Il Sentiero delle Orobie Occidentali è un’alta via che si sviluppa dal paese di Cassiglio fino al Rifugio Fratelli Calvi. Sei tappe da vivere alla scoperta delle meravigliose montagne bergamasche, lungo sentieri, vallate e monti dell’alta Valle Brembana. Questo percorso escursionistico costituisce la prima parte del Sentiero delle Orobie assieme a quello Orientale, quest’ultimo valica in Valle Seriana per terminare infine al Passo della Presolana.
Al contrario del secondo tratto, che richiede il set da ferrata, il Sentiero delle Orobie Occidentali non necessita di particolare attrezzatura o preparazione, solo allenamento e attenzione per i tratti più esposti.
Per comodità personale, ho spalmato tre tappe in due e, anziché terminare il cammino a Carona, sono arrivato fino in Valcanale.
TAPPA 1
(Cassiglio – Rifugio Grassi)
Come preannunciavano le previsioni meteo, il cielo è screziato con tutte le cinquanta sfumature di grigio: perla, platino, cenere, fumo, ardesia e chi più ne ha più ne metta. Solo le colline e le montagne smorzano le tinte tetre e fredde delle nubi coi verdi dei boschi che ne coprono i pendii.
Sul parabrezza dell’auto si infrangono finissime goccioline di pioggia, con loro si sta per infrangere la speranza di trovare bel tempo lungo tutto il percorso che mi attende; ma non dispero, la montagna è bella anche con le nubi e la pioggia. Ogni sfaccettatura delle alte quote ha la capacità di regalare stupende emozioni, bisogna riuscire a coglierne il lato poetico anche quando è celato dalle nebbie.
Oltrepassato il paese di Cassiglio la strada si insinua dapprima in una galleria scavata nella roccia viva, costeggia il lato orientale dell’omonimo lago e infine sale gradualmente fino ad arrivare nel punto in cui parte il Sentiero CAI 101, ovvero il Sentiero delle Orobie Occidentali.
Scarico dall’auto lo zaino, gli scarponi, le racchette e l’attrezzatura fotografica che, solo per questa volta, si è ridotta all’osso per diminuire il peso da trasportare: reflex full frame, grandangolo, treppiede, filtri ND a lastra, tanta voglia di fotografare e, ovviamente, anche di camminare.
Calzati gli scarponi, caricato lo zaino in spalla e impugnate le racchette, resta solo da iniziare l’avventura. Saluto la taxista, mia madre, con suoi occhi immersi in uno stato d’animo misto fra preoccupazione e fierezza, malinconia e contentezza. Per rassicurarla basta un abbraccio e un sorriso carico di risoluta fermezza per quello che andrò ad affrontare in solitaria.
L’auto si allontana lentamente lungo la strada che torna a Cassiglio per poi sparire dietro la prima curva, rimaniamo io e la mia sbiadita ombra in piedi sulla strada asfaltata, entrambe immersi nell’umido silenzio della mattino.

All’imboccatura del Sentiero delle Orobie c’è un pannello in legno con affissa, fra diversi avvisi di manifestazioni ed eventi locali, la mappa che rappresenta l’intero percorso del Sentiero delle Orobie Occidentali. Non potendo fare la solita foto di gruppo pre-partenza, mi limito a immortalare il cartello stesso nel punto esatto in cui nasce il Sentiero CAI 101.
Bando alle ciance, l’ora è tarda e bisogna che mi dia una mossa. La mia malsana idea di modificare la prima tappa mi ha regalato “qualche” ora in più di cammino e relativa maggiorazione di chilometri.
L’alta via si addentra immediatamente nel bosco di latifoglie costituito in prevalenza da faggi, i quali, sporadicamente, lasciano posto a carpini, betulle e a qualche abete. Con la stessa velocità con la quale si tuffa nella faggeta, il primissimo tratto del sentiero si inerpica velocemente lungo i pendii della Valle di Cassiglio. Lungo il cammino la via si interseca, per un breve tratto, con la strada del fondovalle in alterni pezzi cementati e sterrati; l’escursionista non deve disperare, il sentiero è proprio dietro l’angolo. In poco tempo mi ritrovo a risalire rapidamente i fianchi boscosi delle montagne e la strada sterrata diviene immediatamente un flebile ricordo.
Un fugace fruscio delle croccanti foglie dei faggi alla mia destra e, a qualche decina di metri, compare, zompetta e rapidamente scompare una femmina di cervo; che dire, un inizio degno di nota.
Lungo l’ascesa il bosco rivela il lato tetro del suo carattere: le fitte nebbie penetrano l’intricata volta di rami e foglie dei faggi sfumandosi coi loro maculati tronchi grigiastri, raggiungono il terreno sfiorando delicatamente le secche foglie brunastre cadute l’Autunno precedente senza riuscirle a toccare. Il silenzio e l’umidità sono spessi a tal punto da poterli fendere con un coltello. Mi fermo e assaporo il momento, la magia del bosco, la teatralità della nebbia. Immortalare queste emozioni non è facile, spesso è più semplice provarle e ricordarle che scriverle con la luce o con le parole.

