Alta Via delle Dolomiti n.1 – Tappa 3

L’Alta Via delle Dolomiti n.1 è un percorso escursionistico lineare che si sviluppa dal Lago di Braies a Case Bortot (BL), 12 tappe (ridotte a 11 per convenienza), oltre 125 km di lunghezza e più di 7.000 m di dislivello. Noi, per comodità, abbiamo invertito il percorso per evitare di bivaccare al Bivacco del Marmol.

TAPPA 3

(Rifugio Pian de Fontana – Rifugio Sommariva al Pramperet)

Apro gli occhi e dalla finestrella filtra un chiarore spettrale. Chissà qual è l’orario, dalla fioca luce immagino possano essere le 5:30, forse prima. Mi giro nel letto, attendo. Mi rigiro e ri-rigiro nella conca che il mio corpo ha solcato nel ventre del materasso. La luce esterna è ancora blanda, ma che orario sarà mai? Non voglio saperlo per non alzare gli occhi al cielo, il cielo di assi di legno del letto superiore. Mi giro di nuovo, attendo, mi arrendo. Cambio posizione tante di quelle volte da perderne il conto. Dopo un tempo interminabile che stimerei in tanto così, ma proprio tanto, finalmente accresce la luminosità esterna, leggermente; mi chiedo se stia per giungere l’alba. Guardo l’orologio, ora voglio avere conferma dell’ora: sono le 5:58. Evito di pormi la domanda: “…ma da che ora sono sveglio?
Tra le 6:00 e le 6:30, chi qua chi là, si muovono le prime ombre informi all’interno della camerata. La sveglia è immaginariamente squillata. Al termine degli altrui preparativi ci alziamo con flemmatici movimenti, non abbiamo alcuna fretta. Io, forse si, avrei un certo buco allo stomaco, voragine aggiungerei, e necessito di zittire il brontolio ventrale. L’attesa la trascorriamo a guardare gli ultimi bagliori aranciati dell’alba che si estendono sulle nebbie stagnanti, queste ammantano valli e pendii montuosi, solo alcune vette più alte sbucano dal grigiume e si godono i primi raggi del sole. Siamo all’ombra del Monte Belvedere, lui sicuramente gode della stupenda vista illuminata dall’alba, noi ci accontentiamo della sua ampia ombra che tinge di toni scuri la Valle dei Ross in cui siamo.
Allo scoccare delle 7:30 arriva l’agognata colazione: caffè, pane spalmato con crema di cioccolato e nocciole, e un bicchiere di succo d’arancia; quest’ultima sicuramente non di fresca spremitura e dubito fortemente da succo, sembra da concentrato o, qualora esista, da liofilizzato. Non ho voluto indagare, se i rifugisti leggeranno questo mio racconto potranno svelare l’arcano. Poco importa, la fame è zittita e questo basta. Voto 6.
Carichi come muli da soma, iniziamo il cammino affrontando la prima ascesa della giornata. Il sentiero solca il pendio erboso punteggiato da variopinti fiorellini multicolore e multiforme. In alcuni brevi tratti è franoso, scivoloso per l’umidità del terreno, ma mai difficile. In basso, nei pressi dell’alpe ove sorge il Rifugio Pian de Fontana, sonnecchia il gregge di pecore intravisto nel meriggio addietro. Alcune alzano il muso biancastro verso l’alto scrutando quei due individui che si muovono lentamente verso sconosciuti pascoli, altre dormono profondamente con le teste appoggiate al corpo lanuginoso delle vicine, un paio starnutisco soffiando suoni buffi che ci fanno ridere a crepapelle nel muto silenzio della valle. Le basse nebbie dell’alba salgono con noi e fagocitano gli alberi del fondovalle per cancellarli alla vista, restano nei nostri ricordi.
Un cartello squadrato avvisa i passanti che, oltre le sue diciture stampate, il percorso diventa più difficile, tecnico, per esperti. Lo oltrepassiamo facendo attenzione all’avvertimento. I muscoli delle gambe si scaldano con rapidità, si sciolgono e prendono il ritmo delle rampe che guadagnano quota a ogni metro. Le difficoltà si limitano a tratti esposti, pendii molto scoscesi, rocce bitorzolute da conquistare, terre fragili e alte erbe; niente di realmente problematico, basta fare molta attenzione per non ruzzolare a capofitto fino all’alpeggio di partenza.

