L’Alta Via delle Dolomiti n.1 è un percorso escursionistico lineare che si sviluppa dal Lago di Braies a Case Bortot (BL), 12 tappe (ridotte a 11 per convenienza), oltre 125 km di lunghezza e più di 7.000 m di dislivello. Noi, per comodità, abbiamo invertito il percorso per evitare di bivaccare al Bivacco del Marmol.
TAPPA 10
(Rifugio Fanes – Rifugio Biella)
La differenza di temperatura fra la camerata e il corridoio è identica a quella fra l’Estate e la Primavera, l’umidità è agli stessi livelli; sono le 1:45, di ritorno dalla toilette. Al mio rientro mi schianto contro un muro invisibile e intangibile dell’aere denso come melassa, mi sdraio e lascio leggermente aperta la porta per poter respirare. Ai piani alti si è svegliato qualcuno, ne percepisco i movimenti, scende lentamente dalla scala in legno e scosta la finestra; non sono l’unico a morire di caldo. Mi giro e chiudo gli occhi, li riapro alle 6:00; è presto, manca ancora un’ora alla colazione. Tutti dormono, io non resisto ad aspettare ed esco per respirare nuova aria. In anticipo su tutti, mi preparo e sgattaiolo all’esterno per respirare la frescura del mattino.
Ore 7:00 spaccate si apre la porta del salone dal pranzo e un fiume di affamati si riversa al suo interno come una marea oceanica. Immaginavo una scena in stile locuste in un campo agricolo e, invece, siamo tutti ordinati e rispettosi. La nostra tavolata è vuota, siamo i primi, ma veniamo raggiunti da tutti gli altri che alla spicciolata prendono i posti rimasti vuoti. Sono più contento nel ritrovarli che nel pensare al cibo. Le ultime chiacchiere prima dell’addio vengono accompagnate da scuro pane coi semi spalmato da abbondante Nutella, brioches ripiene di purea di mela e caffè. Voto 7.
Salutiamo gli amici che mai rivedremo, con gli auguri di buona giornata che si perdono nella cacofonia dei commensali multietnici. Ultimi preparativi prima di lasciare il Rifugio Fanes e poi, un passo alla volta, riprendiamo gli scarponi caldi e puzzolenti, riempiamo le borracce con l’acqua della vicina fontanella e partiamo per la penultima scampagnata. La tristezza causata dall’avvicinarsi della parola fine mette le prime radici nel nostro animo, ma la bellezza di tutte le esperienze passate controbilancia questa minuta cupezza. Il cielo è sereno, limpido e la luce del sole scalda la terra umida e fredda, è una bellissima mattinata! Andiam, andiam, andiamo a camminar…
Seguiamo la strada sterrata che declina pacatamente verso il fondovalle. Una coppia di mucche scozzesi, marrone una e nera l’altra, rumina l’erba inzuppata dalla rugiada in un pascolo prospiciente la strada. Poco oltre, altre vacche intende a godersi i primi raggi di sole. Separate, padroni diversi o si trovano antipatiche le une con le altre o semplicemente parlano una differente lingua ruvida?
Perdiamo quota e l’ambiente cambia, mutano i terreni e le rocce, con essi anche la vegetazione. Prima abeti e larici, prati e tanto verde, ora mughi e rade erbacee, roccia, sassi e ghiaia fanno da padrone al paesaggio. Larici e abeti sono rari, esemplari caparbi e intrepidi che lottano per la sopravvivenza in un ambiente confacente ai mughi più che alle altre aghifoglie.
Da un primo tratto leggermente in discesa passiamo a uno pianeggiante che, mappa dicendo, dovrebbe costeggiare un laghetto. Camminiamo, ma di questo nessuna traccia. Peccato, sarebbe stato carino incrociarlo. La carrareccia è noiosa, quindi cogliamo la prima occasione per evitarla e ci fiondiamo in un sentiero. Questo corre, a grandi linee, parallelo alla via maggiore, ma a differenza della seconda è decisamente più vario. Attraversiamo un pianoro sabbioso costellato da un universo intero di orchidee selvatiche, impazzisco nel vederle, ammirarle, adorarle; sono stupende!