Più il sentiero sale verso il Passo di Baciamorti e maggiormente cambia l’impronta del bosco: faggi, carpini e betulle lasciano gradualmente il posto ad abeti, ontani e pini mughi. I pendii, sempre più scoscesi verso il fondovalle, non sono più lastricati di foglie secche e da sparuti angoli di alta erba piegata dalla pioggia, ma da brevi lembi di friabili rocce a strapiombo, con radi abeti, mughi dai tronchi contorti e seccati dalla vita che si alternano al sempre più rado bosco. In alcuni punti, il bosco, è scarificato dalle pietraie di alcuni canaloni che lo tagliano come un’autostrada in corsa.


Superato il traliccio dell’alta tensione, che svetta fra gli abeti dell’ultimo tratto di selva, in breve tempo si raggiunge un ultimo pendio erboso che sfocia al Passo di Baciamorti.
A seguito di questa lunga salita, lo stomaco inizia a brontolare e per placarne sete famelica, mi regalo qualche minuto di pausa per ingurgitare mezzo panino e per godere dei lucenti squarci della nebbia che illuminano la Valle Asinina. Il Monte Venturosa, alla mia sinistra, non riesce a liberarsi facilmente dalle massicce nubi che lo celano, al contrario il ramo della Val Taleggio sembra essere più fortunato. Le luci e le ombre si alternano vorticosamente in una frenetica danza accompagnata da una quieta orchestra, il brioso vento fischietta nelle mie orecchie un pungente motivetto ricordandomi la fine della sosta.
Il cammino prende il sentiero sulla destra in direzione Baita Rudera seguendo per un breve tratto la cresta erbosa del Pizzo Baciarmorti. Taglia poi il versante meridionale del monte in un traverso lungo il quale le brune alpine brucano i pascoli d’alta quota.

