunto dai fari di un’auto in avvicinamento dalla mia stessa direzione. Cosa fare? Manca poco a piedi, ma è già tardissimo. Alzo la torcia e mi illumino, illumino il pollicione della mano puntato verso l’alto, le altre dita chiuse a pugno; non è un gesto universale? Lo spero, ma spero anche che non si fermi qualche pazzoide.
Un saltello temporale indietro di circa 150 minuti. Nella malaugurata sorte di dover optare per l’autostop, oltre a nascondere tutta l’attrezzatura nello zaino, predispongo 5€ nel portafogli e il resto in una tasca interna del fardello assieme alla carta di credito. Così, in caso decida di fermare qualcuno, ho l’opzione 5€ di ringraziamento e nient’altro da dare, o da rubare.
Un’auto sgangherata, forse proveniente direttamente da uno sfasciacarrozze abbandonato, si ferma. Incrocio le dita. Nell’abitacolo si accende una lucina fioca come un lumino da cimitero, intravedo due sagome, una maschile e una femminile. Il finestrino del guidatore si abbassa con lentezza infinita, a quest’ora ero già alla mia auto, penso. Sbuca una testa di un signore di mezza età scarmigliato, da dietro una ragazza che avrà avuto la mia età, padre e figlia? Chiedo un passaggio con un’amalgama di inglese, italiano e spagnolo, ci capiamo, forse, spero. Lei scende, circumnaviga il mezzo e con un sorriso tanto dolce quanto raggelante mi apre la portiera, oltre quel varco il delirio fatto e finito. Sposta robe sulle altre robe, cose sulle altre cose, una discarica. Sul sedile posteriore c’è la qualunque, pensa a una cosa, e c’è! Mi tuffo nell’abitacolo portandomi appresso il fardello. Siamo stipati, io, lo zaino, e il sudiciume di non so cosa, quando, chi e perché, senza dimenticare il come come quinta “W”.
L’auto parte, spiego alla bell’è meglio dove ho parcheggiato, proseguiamo.
La coppia stravagante è diametralmente socievole, lui non spiccica una parola, lei qualche domanda la pone. Racconto la mia avventura per sentirmi rinfacciare uno sguardo sbigottito per il percorso lunghissimo che ho affrontato. Forse accennano a definizioni di “pazzo“, “scriteriato” o altri termini ispanici di impossibile traduzione. Per il resto chiacchiere fra autostoppisti e supertramp, vagabondo super pazzo direi.
Intravedo l’auto sul posteggio di sinistra dopo meno di 5 minuti d’auto, segnalo la fine della corsa. Si fermano, si guardano e mugugnano qualcosa di incomprensibile. Spero non vogliano la mia auto in cambio dell’autostop, sarebbe il colmo tornare alla Sixt con questa lattina arrugginita. Però chissà, magari in questo delirio c’è qualche tesoro nascosto.
Li ringrazio e di rimando, come avevo immaginato, mi chiedono dei soldi. Prendo il portafoglio, estraggo il 5€ e lo porgo alla ragazza. Domandano se ho altro da offrire, soldi si intende, non organi interni; la cortesia è stata sicuramente gravosa e onerosa. Docilmente, con sorriso a trentasei denti, mostro le due tasche vuote, buie e tenebrose del portafoglio. Però, prima di lasciarli a bocca asciutta, amara e con quella sensazione felpata tanto sgradevole, sfodero tutta la monetina in mio possesso. Sembrano soddisfatti con la piccola banconota in una mano e le numerose monete tintinnanti nell’altra, sorridono.
L’incontro inatteso si conclude con un saluto reciproco. I due fari che mi hanno raccolto scompaiono nella più impenetrabile oscurità della notte alla stessa velocità con la quale sono comparsi.
Salgo in macchina, stanco, un tantino esausto. Spuntino veloce mentre il motore dell’auto si scalda. Ingranata la retromarcia per un paio di metri, resta solo d’alzare le cambiate per ritmi più elevati, in avanti verso casa.
Da oggi porterò con me un’infinita ricchezza di emozioni da farne indigestione, oltre 25 chilometri macinati, 10 ore di cammino, 7-9 € in meno, e tante ingiurie che riceverò gratuitamente non appena telefonerò alla mia ragazza in attesa a Granada.