Il sentiero sale gradualmente per superare un dosso sassoso per poi ridiscendere rapidamente. Sulla sua sommità voltiamo lo sguardo per studiare i dettagli del panorama e, in lontananza, intravediamo il laghetto nascosto che, effettivamente, era a qualche decina di metri dalla strada maestra.

Scendiamo. Ora la via si fa più decisa, serpeggia nella rada macchia fino a raggiungere la sorella maggiore. Al tornante di incrocio fra le due vie, riprendiamo lo stretto tracciato che tortuosamente punta al fondovalle. Incontriamo i primi escursionisti della giornata, in salita verso laghi e rifugi. Salutiamo tutti, alcuni sorridenti altri molto meno, già coi goccioloni di sudore a rigare i visi.

La valle, un insieme di ripide o verticali pareti di roccia rossastra, è costellata da ghiaioni che scivolano verso valle, questi sono scavati da profondi solchi creati durante le forti piogge, così immagino io, e da grossi massi sparpagliati un po’ ovunque a seconda da dove sono precipitati.
Giungiamo infine al Rifugio Pederü ove un’orda di turisti attende dalla guida la spiegazione sul percorso che andranno ad affrontare per raggiungere il Rifugio Fanes. Guardicchiamo i pannelli informativi, senza perdere troppo tempo e poi ci allontaniamo. Entrambe i gruppi si muovono, noi in una direzione, la guida di testa nell’altra e quella di coda a chiudere il gregge; vedendo i personaggi, direi anche a raccattare i moribondi.
Parte una nuova strada, non in discesa, bensì aspramente in salita. Dapprima sterrata e poi asfaltata, sale di quota con strappi e tornanti. Costruita dall’esercito durante la guerra, si rivela fin da subito impegnativa per noi escursionisti, non oso immaginare per i soldati alle prese con fardelli impossibili o armi pesantissime. I tornati sembrano non finire mai, ma questo non frena la voglia insita nelle mie gambe che iniziano ad accelerare a ritmo incalzante, sostenuto. Il fiato regge, il passo pure, la schiena coi 18 kg idem. Lo zaino sembra evaporare dalle mie spalle, macino l’asfalto imperlato di pigne come se niente fosse e distacco Giada che si allontana alla mia vista. Sarà l’allenamento di questi nove giorni oppure il ripieno alla purea di mele delle brioches di stamane? La seconda, senza alcun ombra di dubbio.
Fermo la locomotiva impazzita al primo pianoro, il fiato torna immediatamente alla normalità e il cuore è silenzioso. Infarto? Giada arriva con un sorriso enigmatico stampato in viso, mi crede matto o forse dopato. Voto per la prima.
Altra salitella, questa volta parto in velocità fin dal principio per poi rallentare e fermarmi nuovamente in concomitanza con un bivio. Con Giada mi raggiungono anche tutti gli altri camminatori sorpassati in volata.
In una minuta radura cogliamo l’occasione di scaldarci coi raggi di sole che penetrano attraverso le nuvolaglie. Una fugace merendina a base dei soliti ingredienti: frutta disidratata e cioccolato fondente, acqua a bagnare.
Spalla destra verso una falesia strapiombante, chissà che stupende vie si potranno inventare i più forti arrampicatori, e sinistra verso il bosco di abeti e mughi. La coda dell’occhio coglie un movimento rapido e inaspettato, mi congelo sul posto, volto lo sguardo in quella direzione e uno splendido scoiattolo rosso come una fiammella si sposta da un mugo a un altro per poi fermarsi accanto a una pigna. Gesticolo nascostamente verso Giada per dirle di avvicinarsi più velocemente, ma nel momento in cui arriva e allunga la vista verso il dolce animaletto peloso, resta solamente una spumosa coda evanescente vaporizzarsi nei mughi. Estasiato, sono felicissimo dell’incontro! Abbiamo ancora in testa la dicitura “terra delle marmotte”, ma dove diamine sono? A parte mucche, uccellini canterini e lo scoiattolo, altro non c’è.