Le nebbie prendono nuovamente il sopravvento e in un batter d’occhio mi ritrovo nuovamente immerso nelle umide sfumature di grigio. Continuo a seguire la traccia del sentiero senza sapere esattamente dove mi stia portando. In breve tempo, mi ritrovo ad affrontare una cresta più ripida e lunga di quella preventivata. Il dubbio diviene tangibile come la terra sotto i piedi. La nebbia, leggendo i miei pensieri, si dissipa inaspettatamente e, decine e decine di metri sotto i miei occhi, compare e si allunga la traccia che taglia in costa passando da Baita Rudera; la traccia che era da seguire, nella teoria. Sfortuna vuole che debba allungare ulteriormente il già prolungato sentiero della prima tappa, in questi casi ci si trova di fronte a un ragionevole bivio: torno indietro cercando l’incrocio col Sentiero CAI 101 o punto alla vetta non sapendo cosa dovrò affrontare da lì a poco tempo? Ovviamente si vive una volta sola, quindi opto fortunatamente per continuare la salita lunga la cresta erbosa completamente immersa nella nebbia.
Come la sfortuna prende, la fortuna dà: nei pressi della vetta del Pizzo Baciamorti sento una silenziosa presenza alla mia sinistra, mi giro e, a bocca aperta, mi ritrovo ad ammirare una maestosa aquila che aleggia come un fantasma. A pochi metri di distanza dai miei occhi, cinque interminabili secondi della mia vita si fermano a rimirare la regina delle montagne. L’ho sempre apprezzata da distanze di centinaia o migliaia di metri, ma mai avrei pensato di essere accompagnato nel mio solitario cammino da una delle più belle creature delle nostre amate montagne. Silente è comparsa dal nulla e silente è scomparsa nel nulla. Con gli occhi pieni di Lei, arrivo in vetta accompagnato dall’assordante silenzio del niente. Saluto mutamente l’ammutolita Madonna che osserva chetamente i viandanti che la vengono a trovare, quindi continuo il cammino verso la cima del Monte Aralalta (a pochi minuti dal Pizzo Baciamorti). Giunto alla seconda non programmata cima, scendo velocemente verso Baita Cabretondo e, manco a farlo apposta, mi imbatto in un camoscio che mi scruta dalla distanza. Più svelto di un fulmine a ciel sereno, a lunghi saltelli si fionda verso il crinale settentrionale del monte svanendo dietro le rocce. È un peccato non avere la capacità di fermare il tempo, ad averla avrei goduto maggiormente di questi stupendi momenti e, ovviamente, mi sarei preso tutto il tempo per fotografarli con cura e minuzia di dettaglio, ma certe fantasie è meglio lasciarle ai sogni che hanno più fortuna nel realizzarle.
Raggiungo Baita Cabretondo in una manciata di minuti, qui la nebbia è più rada e i raggi del Sole riescono a penetrare la coltre umida per solleticare i pascoli erbosi della Bocchetta di Regadur. Il sentiero diventa più dolce e delicato, è un continuo saliscendi lungo i pratoni che caratterizzano lo spartiacque fra la Val Raisere, a Nord, e la Valle di Salzano, a Sud. Grazie alle copiose piogge dei giorni precedenti, il sentiero è costellato da tratti fangosi arricchiti da cioccolatose torte bovine che, con l’acqua, si sono sciolte per migliorare la consistenza della traccia, già di per sé poco solida.