Valle dei Ross in una timida alba, Pelf, La Schiara e Gusela del Vescovà in lontananza, Rifugio Pian de Fontana lontano fra i pascoli
Contrasti nelle prime luci del giorno, montagne e vallate senza nome

Giungiamo a un minuto pianoro, un dosso dal quale si gode della vista sull’anfiteatro montuoso sottostante. Rubiamo attimi di riposo per ingurgitare un delizioso pezzo di cioccolato e qualche fresca sorsata d’acqua. Alcune orchidee spontanee, Nigritelle per la precisione, colgono il mio interesse con le loro livree rosso-purpuree, minute, dolci nel profumo, delicate e semplicemente stupende.

Nigritella rhellicani, orchidea spontanea

Con il trascorrere del tempo, anche il rifugio, l’alpe e le pecore vengono illuminati dal caldo sole. Queste ultime gironzolano per i prati imperlati di rugiada alla ricerca di erbacee leccornie.
Veniamo raggiunti dai due signori italiani, per intenderci quelli che sonnecchiavano nella camerata al nostro arrivo presso il rifugio. Ci salutano nuovamente e pongono la domanda di rito: “Dove state andando?”. Noi al Rifugio Sommariva al Pramperet, loro al Campaniletto. Non conosciamo questa località, cima o qualsiasi cosa sia. Riprendiamo il cammino, noi avanti e loro a seguire, entrambi su un unico sentiero, ognuno per la propria meta.
Alla seconda rampa, la roccia è modellata maggiormente dall’azione millenaria dell’acqua piovana e dalle precedenti glaciazioni. I massi e le pareti inclinate sono lisce nella loro visione generale a causa del ghiaccio, nel dettaglio scarificate con rughe profonde per via dell’acido carbonico disciolto nella pioggia. Il carsismo è un fenomeno veramente stupendo, unico. Ricordo il trekking percorso anni addietro sull’Altopiano di Asiago, nei pressi dei Castelloni di San Marco; lì la bellezza calcarea erosa dalla pioggia è qualcosa di inimmaginabile, magica, splendida.
Giungiamo infine in una valle, a tratti piana e a tratti leggermente pendente, incastonata fra Monte Talvena, Cime de Zità e Cime di Bachet. Massi, alcuni enormi altri meno, prati verdeggianti puntinati da fiori gialli e rosa, pendii franosi, cime verticali. Fra i macigni precipitati chissà quando, cogliamo il movimento di un’ombra grassoccia, allunghiamo l’occhio per osservarla mentre si muove agilmente di sasso in sasso, spilucchia fili d’erba con la bocca già piena, si ferma, ci guarda, continua e sparisce. La marmotta ricompare sopra un vicino masso, si appollaia sulla sommità, si sdraia al sole allungando le zampine, modella il grasso alle asperità della pietra e rimane immobile a godersi il caldo. Alle sue spalle compare la sosia, ciccia e morbidosa come la prima. Questa, al contrario, resta in piedi a osservarci, guardinga, non si fida delle nostre figure amorfe. Giada molla lo zaino a terra e, carica di macchina fotografica, si avvicina a loro, di soppiatto, come un felino a caccia della preda, bassa, quasi accovacciata a terra, esagererei con un aggettivo strisciante, si sposta sottovento per non far trapelare informazioni odorose alla vedetta, silenziosa si avvicina, sciolta nei movimenti, furtiva. A ogni passo una foto, a ogni metro un ritratto più stretto sulle due malcapitate. Giunge a un paio di metri dall’obbiettivo, forse meno, continua a scattare. Senza motivo, almeno non apparente a noi, scappano nella tana. La cacciatrice torna sui suoi passi e insieme ci sediamo su un roccione in attesa delle due. Attendiamo minuti, niente. Taglio una fetta di mela e la appoggio dove erano sparite, attendiamo minuti, niente. Ne troveremo delle altre più avanti, riprendiamo il cammino.