Altro bivio: verso sinistra la strada sterrata accoppiata all’Alta Via delle Dolomiti per il Rifugio Sennes o verso destra il sentiero a tratti indicato nella cartina che punta verso Rifugio Munt De Sennes? Noia assicurata o incognita? Ovviamente, la seconda, che domande. Saliamo fra radi abeti lungo il pendio boscoso del Col di Lasta fino a quando i mughi prendono il sopravvento sull’ambiente. I miei occhi saettano su tutte le piante, mi impegno al massimo delle mie prestazioni oculari per catturare il minimo movimento, ma nessuno scoiattolo in vista. Sussegue un tratto piano e immediatamente dopo discende. La volta celeste è tutt’altro che celeste, l’azzurro è stato cancellato da un tenue grigiore. In lontananza si percepisce l’avvicinarsi di qualcosa maggiormente minaccioso, plumbeo e arcigno. Allunghiamo il passo, la meta intermedia è a portata di vista.
La discesina cede immediatamente terreno a un pianoro che inciampa nella salita successiva. Una marmotta sghignazza in lontananza, non la vediamo ma ne percepiamo l’acuta presenza. Nel grigiume scorgo dei movimenti circolari, a chilometri di distanza ci sono due grossi rapaci che serpeggiano nell’umido etere a caccia di una preda. Purtroppo il mio corredo fotografico non prevede un 600 o 800 mm, quindi rapisco la compatta della mia compagna che arriva fino a 720 mm. Non sarà un’ottica fissa, ma mi posso accontentare. Lo zoom si allunga fino alla sua massima distensione, cerco faticosamente i due puntini con le ampie ali spiegate e, non appena li aggancio, inizio scattare. L’anteprima fotografia mostra esemplari molto simili all’aquila reale, sarà lei? In rifugio chiederemo lumi o Google sopperirà alle eventuali lacune.
Finissime goccioline di pioggia sono presagio delle previsioni meteo scoperte il giorno precedente presso il Rifugio Fanes: prima mattinata soleggiata, presente, seconda parte nuvolosa, presente, primo pomeriggio molto nuvoloso con possibili piogge, presente, pomeriggio inoltrato con piovaschi, attendiamo per l’appello, e sera con scrosci, attendiamo anche qui. Speriamo in bene, ma l’inevitabile sta galoppando nel cielo.
Nei pressi del Rifugio Munt de Sennes veniamo investiti da sferzanti folate di vento gelido che scendono da Nord, congeliamo all’istante. Siamo sudati e non vi è alcuna protezione al di fuori della mantella. È ora di pranzare e gli stomaci ne urlano le lodi, ma farlo in questo momento significa congestione assicurata. Non ci fermiamo, allunghiamo il passo e ci fiondiamo alla ricerca di un riparo inesistente. Seguiamo un tratto di strada sterrata e poi un sentiero, direzione Rifugio Biella alla Croda del Becco, la nostra meta finale.
La mia compagna di avventure e disavventure opta per il digiuno, il panino non scende in gola, dice stopposo, e preferisce per del cioccolato. Io mangerei la prima marmotta che mi capita a tiro, per fortuna mi caccia in bocca il mio panino e i pensieri assassini si perdono nella pioggia. Cammino col pane in una mano e le racchette nell’altra, le fauci ruminanti, l’attrezzatura fotografica al riparo dagli spilli di ghiaccio.

