L’Alta Via delle Dolomiti n.1 è un percorso escursionistico lineare che si sviluppa dal Lago di Braies a Case Bortot (BL), 12 tappe (ridotte a 11 per convenienza), oltre 125 km di lunghezza e più di 7.000 m di dislivello. Noi, per comodità, abbiamo invertito il percorso per evitare di bivaccare al Bivacco del Marmol.
TAPPA 9
(Rifugio Scotoni – Rifugio Fanes)
Un rifugio o un albergo? La differenza la noto immediatamente dopo ben 8 ore di sonno ininterrotto, esatto, quattrocentottanta minuti filati, ventottomilaeottocento secondi di beatitudine. Apro gli occhi allo scoccare delle 5:00, presto direte voi, ininterrotto ripeto io. Che dire, un record!
Con flemmatica lentezza la camerata si desta e con altrettanta calma ci prepariamo. Non abbiamo fretta di fiondarci sul sentiero in quanto oggi sarà una camminata all’insegna della tranquillità: raggiungeremo il Rifugio Fanes verso mezzodì e, anche prendendocela comoda, arriveremo giustappunto per pranzo.
In sala siamo i primi, ma non soli, con noi ci sono due rifugiste indaffarate a imbandire un buffet. A prima vista, la vista si annebbia. Caffè espresso, succo di mela e spremuta d’arancia, biscotti secchi e brioches fumanti, cereali di varie tipologie, torta al limone una e al cioccolato l’altra, marmellate varie, yogurt bianco e ai frutti di bosco, uova sode, formaggio, salumi e altre chicche che purtroppo ora non ricordo. Gli occhi hanno ingurgitato talmente tante leccornie da farne indigestione e lo stomaco brontola, in bocca sento accumularsi la saliva che, se non faccio attenzione, a breve inizierà a colarmi dalle labbra, ho la salivazione all’ennesima potenza. Stamane recupererò tutte le energie perse da ieri all’anno del mai fra brioches, yogurt ai frutti di bosco condito con cereali e semi vari ed eventuali, biscotti secchi per non disdegnarli come fatto gli altri commensali, torta al limone e, perché no, anche al cioccolato. Ovviamente caffè e abbondante succo di mela per bagnare il tutto. La gola non è completamente soddisfatta, seppur lo stomaco dica il contrario. Voto 9.
Salutiamo Blanco, bianco di nome e di fatto, e Garibaldi, rosso di nome ma non di fatto, i due alpaca. Il primo ci osserva con occhi guardinghi mentre rumina vistosamente, il secondo supponiamo stiamo ronfando sul suo comodo giaciglio di paglia.
Attacchiamo il sentiero pianeggiante con i pensieri ancora immersi nella colazione. Quest’oggi il percorso è diviso in due parti: ripido in salita durante la prima tratta e dolce a seguire. Una prima rampa ci attende a qualche centinaio di metri dal rifugio: una mulattiera che sale ripida all’interno di una gola stretta e verticale, tornanti su tornanti di sassi e ghiaino, un percorso rubato all’aspra roccia dove gorgheggia un allegro torrentello. Accerchiati da alte pareti dalle forme informi, saliamo in tranquillità accompagnati dal fruscio dell’acqua che saltella verso valle.


Questo primo sentiero termina su un dosso, poi discende lentamente portando i nostri passi verso il Lago di Lagazuoi. Immerso fra mughi spumosi e vissuti pini dai tronchi contorti o lavorati dal tempo, il laghetto alpino è un’oasi nella dura roccia che lo sovrasta, alte cime dalle impervie pareti di roccia grigia e rossiccia.