Il sentiero percorre i prati della Van de Zità de Fora (valle)
Gymnadenia conopsea, orchidea spontanea

Cento metri oltre, forse duecento o trecento, vai a saperlo, ci fermiamo nuovamente, altre marmotte in vista. Io resto sul sentiero e osservo le malcapitate piantonate dal bipede felino che ripete la tecnica precedente. La lascio ai suoi divertimenti e raggiungo i signori che nel frattempo ci hanno superato. Loro sono fermi, osservano il pendio di un monte. Giada è sparita alla mia vista, ma sono al corrente di cosa sta combinando. Seguo la linea dei loro sguardi e corro parallelamente lungo la linea immaginaria dei loro occhi diretti verso una poco lontana sassaia. Intravedo due camosci, manto chiaro, marroncino, corna corte, gambe lunghe, uno sdraiato che dorme, uno intendo a brucare erbe invisibili. Percepisco degli insoliti squittii, dei gridolini, mugugni, versetti, allungo lo sguardo nella direzione in cui suppongo vengano emessi e noto due grasse marmotte in lotta. Si aggrovigliano, rotolano verso il basso, si allontano e si rincorrono, si agitano per prevaleggiare l’una sull’altra, ruzzolano ancora verso il basso e si separano nello scendere a capitomboli, si raggiungono zompettando per combattere nuovamente, si sfidano di continuo in un groviglio di peli, rotondità flaccide, zampette litigiose. Sorrido nel vederle, nell’ammirare la loro lotta per il territorio, per la femmina o per una discussione fattasi troppo accesa. Quasi mi viene da ridere a vederle capitombolare giù per il pendio erboso come se non ci fosse niente di pericoloso nel farlo; se lo facesse un uomo ne usciremmo sfracellato, loro tutt’altro, anzi, credo che manco si siano accorte dei sassi che raggiungono.
Compare la cacciatrice da dietro la curva, sorriso stampato sul volto. Si è sbizzarrita nell’immortalare una famiglia di marmotte, piccolo annesso. Questa volta si è limitata a non farle scappare, ma dal suo racconto è andata ancor più a ridosso dei tre mammiferi grassocci; avrà affinato la tecnica, sorrido. Ci raccontiamo e entrambe ridiamo delle scenette viste.
Riprendiamo il cammino con gli occhi ricolmi della cicciosità pelosa di questi splendidi animali. Il Sentiero CAI 514 continua a salire gradualmente, conquista un basso dosso e infine vira sulla nostra destra tagliando un ghiaione che precipita dal monte Cima de Zità Sud. I sassi sono talmente bianchi che sono costretto a indossare gli occhiali da sole, la sassaia riflette la luce come neve, abbacinante. Altre orchidee, Gymnadenia odoratissima, profumatissime di miele, fruttato, floreale.

Gymnadenia odoratissima, orchidea spontanea

Nel salire dolcemente questo tratto franoso, intravediamo un terzo ungulato che pascola non lontano dagli altri, sul dirupo erboso che sovrasta la valle.

Cima de Zità Sud (sx) e Forcella de Zità (dx)

A qualche decina di metri dalla Forcella de Zità, scorgiamo alcuni escursionisti, coppia di signori compresa, che salgono sul pendio sassoso e a sprazzi erboso di una non lontana vetta.

Il Campaniletto ammira il panorama di cime e nubi

Sulla sua sommità una costruzione metallica, forse una croce o altro. Cogliamo l’occasione per impadronirci della nostra prima vetta dolomitica, quindi tagliamo per finte tracce che solcano il ghiaione posto a ridosso del monte Cima de Zità Nord, poi una sella erbosa costellata da un’infinità di Nigritelle e, infine, su per l’ultimo tratto ghiaioso.

