Agosto 2016, destinazione Alpi Retiche
Il Sentiero Roma è un percorso escursionistico ad anello che si sviluppa lungo la testata della Val Masino, parte dai Bagni di Masino e termina a Filorera. Il tracciato solca i pendii di Valle dell’Oro, Val Porcellizzo, Valle del Ferro, Val di Zocca, Val Torrone, Val Cameraccio, Valle di Preda Rossa e Val di Sasso Bisolo; nella variante più lunga attraversa anche la Val Codera. Anziché iniziare il Sentiero Roma dai Bagni di Masino, la partenza sarà a Novate Mezzola per rendere il tracciato ancora più interessante attraversando la Val Codera. Lo stesso discorso varrà per l’ultima tappa che non terminerà a Filorera, bensì continuerà lungo l’Alta Via della Valmalenco. L’Alta Via della Valmalenco è un percorso escursionistico in quota che si snoda fra le montagne dell’omonima valle, all’interno della compagine montuosa vi è il Gruppo del Disgrazia, Gruppo del Bernina e il Pizzo Scalino. Questo sentiero alpino si sviluppa in otto tappe lungo un percorso ad anello di circa 110 km con partenza e arrivo presso il paese di Torre di Santa Maria (770 m s.l.m.). Anziché iniziare l’Alta Via della Valmalenco da Torre di Santa Maria, la partenza combacerà con l’ultima tappa del Sentiero Roma, mentre l’arrivo dell’Alta Via della Valmalenco rimarrà quello originale, ovvero il paese di Torre di Santa Maria. Inoltre, il tracciato centrale sarà modificato nelle seguenti tappe: dal Rifugio Gerli-Porro al Rifugio Longoni passando dal Rifugio Del Grande-Camerini, dal Rifugio Longoni al Rifugio Roberto Bignami passando per la Forcella d’Entova e il Rifugio Marinelli-Bombardieri, a seguire come da tradizione. Al termine dell’avventura deciderò se continuare facendo l’autostop fino a Sondrio o Colico o, se baciato dalla fortuna, fino a Novate Mezzola, oppure prendere i pullman o i treni utili a tornare all’auto. Un percorso complessivo di nove giorni e sicuramente più di 140 km; con la speranza di reggere fino alla fine…
TAPPA 1
(Novate Mezzola – Rifugio Luigi Brasca)
È una giornata perfetta, nel cielo qualche alone biancastro mitiga l’azzurro cristallino, la temperatura è piacevole, morbidi aliti di vento scendono dalle montagne e il cupo verde dei boschi brilla di vita.
È una giornata perfetta, sul letto è sparpagliato tutto il necessario per sopravvivere una decina di giorni in montagna, lo zaino aspetta di ingurgitare l’arcobaleno multicolore, multimateriale e multitecnologico che si estende sulle coperte.
È una giornata perfetta, il frigorifero è vuoto tranne per qualche bottiglia di birra artigianale e un barattolo di ‘nduja, sul tavolo gli ultimi pomodorini a ciliegina conditi con i rimasugli di una barattolo di pesto e un uovo sodo attendono il pranzo.
È il momento di iniziare una giornata perfetta, carico lo zaino nel baule dell’auto e mi tuffo in una nuova avventura.
Arrivare all’abitato di Novate Mezzola credo sia impossibile, o forse è il paese stesso a non volermi. Non riesco minimamente a immaginare come tutte, o quasi, le strade di accesso alla cittadina siano interrotte. Seguo una deviazione che dirige il traffico diretto verso Nord nella speranza di trovare l’imbocco al paese, lo aggiro e, inutilmente, mi ritrovo davanti a un’altra strada chiusa. Altre indicazioni puntano verso il centro di Novate Mezzola, le seguo, torno indietro lungo la strada da poco percorsa. L’inventiva del navigatore prova ad aiutarmi, fra strade a fondo chiuso, strade non più esistenti e strade interrotte per lavori, o per eventi catastrofici, ma continuo a girare senza una via d’uscita a questo problema. Le imprecazioni piovono copiose sotto questo cielo turchese.