Dal Passo di Lagazuoi, a un paio di chilometri di distanza, avanza un denso banco di nebbia che ingloba qualsiasi cosa incontri lungo il suo avanzare imperioso. Ho il timore che in meno di dieci minuti, forse più, possa piombare su di noi e rapirci assieme alle rocce, ai prati, alle persone e agli alberi mangiati fino a questo momento. Un alone di luce filtra al di sotto della bruma nel punto in cui le cime si incurvano su se stesse, si abbassano e si incontrano. Il passo diventa un portale verso l’ignoto, spettrale, magico.

Saliamo verso la Forcella del Lago. Dapprima un taglione sul ghiaione che riveste le viscere della Cima Scotoni, poi una seconda rampa zigzagante che si arrampica in una stretta e angusta gola. Oltre, in cima a tutto e sotto le alte vette, lo stretto passo ci aspetta. Ogni curva a gomito è una lotta dell’uomo con la natura: tronchi d’albero per trattenere i detriti, roccia e ghiaia, in attesa di frane che prima o poi cancelleranno nuovamente la traccia umana. L’uomo contrasta annualmente l’inevitabile e la natura a ogni stagione invernale scarica immani pesi verso valle vanificando ogni sforzo antropico. Alcuni tratti sono relativamente recenti, altri sono datati, altri ancora sbrindellati da un masso o una slavina.
In vetta all’ogivale sella salutiamo una valle per incontrarne un’altra. In basso intravediamo la strada sterrata che ci porterà alla meta finale: Rifugio Fanes. Scendiamo.

I ghiaioni di pura roccia vengono sostituiti passo dopo passo da altri con basse erbe e fiori gialli. Questi, a loro volta, lasciano il campo a boschi di rododendri e, infine, resta solo il fondovalle dove un ampio pratone prende il sopravvento. Fin dal principio la stradina si rivela per i nostri spiriti, occhi e piedi di una noia mortale paragonabile al trapasso stesso. Il paesaggio è diviso in due mondi: quello inferiore di roccia e piante, quello superiore grigio come le nubi che lo celano. Gli alti pendii e le vette accuminate divengono parte della nostra fantasia, rosa sfumati di viola i primi, cubici e romboidali i secondi; l’immaginazione gioca sempre brutti scherzi, ma tanto nessuno può criticarci, non si vede nient’altro al di fuori di erba, mughi, ginepri e radi abeti. In ogni caso, sopra o sotto che sia, è tutto insipido e noioso. Andiamo oltre.


Malga Fanes, un edificio di legno in stile montanaro appollaiato su un dossetto che si erge nella radura. Un laghetto informe dalle acque limpide è a poca distanza, da esso fuoriesce un ruscello le cui rive sassose si dirigono nel cuore di una valle ignota. Alcuni asini brucano placidamente ai suoi margini, sono talmente intenti nel loro pasto che non si accorgono dei passanti in loro osservazione. L’erba fresca è irradiata da un timidissimo sole che sbianca le plumbee nubi, col trascorrere del tempo si sono assottigliate lasciando intravedere sagome di imponenti monti.

Una breve salitella ci porta al Lago di Limo, al pascolo ci sono diversi cavalli: sul prato soleggiato mettono in mostra la loro bellezza, alti, statuari, imponenti, con la criniera al vento come modelle su un set fotografico, nei pressi del laghetto mettono in mostra la loro bellezza, bassi, tozzi, sporchi, con la criniera insudiciata di terra e aghi di mugo come maiali in una porcilaia. Stessa specie, due mondi diversi. Mi vedo proiettato in un film di Tolkien, elfi i primi e troll i secondi. Direi che calzano a pennello, una descrizione semplice e implacabile. Un piccolo orchetto dalla criniera impreziosita con una treccina sgraziata importuna tutti i turisti che gli capitano a tiro senza ottenere coccole o leccornie, alcuni si lasciano avvicinare mentre altri, come noi, tengono le distanze per evitare apprezzamenti troppo focosi, caccolosi o zeccosi. Cavalli e poni.