Nigritella rhellicani, orchidea spontanea
Lontani panorami montani ammirati dalla cima de Il Campaniletto

In vetta ci salutano i due signori e si congratulano per la nostra ascesa. Suoniamo la campana, Giada un rintocco delicato, io con un strimpellata rozza e rumorosa. Foto reciproche per ricordare il momento, loro poi si allontanano verso casa, Vicenza abbiamo scoperto.
Qui il panorama è mozzafiato, la montagnola senza nome, seppur bassa rispetto a tutte le sorelle maggiori che la circondano, mostra ai nostri occhi vallate senza fine, vette verticali, massicci montuosi vicini e lontani, cime a noi sconosciute, boschi, prati d’alpeggio, baite e piccoli borghi. Ingurgitiamo immagini, luci e ombre, colori, forme e geometrie, saziamo la nostra fame di bellezza, ma non lo stomaco che brontola.

Pelmo in lontananza immerso fra cime sconosciute

Giungiamo alla Forcella de Zità (2.395 m s.l.m.) ripercorrendo l’immaginaria traccia che ci ha condotti verso la cima innominata. Cascasse il mondo intero, ora devo assolutamente mangiare altrimenti casco a terra come una pera cotta. Panino con la marmellata, cioccolato fondente e zenzero candito; che goduria!

Doronico (???) fra rocce carsiche

Nell’osservare il carsismo delle rocce qui presenti, scovo una cordata di orsetti gommosi intenti a scalare una falesia e altri in vetta mentre ammirano il paesaggio; rido per l’idea, per la genialità inaspettata. Mentre scrivo sorrido come un’ebete ripensando alla scenetta.

Orsetti gommosi in cordata lungo una difficile via in Dolomiti

Cima de Zità Sud è oltre un leggero pendio ghiaioso, una decina di minuti al massimo, quindi decidiamo di conquistare una seconda vetta. La salita è facile e raggiungiamo l’obiettivo non programmato in una manciata di minuti. Qui il panorama è ancora più suggestivo rispetto al Campaniletto, come lo hanno chiamato i due Vicentini, qui osserviamo meglio le Cime de Zità, il Monte Talvena, il Monte Preson e le Cime di Bachet, la valle percorsa, le valli vicine e lontane, monti e vette che prima erano nascoste.

Nubi vorticose rotolano fra grinzose vette di dura roccia
Papaver alpinum, papavero giallo di montagna

Un immenso ammasso di nubi vortica rotolando nel cielo nei pressi del Monte Talvena, sale il suo pendio per nutrirsi del suo corpo finché la cima sparisce totalmente alla nostra vista. Per non rischiare di scomparire con essa, scendiamo alla vicina forcella.
Alla Forcella de Zità salutiamo la terza tappa, le emozioni trascorse, i ricordi più belli. Voltiamo lo sguardo sull’ignoto e riprendiamo il cammino in discesa. La traccia solca dapprima il versante Occidentale di Cima de Zità di Mezzo, poi continua a scendere fino a raggiungere una cresta, abbastanza ampia quanto ripida, che precipita velocemente fino al punto in cui il sentiero vira repentinamente nella vallecola laterale, verso Nord.

Oltre Forcella de Zità un nuovo mondo da scoprire

Incontriamo la zigzagante traccia che serpeggia tagliando il verticale pendio erboso fino al sottostante pianoro sassoso. Altra moltitudine di fiori, di colori, di profumi, di farfalle, di mosche e insetti vari, senza contare le immancabili orchidee spontanee (Coeloglossum viride e Gymnadenia conopsea).