Nei pressi del Passo Sodadura incontro un quasi perfetto cerchio di vacche dai mantelli bruno-grigiastri, maculati in bianco e nero o lattei macchiati di baio. Tutte le natiche, tranne una, sono rivolte verso l’esterno del circolo bovino, le loro code dondolano in asincronia scacciando le mosche infreddolite che gironzolano svogliatamente attorno ai loro posteriori. Una, fuori dal coro, mi guarda con la tipica espressione ebete delle mucche, mi osserva con i suoi occhioni scuri, pieni e quasi impenetrabili, ma allo stesso tempo vacui, teneri e dolci. Saluto le ragazze in riunione, senza ricevere risposta; l’unica a sorridermi è l’anarchica.
Superato il Passo Sodadura, in breve tempo, giungo al pianoro dove sono situati il Rifugio Nicola e il Rifugio Cazzaniga.
In corrispondenza del bivio fra i Sentieri CAI 101 e CAI 103 incontro l’allevatore delle vacche in riunione. Tra una parola e l’altra, mi racconta del giorno precedente ove ha incrociato un numero considerevole, ma non esatto, di escursionisti francesi, lui intendo a gestire i bovini e gli altri a fendere la fittissima nebbia per poter proseguire lungo la via. Nella chiacchierata, il signore si ricorda che la loro prima tappa era il Rifugio Lecco situato ai Piani di Bobbio. Saluto il loquace mandriano accompagnato dal suo placido fido cagnolone morbidoso e proseguo lungo la via. Due calcoli veloci: in base al percorso che seguono i francesi e al mio modificato, dovrei incontrarli teoricamente nei pressi del Passo San Marco, quindi da lì in avanti avrò dei compagni di viaggio; salvo che non ce ne siano altri di cui non conosco l’esistenza.
Oltrepassati i due rifugi che sorvegliano i Piani di Artavaggio, Rifugio Nicola e Rifugio Cazzaniga, l’alta via continua con alterni spezzoni in piano e in salita. Supero una serie di pascoli e un solitario alpeggio che, da innumerevoli anni, contempla lo Zuccone Campelli, il quale, con i suoi 2.161 m, domina il paesaggio sottostante. Man mano mi avvicino ai saldi piedi del monte mi accorgo che le rocce calcaree, che contraddistinguono il paesaggio, assomigliano, seppur in minor misura, a quelle incontrate sull’Altopiano di Asiago. Rocce scavate, lisciate, erose dalla dissoluzione carsica che ne ha modellato le forme.
Le nebbie, col passare delle ore, sono evaporate lasciando dei massicci nuvoloni a guardia delle cime più alte; il Sole, nel frattempo, irraggia il suo calore sull’impervio panorama. Sparuti mughi e abeti provano in tutti i possibili modi a farsi largo fra le rugose croste e pietraie dell’area, cercano in tutti i modi di resistere alla dura vita in quota.
Verso pranzo raggiungo la Bocchetta dei Mughi baciato dal Sole e avvolto dalle grinzose rocce del passo. Dinanzi alla mia vista si apre un vasto anfiteatro dominato da aguzzi pinnacoli e cime frastagliate, più in basso il sentiero si dirama in due vie: il Sentiero CAI 101 e il sentiero dell’Anello dello Zuccone Campelli. I due tracciati corrono lungo i ghiaioni situati alla base dell’arena, sul suo fondo un intricato nugolo di pini mughi si contende il poco terreno disponibile cercando di conquistarne di nuovo dalle pietraie circostanti. Mentre scendo lungo il sentiero di destra, quello del Sentiero delle Orobie, mi fermo una decina di minuti per una breve sosta da dedicare all’omino di pietra che quotidianamente, tappa per tappa, realizzerò come testimonianza temporanea del mio passaggio. Dopo aver posizionato i primi tre pezzi del precario testimone, mi organizzo con la macchina fotografica, cavalletto e filtri per immortalarne la figura.

Continuo con altre pietre finché raggiungo quota cinque equilibristi, tento il sesto, ma purtroppo l’impresa non ha successo e l’unico spettatore rimasto è il sasso alto, snello e ben eretto posizionato alla base. Il primo omino del mio Sentiero delle Orobie ha avuto vita breve, mi rifarò nella tappa successiva.
Discendo abbastanza rapidamente la traccia che incide la pietraia e si intrufola fra i mughi. In breve tempo raggiungo i Piani di Bobbio dove mi aspetta, in sonnolente attesa, un gregge di pecore intento ad assaporare i caldi fasci di luce che penetrano le sempre più rade nubi. Una pecora, su tutte, cattura il mio sguardo: tranquilla e beata si crogiola al Sole sopra un masso ammantato da ginepri, lo stesso pietrone che riporta l’indicazione “101” sottolineata con una svogliata pennellata di rosso. Si sveglia lentamente mentre sono intento a fotografarla, gira il capo a ciondoloni verso l’obiettivo che l’osserva, e gli occhietti piccini piccini velati dal sogno interrotto mi guardano senza luce, appoggia il muso sul ginepro quasi a mettersi in posa sopra il segnalino orobico, diviene l’attesa per riprendere sonno.