Finalmente, dopo una ventina di minuti persi sull’asfalto, scovo una stradina che mi porta alla meta in una manciata di minuti. Devo ringraziare l’intraprendente e comprensivo navigatore di Google Maps. Un “no comment” alle indicazioni stradali è il minimo che possa fare, sorvolo sull’inconveniente e concentro tutti i miei pensieri sulla straordinaria avventura in solitaria che mi attende.
Il parcheggio sterrato dal quale parte il sentiero è completamente occupato. Non potevo certo pensare di trovarlo vuoto alle 12:00, non è certamente l’ora consona per iniziare a camminare in montagna. Purtroppo non ho potuto anticipare la partenza, quindi mi devo rassegnare.
Gironzolo per le vie circostanti e, infine, decido di lasciare l’auto lungo una strada polverosa che porta al paese. Al mio ritorno scoprirò se ci sarà ancora, se avrò collezionato più multe che figurine in un Album Panini o chissà cos’altro; in ogni caso è un problema futuro, sempre meglio pensare al presente.
Calzettoni ai piedi, scarponi ai calzettoni. Zaino in spalla, cappello da safari in testa. Attrezzatura fotografica al collo, treppiede a destra dello zaino e filtri a lastra alla sua sinistra. Automobile chiusa e chiavi in mano, o meglio nello zaino.
Mi allontano dall’auto e inizio ad assaporare la bellezza del viaggio, un viaggio che mi arricchirà di ricordi, ricordi che mi daranno emozioni, emozioni che sono il sale della vita.
Lascio alle mie spalle l’abbacinante parcheggio sterrato ricolmo d’auto di Mezzolpiano. Le indicazioni per la Val Codera sono il confine fra una terra urbanizzata e una ai margini del mondo nella quale il tempo scorre a rallentatore. La strada fra i due territori non è un classico sentiero, bensì una mulattiera che sale velocemente in quota con una serie interminabile di scalini. La scalata sulla scala in pietra sembra infinita, a tratti zigzaga e in altri segue la costa della montagna, a tratti è adombrata da un fitto bosco di latifoglie e in altri costeggia finestre che si aprono sulla valle in cui lo sguardo del viaggiatore può sorvolare sul Lago di Mezzola e le circostanti montagne alpine. Nel bosco non si muove una foglia, solo alcune farfalle, formiche e mosche si aggirano silenziosamente nell’afoso etere del sottobosco e, indisturbate, sbrigano le loro quotidiane faccende casalinghe.

Col passare dei minuti il Sole diventa sempre più arrogante, i suoi raggi sferzano le chiome degli alberi e frustano la roccia. Il caldo si fa più intenso e l’acqua nelle borracce evapora a suon delle sorsate.
Incontro svelti camminatori in discesa e ne supero altrettanti intenti ad arrancare in ascesa, due ragazze sono ferme ai margini della mulattiera mentre riposano e ascoltano musica dal loro smartphone, un ragazzo grondante di sudore sale lentamente il tratto di scalinata esposto su una parete di roccia, una coppia di signori mi segue a distanza mentre un’altra coppia di ragazzi si lascia sorpassare senza battere ciglio. Chissà se fra questi viaggiatori c’è qualcuno che sta percorrendo il Sentiero Roma, lo stesso che affronterò giorno per giorno nei prossimi a venire.
Oltrepassata la falesia che precipita verso il cielo e si invola nel fondovalle, la via della Val Codera alterna tratti in discesa ad altri in ascesa, numerosi con ripide scalinate, alcuni pianeggianti immersi fra maestosi ed esili castagni ad altri ancora dove lo sguardo spazia sul piccolo mondo della valle.
Il primo borgo che si incontra è Avedeè, un esiguo numero di baite in pietra che ammira il suo spiazzo erboso in leggera pendenza. Me lo immagino in Autunno con le foglie dei castagni dalle tinte arancio-brunastre che avvolgono le case come una calda sciarpa.
Avvicinandomi Codera, incontro sempre più scout diretti ai loro campi estivi, alcuni li sorpasso lungo il sentiero mentre riprendono fiato, altri intendi a riposarsi in una radura o davanti a una cappelletta, tutti sorridenti e pronti a rispondere al mio saluto, tutti allegri per le loro scampagnate in compagnia.