Coeloglossum viride, orchidea spontanea
Gymnadenia conopsea, orchidea spontanea

Giunti al pianoro, lo tagliamo diagonalmente seguendo segnavia blu, rossi e bianchi, omini in pietra e frecce sbiadite. Il sentiero, in vista della forcella chiamata Portela del Piazedel (2.097 m s.l.m.), ridiscende fra tratti su roccia e altri franosi. Nella stretta sella si apre un nuovo paesaggio, la Val Pramperet. Completamente ammantata da pini mughi su entrambe i lati, alcune frane di chiara roccia ne solcano il manto scuro, morbido e pungente. Le nuvolette, che vanno e vengono nel cielo, incrementano la cupezza dei verdi scuri e solo i pascoli di Pra della Vedova e della Casera di Pramperet stagliano i chiari verdi sul resto, ombroso e cupo.
Il sentiero si tuffa fin da subito in questo basso bosco di aghi e piccole pigne. Rade erbe e fiori fanno da contorno alla traccia assieme ai numerosi rododendri e ginepri. Il profumo che ci avvolge è di resina, speziato, di vaniglia e ginepro, di terra e legno; inebriante, riempie l’anima. In alcuni punti siamo più alti delle piante, in altri si aprono delle finestre sulla valle, lungo tutto il resto del percorso vediamo solo mughi, vette e cielo nuvoloso.

Il sentiero taglia il verde manto di mughi

Al bivio, fra il sentiero da seguire l’indomani e il rifugio di destinazione, mancano cinque minuti alla meta e poi concluderemo la terza tappa.
Il Tricolore sventola nel cielo grigio, qualche squarcio ne ravviva i colori e lo fa risplendere nell’etere. Il Rifugio Sommariva al Pramperet (1.857 m s.l.m.) ci aspetta con una terrazza piena di turisti indaffarati a pranzare. Siamo arrivati leggermente in anticipo rispetto alle previsioni che avevamo ipotizzato, è primo pomeriggio. Una delle rifugiste ci accoglie con un raggiante sorriso, entriamo, e veniamo accolti da altrettante raggianti fettuccine artigianali prodotte in rifugio. Che dire, fame! Molliamo i fardelli nella camerata n.1, come l’Alta Via delle Dolomiti.
In terrazza ci sediamo a un tavolo in legno, il sole si alterna alle nubi, la calda luce con la fredda ombra. Pranzo con un piatto di fettuccine al ragù di cervo, buonissime, e birra. Il secondo pranzo è la ciliegina sulle energie sprecate dal lungo cammino, anche se oggi è stato più breve del giorno precedente.
Il pomeriggio lo riassumiamo così: rigenerante doccia calda, lavaggio abiti zozzi e puzzolenti, allestimento della tendopoli nella camerata sperando di essere gli unici, relax giocando a carte e chiacchierando coi rifugisti. Scopriamo che sono tutti giovani, il più vecchio avrà la mia età, forse qualche anno in più. Li sorprendiamo in terrazza a ridere, raccontarsi e scherzare, tutti con un bicchiere di vino rosso in mano, spensierati e leggeri. Scopriamo, con gioia per loro, che quest’oggi è il giro di boa della stagione al Rifugio Sommariva al Pramperet; metà dei lavori, metà delle esperienze vissute, metà dei ricordi passati, metà di tanto altro ancora da vivere, lavorare e ricordare in futuro. Alla fine della loro pausa, chi da una parte e chi dall’altra, spariscono tutti per preparare la cena, allestire le tavolate nella sala da pranzo, e sicuramente tante altre faccende da rifugio.

Le pigne di mugo si sollazzano nello sciroppo zuccherino baciato dal Sole, in lenta preparazione presso il Rifugio Sommariva al Pramperet