A cinque ore di cammino, contando numerose pause fotografiche, pause panino, pausa omino, cambi non previsti del programma, mi trovo nella landa desolata dei Piani di Bobbio con ben due ore d’anticipo sulla tabella di marcia. Il pezzo di sentiero più difficile da affrontare, psicologicamente parlando, e il più semplice, fisicamente parlando, è quello del pianoro: le gambe abituate a salite dolci e impervie, a discese graduali e scoscese, a pianori morbidi e sensuali, non riescono a digerire la strada sterrata che devono affrontare fino a raggiungere il bosco del Monte Chiavello, punto in cui riparte la traccia escursionistica. Corro per non pensare, quasi impossibile.
Mi tuffo nel bosco con mia grande gratitudine nei suoi confronti: lontano dalla desolazione turistica estiva dei Piani di Bobbio, nascosto dal caldo Sole del primo meriggio, immerso nel fresco e umido sottobosco della faggeta. Attraversato l’avvallamento del Passo del Cedrino, l’ampio sentiero risale in costa lungo il Corneasso per poi giungere all’erboso Passo del Gandazzo, punto di partenza per l’ultima ascesa in direzione Passo del Toro.
Affronto la salita senza perdere tempo, le nuvole si abbassano rapidamente e la nebbia tende a essere più fitta. Il sentiero che ascende al monte Zucco del Corvo non è né bello né tanto meno agevole: la traccia è una cicatrice fonda, simile alla ramificazione di un grande albero, ha scavato il pendio lasciando un segno indelebile nei declivi erbosi.

Il solco è l’unica cosa a me visibile, il resto è grigio, grigio, grigio senza fine.
Salendo in quota si giunge dapprima a una piccola sorgente, che non delude mai il viaggiatore, e infine al Passo del Toro che sovrasta la sottostante Valle Stabina. Seguo la traccia del sentiero attraverso un tratto scavato nella roccia al quale è stata abbinata una lunga catena per aiutare il viandante, poi risalgo un’ultimissima salitella. Da qui in avanti il Sentiero delle Orobie Occidentali segue l’andamento lento, docile e delicato del pendio ammantato di rododendri del Monte Foppabona.
Come la mattinata è stata all’insegna di alcuni avvistamenti faunistici, anche il pomeriggio non poteva che concludersi con un giovane stambecco a circa cinque metri dal mio passo. Mi fermo, ci guardiamo, ci salutiamo e ognuno prende la sua strada.
In prossimità della Baita Foppabona la via scende fra i pini mughi e risale poi verso la Bocchetta di Camisolo dove termina la mia prima tappa. Nel tempo che le alte nebbie si diradano, lasciando spazio a un lattiginoso azzurro pomeridiano, sul versante opposto della Valle Foppabona un gregge costituito da qualche centinaia di pecore, forse più, si muove al passo dell’abbaiare dei cani. Sembra una nuvola lanuginosa che naviga in un verde cielo sospinta dai latrati del vento.

Alle quattro di pomeriggio, orario perfetto per una gustosa merenda, giungo al Rifugio Grassi dopo circa otto ore di cammino, soste e varianti; un risultato molto appagante dato che le previsioni erano attorno alle nove ore, o più. Saluto Anna e Amos, i gestori. Mi assegnano la camera, mollo il fardello, mi lavo e con grande soddisfazione scendo nella sala da pranzo nella quale incontro i bergamini intenti a chiacchierare davanti alla “stufa a razzo“. Mi siedo con loro sulla panca del tavolone centrale della sala, ordino una fetta della buonissima torta, preparata da Anna, a base di grano saraceno, mele e cioccolato, leggermente tiepida e accompagnata da crema calda; ovviamente non potevo rinunciare a una birra artigianale (Discordia della beer firm Herba Monstrum di Galbiate) per bagnare la merenda alpina.
Mentre Amos scende a valle per fare un fugace rifornimento, lo seguo per un breve tratto fino a giungere a un alpeggio in Val Biandino, dov’è in atto l’ultima mungitura della giornata.

Quattro chiacchiere con l’allevatore, quattro foto a lui in compagnia del suo centinaio di capre e un saluto finale con un arrivederci all’anno venturo, si spera.



Tempo di rientrare ed è ora di cena: vellutata di piselli e patate (delicata e saporita, morbida e sensuale, una vera goduria che ha necessitato un doveroso bis), risotto allo spinacio di monte, scaloppine al limone con polenta taragna alla piastra e, infine, un’ottima fetta di crostata di ricotta e mirtilli (altra opera di Anna). In compagnia di altri quattro commensali consumo la buonissima cena, parliamo di montagna, mineralogia e fotografia, per poi concludere la lunga e faticosa giornata con la buona notte.