Il profumo della pioggia nasconde quello della terra, della resina, delle piante e dei fiori. L’aria è umida, densa ed elettrica, la belva si sta avvicinando e non abbiamo la minima intenzione di piombare in un nubifragio. I sassi lungo la via sono umidi e molto scivolosi, dobbiamo rallentare e fare molta attenzione a non ruzzolare sul terreno bagnato. Le nubi lottano coi monti che vogliono liberare le cime, ma la battaglia è persa in partenza e la perturbazione ruba la bellezza delle conformazioni rocciose della Croda del Becco, lastre di roccia che scivolano verso i sottostanti prati, lame di dura pietra modellata dall’orogenesi di tempi antichi.


La brutalità del cielo, le rocce contorte, la tenue luce e l’oscurità imminente, rendono l’ambiente spettrale, lugubre e funereo. L’unico bagliore di felicità, in questo mondo tenebroso, sono le innumerevoli nigritelle che imbellettano i prati gocciolanti, orchidee selvatiche per intenderci.

In un attimo di tregua dall’impetuoso vento e dalla pioggia, colgo l’ultima occasione per fotografarne una, quella che di bellezza diviene momentaneamente mia musa ispiratrice
Una discesina ci prepara alla strada sterrata lasciata al suo corso oramai ore fa. La seguiamo e con essa il nostro sguardo la imita finché raggiunge il cucuzzolo ove è adagiato il Rifugio Biella. L’arrivo è vicino e con esso la fine di un’altra giornata, la tristezza si accoppia a quella del cielo, triste per l’incombente fine della nostra avventura.
La bandiera garrisce al vento sventolando decisa nell’etere graffiato dalla fine pioggia. Le raffiche sono talmente irruenti che le gocce sfrecciano orizzontali avanti ai nostri occhi ingobbiti dalla visiera della mantella.
Alla porta d’ingresso ci scontriamo con una ressa inaspettata, decine e decine di persone sono stipate in ogni angolo del salone da pranzo. Il calore all’interno mozza il fiato, l’umidità è sciropposa, densa, quasi solida. Annaspiamo nell’attesa di ricevere attenzione, sono tutti molto indaffarati a sfamare gli escursionisti. Siamo arrivati in anticipo sulla tabella di marcia e i commensali ancorati ai tavoli a ingurgitare ogni bendidio. Disseminati per il corridoio e le scale che portano ai piani superiori ci sono zaini, racchette e scarponi, è una baraonda colossale. Il piccolo ingresso non è riuscito a contenere questa invasione di attrezzatura e ora è abbarbicata in ogni dove, ovunque e dovunque.
Una rifugista riesce a staccarsi dal duro lavoro, scappa per spiegarci la prassi di questo rifugio, è il suo attimo di pausa, di quiete prima di rituffarsi nella tempesta. Il nostro alloggio è nel sottotetto, una stanza con finestra sul temporale. Il nostro angolo di quiete è per quattro persone, due noi e due non si sa. Siamo i primi a conquistare il giaciglio, vedremo se ci sarà qualcun altro, di sicuro. Il piano è diviso in cinque o sei comparti, un dedalo di corridoietti lunghi un metro o poco più che collegano ogni camerata alla porta d’ingresso. Al piano inferiore, il primo, ci sono camere “normali”, con muri di mattoni e stucco anziché in legno. La nostra cameretta, bucolica, è un’altra sfaccettatura della nostra avventura.
Il bagno è tutto nostro, non per altro siamo soli, quindi cogliamo l’occasione per lavarci a pezzi; doccia calda qui non esiste e con la temperatura esterna, e interna, evitiamo quella gelida come se fosse appestata. Pseudo-lavati, scendiamo nel salone sperando che la ressa si sia smagrita, tutto l’opposto saranno le loro pance. Che dire, ho fame, che novità. Quindi spaghetti al pomodoro per lei e fettuccine panna e funghi per il noioso scrittore in erba, Weissbier e Coca Cola comprese.