Con l’avanzare del pomeriggio compaiono altri avventurieri, un ragazzo solitario, coppie di inglesi o americani, un nutrito gruppetto costituito da tre famiglie di inglesi, e diversi tedeschi. Il rifugio si popola di vita, quelli che abbiamo incontrato a pranzo sono spariti nel primo pomeriggio. Due vite in montagna, una che vive le alte quote durante il giorno e compare nella civiltà solo alla sera e quella “mordi e fuggi” che arriva per pranzo e scompare subito dopo. Entrambe utili all’economia del rifugio, ma diverse. Una racconta la vita dell’intera giornata, le varie vicissitudini dei giorni precedenti, l’avventura, mentre l’altra raramente racconta qualcosa, si ferma per troppo poco tempo e sparisce non lasciando traccia. Non è una critica negativa al secondo modo di vivere la montagna, è solamente differente; anche noi la viviamo giornalmente durante i weekend e i lunghi percorsi sono solo rarità durante l’anno. Sarebbe bello poter dare di più, alle persone e ai luoghi, ma la frenesia quotidiana non sempre lo permette.
La luminosità del cielo cambia d’improvviso, piomba l’oscurità dall’alto, il buio è pesante, cupo, spettrale. Si alza il vento, freddo, umido, profuma di pioggia e terra bagnata. Raccattiamo al volo tutti gli abiti lavati e la salvietta in microfibra ad asciugare, tempo di stenderli in camerata e all’esterno crolla il cielo. Piove a dirotto, senza fulmini o grandine, solo tanta pioggia. Dura poco, ma il segno del temporale rimane indelebile fino a tardi, sicuramente fino all’indomani. Tutto è fradicio, grondante. L’aria è fredda, pizzica la pelle, la fa rabbrividire. I profumi secchi al sole ora sanno di pioggia, di terra umida, di erba bagnata, di umidità.
Entriamo in sala da pranzo per attendere la cena. Siamo da soli a parte un bambino, figlio dei rifugisti, che scorrazza avanti e indietro, sotto e sopra, per tutta la stanza.
In procinto dell’orario di cena, 18:30, compaiono i vari locandieri che apparecchiano le tavolate. Nel punto in cui siamo, apparecchiano, siamo soli, isolati. Tutti gli altri si siederanno ai vari tavoli, gli uni vicini agli altri. Nel momento in cui tutti sono seduti, ci sentiamo come due neo-sposini che siedono soli davanti a tutti gli invitati. Ci guardiamo negli occhi e ridiamo della scenetta, ma non ne facciamo parola per evitare la vergogna e l’obbligo di dove fare un qualsivoglia discorso agli immaginari parenti e amici di una vita. Mi dispiace trovarmi isolato dalle avventure delle altre persone, non poterle conoscere, chiacchierare in inglese, spolverarlo per raccontare la nostra strada e ascoltare quella altrui. Un peccato, ma il destino ci ha tenuti separati. Mi limito a guardare i volti, studiarli, cercare di conoscerli, provare ad allungare l’orecchio per ascoltare i loro racconti, e di sfuggita far parte di quei gruppi chiassosi. Parliamo di noi, ci auto-raccontiamo le nostre avventure e ripercorriamo le strade da affrontare nella quarta tappa, la più lunga fra tutte: dal Rifugio Sommariva al Pramperet al Rifugio Vazzoler.
Ceniamo con: io scelgo zuppa di verdure, formaggio d’alpeggio (altro non è che formaggio Asiago, buono ma non d’alpe come me lo ero immaginato, grasso, giallognolo, saporito e sapido) con polenta e spinaci, e strudel di mele per finire; mentre Giada opta per pasta con ragù di pollo (bizzarro, ma buono), spezzatino con polenta e spinaci, e strudel di mele per finire io. Stasera doppia porzione di dolce, grazie amore mio che non ami lo strudel (personale risata di compiacimento…). Voto 6. L’allegra brigata di rifugisti offre a tutti i commensali uno snaps ai mirtilli, tutti si chiedono cos’è e presto il significato viene versato in un bicchiere da grappa. Un liquido violaceo, con alcuni mirtilli che galleggiano nella soluzione colorata, profuma di alcool e mirtillo. Brindiamo con loro al traguardo raggiunto, auguri in diverse lingue, tutti con lo stesso significato. È dolce, poco alcolico, fruttato, mirtilloso, saporito, denso, scivola bene in gola e sparisce rapidamente nel gargarozzo. Voto 8.


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