Ronzio di drone, è vietato nel Parco! Brontolo come una pentola di fagioli sul fornello, Giada alza gli occhi al cielo, non per cercare il quadricottero, che manco si intravede nell’azzurro cielo, bensì per esprimere la sua rassegnazione a questa situazione, la mia. Torno sui miei passi chiedendomi se vale veramente la pena rispettare le regole o è meglio fregarsene bellamente come il pilota qui presente, che purtroppo non individuo altrimenti una ramanzina è d’obbligo. Poi ci chiediamo il motivo per il quale le regole divengono sempre più restrittive col passare degli anni. Sorvolo, ci allontaniamo con i miei borbottii che si disperdono nel vento.
Nel frattempo, le nuvole hanno parzialmente liberato il cielo, ora si vedono distintamente vette e alte valli, crinali ripidi e forme astratte delle formazioni rocciose che caratterizzano l’ambiente circostante. Non è completamente terso, resistono qua e là alcune nuvolaglie dalla consistenza effimera. La temperatura è gradevole, il sole caldo e la fresca brezza giocano un connubio di piacevolezza sulla pelle nuda.

Oltre un dossetto intravediamo l’arrivo, il Rifugio Fanes e decine, se non centinaia, di turisti. Questo, a differenza del Rifugio Scotoni, sembra decisamente un albergo montano più che un rifugio. Ci separa solo un tratto di strada sterrata fra radi abeti per concludere l’odierna camminata.
Alla reception dobbiamo attendere alcuni minuti prima d’essere accolti, sono tutti estremamente affaccendati a soddisfare le esigenze dei vari clienti che, a onore del vero, sono tantissimi. Nell’attesa osservo attentamente i piatti che si avvicinano e poi s’allontanano dai nostri sguardi, tutti, nessuno escluso, sono assolutamente sfiziosi. Brontola lo stomaco, ha pienamente ragione.
Quella che supponiamo essere la proprietaria del rifugio anticipa i nostri passi verso i punti chiavi dei servizi compresi nel pernottamento: sezione deposito scarponi con annesso riscaldamento pedule per asciugarle dall’umidità interna, la camera da dieci posti con addirittura due letti a castello a tre piani, i bagni con docce calde e la sala da pranzo nella quale l’indomani verrà servito il buffet. Fase 2: letto a castello vicino alla porta, così se devo andare alla toilette sono vicino, scelgo il letto al piano terra cosicché non combino disastri come due notti fa, e a ridosso dell’ingresso per poter aprire l’uscio in caso dovesse mancare l’aria. Fase 3: doccia calda e profumata; a dire la verità, quasi manco abbiamo sudato durante l’escursione numero nove. Fase 4: lavare e stendere i panni, i doveri vanno assecondati. Fase 5: puliti, ordinati, presentabili al pubblico, ci fiondiamo all’esterno alla ricerca di un tavolino per poter pranzare. Fase 6: Weissbier per me e acqua per lei, piatto dell’alpinista (salsicce, costine che si sciolgono in bocca, patate e crauti) per me e tris di canederli con spatzle su letto di crauti per lei, i crauti per me ovviamente. Voto 9.
Con la mente leggera per aver goduto di ogni stilla di dolce grasso sciolto in gola e a ogni morso di quelle sensuali costine, senza nulla togliere a tutto il resto, e con la pancia appesantita dalla godereccia manciata, ci incamminiamo per un giretto rilassante. Seguiamo la carrareccia che punta verso il visibile Rifugio Lavarella, poi un sentiero che trotterella fra i rigagnoli di un ruscello, costeggia il Lago Vert e, infine, nel bosco di abeti e larici fino a tornare al punto di partenza.