Codera annuncia il suo montano splendore incastonato nell’omonima valle non appena aggiro il costone che precipita dal Monte Avedè. Un salto nel buio, nella vicina gola intagliata tra gli scoscesi pendii, taglia i due versanti che si guardano da millenni e mai si sono toccati, solo il sentiero li collega e li unisce in un effimero cordone ombelicale, lo stesso che connette Codera alla civiltà. La traccia rocciosamente rifinita scende rapidamente nella gorgia e arresta la sua caduta dopo una decina di metri, qui la via si allunga orizzontalmente lungo un tratto pianeggiante completamente protetto da tunnel paramassi e paravalanghe. Questi attraversamenti cementificati non sono esteticamente belli e non si intonano altrettanto bellamente nel contesto ruvido del luogo, ma nella loro sterile semplicità apportano un contrasto forte e caratterizzante che crea un’interessante suggestione. Cemento e roccia, roccia e cemento, una vetrina sul mondo da un lato, un tetto grigio e scabro da un altro, una parete ruvida e gocciolante da un altro e un sentiero erboso e sassoso sotto i piedi; anche questo è Val Codera.
Oltrepassate le empie vetrine e girato l’angolo, si giunge a Codera. Di fronte al Rifugio La Locanda incontro altri scout. Diversi si riposano sdraiati sull’erba, altri attendono i compagni mentre sono seduti panche di legno, un paio dipingono la valle sui loro quaderni di avventura, e alcuni riempiono di cristallina acqua le proprie borracce.
Seguo i segnavia bianco e rosso dipinti che punteggiano gli angoli e i muri delle case del borgo. La via si insinua nelle vite di questo abitato e nel lento scorrere del tempo, tra minuti orti coltivati con un miscuglio eterogeneo di orticole e fra minuscoli cortili di pietra e muratura.
Oltrepassata Codera il sentiero diviene un’accecante strada sterrata, in alcuni tratti si separano, si unisco e si allontanano, si intrecciano come due serpi in amore, si rifuggono e si cercano, si amano e si odiano finché il sentiero perde forza e vigore lasciandosi conquistare dall’infima bellezza della strada, per rimane infine un ricordo che evapora sotto il rovente sole.
Accelero il passo, non voglio lasciarmi assuefare dall’ammaliante facilità e delicatezza di questa stradina che porta il viaggiatore a dimenticare cosa sia un rude sentiero di montagna. Supero il borgo di Saline come un fulmine a ciel sereno, dapprima fra esilissime betulle gracili come stuzzicadenti e poi fra faggi striminziti dai tronchi grigi e poco sorridenti, fino a quando le latifoglie lasciano il terreno ai torreggianti abeti.
Bresciadega è il borgo ultimo e prossimo al Rifugio Luigi Brasca. Qui è situato un altro rifugio, Rifugio Bresciadega appunto, che da il benvenuto nella parte centrale della valle. L’abitato è sparpagliato a semicerchio attorno a un ampio pianoro erboso, a un lavatoio alcune ragazze lavano i panni, altre signore passeggiano coi bambini lungo il prato, altri e altre si dilettano nell’oziosa pratica della tintarella su panche in legno, signori gironzolano col trattore carico di legna mentre il loro cane scodinzola al loro seguito. Un paradiso incastonato fra alte cineree vette dove la quiete e la tranquillità regnano sovrane.
Nel bosco a seguire incrocio due escursionisti nel senso opposto al mio, uno cammina immerso nella musica delle auricolari del suo cellulare, mentre, a poca distanza, il suo compare cammina nel sottobosco a piedi scalzi; attimi di ordinaria stranezza montana.
A poco meno di 3 ore dalla partenza conquisto l’obiettivo della giornata: il Rifugio Luigi Brasca.
Il primo giorno di cammino è stato un buon riscaldamento per dare il via ai futuri chilometri da percorrere, il caldo non ha aiutato e tantomeno la noiosa strada sterrata, ma per raggiungere un obiettivo bisogna anche soffrire di fatica e noia.
In rifugio prendo posto nella camerata al primo piano, con me c’è una coppia di ragazzi miei coetanei che sistemano la loro attrezzatura, Francesco e Lorena.