Scriviamo l’evoluzione della giornata mentre all’esterno il tempo muta. Sprazzi di luce conquistano la scena scalzando la pioggia. Le previsioni meteo non lo prevedevano, anzi, tutt’altro, quindi ci aspettiamo da un momento all’altro un serio peggioramento; la quiete prima della tempesta.


Usciamo per prendere una boccata d’aria, fresca, umida, ma non soffocante come quella all’interno. Raggiungiamo il vicino passo, chiamato Porta Sora al Forn, per anticipare quello che incontreremo l’indomani. Sul versante opposto della valle scorgiamo due stambecchi intenti a spiluccare chissà quale diavoleria in quella sassaia in cui si ritrovano.
Una coppia ci raggiunge per proseguire subito dopo lungo la cresta che porta alla Piccola Croda del Becco. Li osserviamo con scetticismo, il temporale è in agguato e non ci sembra una saggia idea. Alle prime gocce scappiamo e ci chiediamo cosa staranno facendo quei due scellerati. Di gran passo scendiamo al rifugio e ci nascondiamo nel salone, al caldo. Poco dopo compaiono i due scellerati, inzuppati.
Il pomeriggio trascorre lento, fuori piove e dentro si sta piacevolmente bene. Il cielo è tetro, scuro e minaccioso. Raffiche di vento sbatacchiano la pioggia in ogni direzione per farla schiantare su rocce e prati. Nella nostra serra siamo protetti, al sicuro. Siamo gli unici, oltre ai rifugisti. Loro indaffarati a sistemare il delirio lasciato dalle locuste e, col passare delle ore, ad anticipare i preparativi per la cena. A scaglioni entrano infradiciati i vari escursionisti sorpresi dal temporale lungo il percorso che stavano seguendo, alcuni fra i prati, altri sui ghiaioni o nei boschi. Storie diverse che confluiscono nello stesso calderone, umido e caldo, il Rifugio Biella. Arriviamo a sera con la sala completamente occupata, voci multilingue echeggiano nella stanza, si scavalcano, si mischiano, si innalzano di volume per potersi sentire in tutto questo vociare. Italiani, francesi, tedeschi, inglesi, americani e orientali (non ho una grande capacità a distinguere le lingue d’Oriente) e probabilmente anche qualche altra nazionalità. Tutti ammassati come polli in una gabbia, ma tutti felice di ridere, scherzare, giocare a carte, raccontarsi. Il nostro tavolo è composto da un numero esatto di persone che i rifugisti hanno sapientemente calcolato per farci stare tutti comodamente seduti, e senza dividere i vari gruppi; ottima organizzazione, complimenti per il duro lavoro. La rifugista in capo ha un diavolo per capello nel predisporre tutto e le sue aiutanti sgambettano come lei. Con noi una coppia e una ragazza, entrambe americani, di Seattle casualmente tutti e tre. La cena è all’insegna dei nostri racconti, mi sbizzarrisco col mio inglese completamente arrugginito, da anni fermo sulla mensola del mio cervello. Oramai sono trascorsi sette anni dall’esperienza in terra Inglese, vicino a Manchester quattro mesi e in Cumbria per altri due. All’epoca, sembra passato un secolo, ero migliorato parecchio al punto da pensare in inglese e di dover tradurre i miei pensieri verso l’italiano, ora è tutto l’opposto; un vero peccato. Insomma, le risate sono più rivolte alle mie strafalcerie per arrangiarmi nello spiegare termini che non conosco, che dei nostri racconti in sé. Loro sono al finire del primo giorno di trekking, noi al decimo. Lasciamo la tristezza per altri momenti, pensiamo alle cose belle e semplici della vita, il cibo: canederli con goulash per me e canederli conditi col burro per lei. Piacevolmente soddisfatti e stanchi, salutiamo tutti per rintanarci nel nostro giaciglio. Al rientro della nostra suite, un “Hi!” generico viene scambiato fra noi e una giovane coppia di americani, intravisti a un’altra tavolata assieme a loro coetanei.