Siamo riusciti a tirare avanti oltre la metà del pomeriggio, ne resta un’altra lunga porzione. La cartina indica un laghetto innominato verso valle, non lontano dal rifugio, forse qualche centinaio di metri, non oltre. Puntiamo in quella direzione muniti di libro lei e appunti io. Obiettivo: lettura e scrittura in un luogo soleggiato, vicini alla riva della pozza palustre.
Non ho accennato alla fauna locale, una grave dimenticanza. Ne parlo solo ora in quanto posso ritenere d’aver incontrato gli esemplari maggiormente rappresentativi. Quello che all’inizio pensavo a uno scherzo di carnevale fuori stagione, ora viene palesemente incorniciato nell’arco alpino, alte vette, abeti dai cupi verdi, erbe dondolanti nel vento, ruscelli zampillanti d’acqua purissima e vacche al pascolo. Le specie principali sono tre: la prima ci rappresenta, ma siamo in minoranza; la seconda va per la maggiore, centauri su biciclette ultra-mega-iper-futuristiche che macinano la ghiaia sotto le ruote con una facilità disarmante, ovvio sono elettriche; la terza è quella più pittoresca e carnevalesca, ovvero individui dalle livree sgargianti alcuni e inamidate altri, tutti alla moda del momento in montagna, pantaloni alla zuava, camicette di cent’anni fa, o forse acquistate il giorno prima a Cortina d’Ampezzo, Timberland slacciate con la linguetta slanciata verso i monti, zaini nuovi di zecca del periodo della prima guerra mondiale, tutti imbellettati e profumati. Eppure abbiamo letto in ogni dove che questa è la terra della marmotta, ma delle morbidose salsicce pelose manco l’ombra o un lontanissimo fischio. Tutt’altra fauna direi al contrario.
Scriviamo le nostre ultime memorie in un angolo della valle isolato da tutti, lontani da questa gentaglia che, non appena tornerà a casa, racconterà di aver scalato vette in bicicletta o aver figheggionato al rifugio d’alta montagna. Sia chiaro, lungi da me l’essere invidioso, rido scrivendo queste parole e mi piscio addosso dalle risate nel ripensare a questi momenti esilaranti. Non potete minimamente immaginare il loro vestiario, impareggiabili queste scenette.
Il ruscelletto serpeggia fra i sassi e le sponde erbose, chioccia e singhiozza nei turbinii che lo portano verso il laghetto. Attorno ai prati che lo accolgono svettano le variopinte arnie brulicanti di api ronzanti. Il sole gioca con le poche nuvole rimaste e un venticello racconta le memorie dei monti e dei boschi.
Il sole rivolge le attenzioni ai lati nascosti del mondo e pian pianino si assopisce oltre l’orizzonte della valle. La brezza diviene freschetta e ci obbliga alla ritirata. In rifugio chiediamo ospitalità all’interno della sala maggiore, con sbuffi da parte dei camerieri indaffarati a imbandire quello che si prospetta una tavolata da esercito, ci relegano in un angolino. Le numerose partite a carte, bagnate da Weissbier e Coca Cola, ci portano immediatamente alla parola fine della giornata, la cena.
Siamo alla tavolata con altri sei ragazzi, altre tre coppie. Ognuna con una storia da raccontare e progetti da concludere. Noi facciamo la nostra parte per ingolosire coloro che percorreranno i nostri passi e ci facciamo un’idea di quello in attesa per gli ultimi due giorni a venire. La voto come la sera più bella fra tutte quelle trascorse, quella in cui siamo riusciti a conoscere altri avventurieri, altre avventure, nuove storie, vite, esperienze, sorrisi, battute e bellezza. Sarò e rimarrò un orso, ma parlare con le persone mi riempie di soddisfazione, conoscerle e imparare da loro, aprire lo sguardo verso mondi sconosciuti e lontanamente sfiorati. La bellezza è anche questo. Grave dimenticanza, avete ragione, mi sono dimenticato di citarvi la cena, ma non disperate, eccola: Cianci alle rape rosse ripieni di formaggio grigio per me, cotoletta alla viennese con patate fritte per lei. Voto 7, avrei preferito un piatto più abbondante, ma ottimo.