Doccia a tempo di record per stare nei quattro minuti del gettone da 4 €, lavo la maglietta traspirante e stendo t-shirt e asciugamano sullo stendino del terrazzo. Nel giardino di casa godo delle ultime ore di luce. Fra una panca al sole e quella all’ombra di un abete, saltello alla continua ricerca di equilibrio corporeo ove la temperatura sale e scende come l’economia globale, fra quella all’ombra di un abete e una panca al sole, trascorro un paio d’ore per intervallare il caldo col fresco, il fresco col caldo.
Il Rifugio Luigi Brasca è incorniciato fra granitiche vette che si inerpicano fino a toccare il cielo cristallino, pinnacoli, torri e vette che si tuffano nel mare cobalto. Il musicare cantilenante e costante del Torrente Codera accompagna la leggera brezza intiepidita dal Sole e profumata di erba secca, abeti e larici, terra e resina, con una nota di sottofondo che richiama l’affumicato, la legna arsa in un camino di montagna. Il Sole bacia le chiome degli abeti, il vento ne accarezza gli aghi e le fronde ondeggiano delicatamente in una danza delicata e avvolgente.
Il figlio più piccolo dei rifugisti gironzola senza scarpe dentro e fuori la dimora estiva con in mano una ruspa giocattolo, o un camioncino o una macchina in plastica. Qua e là estrae la sabbia fra le pietre del ciotolato con una paletta e la trasporta con professionalità sulla panca o sullo zerbino d’ingresso, con puntuale precisione la ragazza, che gli fa da balia, lo insegue armata di pazienza per evitare che crei un cantiere a cielo aperto in bocca al rifugio. Ai margini del bosco, sono appostati degli immaginari umarells che attendono il momento propizio per avvicinarsi al cantiere e osservare le operazioni di scavo. Con occhi grandi e dolci, con le guancette rosse come rubini, il bimbo si diverte senza pensieri e senza preoccupazioni, il suo mondo è semplice e con semplicità si gode ogni attimo con allegria.
Scrivo mentre assaporo i profumi della montagna, osservo i camminatori che alla spicciolata arrivano a destinazione, lingue diverse si fondono in parlate quieti e altisonanti, lucertole bipedi prendono il sole e panni stesi ondeggiano nel tempo che si dilata col Sole che non vuole tramontare.
Verso l’ora di cena, al di fuori del rifugio, si raggruppa un capannello di escursionisti: io, la coppia, quattro ragazzi (Marco, Jvan, Andrea e Alessandro) sopraggiunti poco prima e Toni, un altro escursionista nostro coetaneo. I discorsi sondano terreni di montagna, dall’alpinismo al trekking, dall’arrampicata alla produzione di barrette energetiche fatte in casa. L’accenno al KIMA è praticamente d’obbligo, in quanto a fine mese ci sarà la famosa ed estenuante gara. L’argomento principe fra tutti rimane il Sentiero Roma, argomento che ci accomuna e accompagnerà il gruppetto nei giorni a venire.
I profumini che aleggiano fuori dalla finestra della cucina, fra polenta cotta un pò abbrustolita e altri aromi sfiziosi, danno il via a una melodiosa orchestra di brontolii stomacali. Fremiamo all’unisono come cavalli scalpitanti pronti per un palio. Al via libera da parte dei rifugisti catapultati i vari deretani sulle sedute interne, in un batter di ciglio le gambe si ritrovano infilate sotto le tavolate. Non siamo in molti commensali, una decina divisa in tre tavolate, tutti in trepidante attesa.
Le tre portate vengono servite su un letto di montagna, musica, trekking, fotografia, alpinismo, birra e tanto altro, e condite con la gioiosa spensieratezza di una cena fra amici e non fra sconosciuti, fra persone che amano e rispettano la montagna e non fra estranei a questo mondo. La pasta con panna, bresaola e lonza vengono seguite a ruota con polenta e fettine di arrosto, e a concludere una fetta di crostata alla marmellata. Tutto buono, niente da dire, ma delle porzioni leggermente maggiorate sarebbero state più consone al consumo energetico odierno.
Alle 22 c’è il coprifuoco, ultimissime chiacchiere, ultimissime luci e ultimissimi arrivederci al giorno successivo, poi tutti a nanna.