Alta Via delle Dolomiti n.1 – Tappa 7

L’Alta Via delle Dolomiti n.1 è un percorso escursionistico lineare che si sviluppa dal Lago di Braies a Case Bortot (BL), 12 tappe (ridotte a 11 per convenienza), oltre 125 km di lunghezza e più di 7.000 m di dislivello. Noi, per comodità, abbiamo invertito il percorso per evitare di bivaccare al Bivacco del Marmol.

TAPPA 7

(Rifugio Città di Fiume – Rifugio Nuvolau)

Altra notte insonne, questa volta la causa è il caldo. Siamo in sei in una stanzina e l’effetto stalla è subito creato. Verso le 2:00 apro leggermente la finestra in un cigolio generale fra letto, pavimento e finestra stessa; nessuno si lamenta. Forse d’ora in avanti la temperatura diverrà accettabile, lo spero. Continuo a contare le ore e i minuti a seconda di quando ho voglia di guardare l’orologio. Alle 6:00 giunge il momento della preparazione e, ovviamente, quello della colazione: il tavolo del buffet è imbandito con pane, crema di nocciole e cioccolato, caffè e, colpo di scena, una veneziana o simil-panettone. Voto 8.

Civetta alle prime luci del mattino

Caricati i somari, ci incamminiamo lungo la strada sterrata che sale alle spalle del Rifugio Città di Fiume. Anche quest’oggi siamo i primi a partire, siamo troppo ligi al dovere. Seguiamo la carrareccia che scivola in un rado bosco di abeti e larici. L’arietta è briosa, fresca, leggermente umida senza diventare pesante, soffocante. Nel bosco udiamo diversi campanacci che rumoreggiano fra i tronchi e le fronde, percepiamo la presenza delle mucche ma non ne vediamo la mole cornuta. Poco oltre, un paio di manzette ci osserva con il solito vacuo sguardo, le salutiamo e loro, di rimando, si leccano il muso umidiccio con la lunga lingua violacea. Seguiamo la curva della stradina, loro due sono ancora là, nella stessa posa e guardano nella nostra direzione, impassibili, noi o chissà quale cosa è il punto focale del loro interessante.
Alla Forcella Roan (1.999 m s.l.m.) veniamo baciati dai primi raggi di sole, caldi, avvolgenti e rigeneranti. Il selciato prosegue fino alla Casera Prendera ove si interrompe sotto il possente braccio di una ruspa che sonnecchia in attesa del conducente. Come finisce la strada, inizia il sentiero.

Casera Prendera e il Becco di Mezzodì
Pelmo nei pressi di Forcella Col Duro, l’ultimo saluto

La valle è costituita da numerosi dossi, avvallamenti, dolci colline e morbide valli, propaggini del Becco di Mezzodì che troneggia con la sua stazza rocciosa. Dai verdeggianti pratoni echeggia il fischio di una marmotta, la cerchiamo, allunghiamo le orecchie e la vista e, dopo qualche minuto per carpirne la posizione, scorgiamo una grassoccia pelliccia svaccata su un masso. Tintarella mattutina, si gode beatamente il primo sole della giornata. La osserviamo in lontananza. Le fotografie non le rendono giustizia, la sua mole è ingiustamente rimpicciolita e si perde nei pixel delle nostre fotocamere. Ci avviciniamo lentamente per fotografarla meglio e lei rimane immobile come il sasso. Passin passetto, ancora un ultimo passo, ancora uno e lei scappa nel sottosuolo. Attendiamo speranzosi, passano i minuti, niente. Torniamo sui nostri passi silenziosi e, qualche minuto più tardi, ricompare quando oramai siamo giunti sul sentiero.

Forcella Col Duro e a sbucare Cima Ambrizzola

Riprendiamo il cammino con la traccia che sale delicatamente nel verde pendio, qualche centinaia di metri e si inerpica con caparbietà per conquistare il dosso sommitale denominato Forcella Col Duro (2.293 m s.l.m.). Il passo successivo è un taglione sotto le pareti del Becco di Mezzodì, al di sopra del sentiero sassi e ghiaia, al di sotto massi e sfasciumi. Da una parte roccia e sporadiche erbacee, dall’altra un vasto anfiteatro erboso accerchiato da numerose cime, il cielo azzurro a chiudere la scatola delle meraviglie montane.
Alla Forcella Ambrizzola (2.277 m s.l.m.) inizia la lunga agonia del nostro ego inselvatichito: incontriamo un nutrito gruppo di adulti vocianti e chiassosi bambini, tutti in tenuta da scampagnata in campagna, di certo non in montagna dove il meteo può cambiare repentinamente e senza preavviso. Tagliamo corto e proseguiamo. Ogni passo che ci allontana da loro è accompagnato dall’echeggiante parlare che si propaga nella valle fra il Becco di Mezzodì, il Monte Mondevàl e lo Spiz di Mondevàl.

Becco di Mezzodì sovrasta la piana erbosa di Mondeval

La cartina in nostro possesso indica Sepoltura mesolitica accanto a tre pallini neri su sfondo grigio, ci guardiamo attorno nella direzione in cui dovrebbe esserci qualcosa, ma erba e alcuni massi sono gli unici attori in questa desolata landa montana. Proseguiamo lungo il sentiero nella speranza di incontrare un’indicazione che ci conduca all’area archeologica. A un centinaio di metri ci attende l’indicazione Uomo di Mondeval con una freccia puntata verso i prati. Non sappiamo esattamente di cosa si tratti, è un’incognita che alimenta la nostra curiosità e come tale non resistiamo al fascino della scoperta. Il sentiero scende dolcemente lungo un pratone, attraversa un torrentello e si dirige verso un enorme masso solitario nella radura. Al suo cospetto ci fermiamo, lo circumnavighiamo completamente fino a tornare sui nostri passi. La perplessità aleggia nell’etere, ci guardiamo e il dubbio d’aver sbagliato qualcosa di non definito si stampa sui nostri volti. Non sapendo cosa aspettarci, cosa cercare e cosa trovare, restiamo di sasso nell’osservare il macigno. Alcuni numeri sono dipinti sulla roccia, saranno indicazioni utilizzate dagli archeologi per etichettare dei reperti o sono i blocchi del boulder? Chissà, forse l’homo si è accoppato nel provare un nuovo tracciato 8c+, avrà mancato la presa nel lancio finale e sarà caduto mancando i crash pad di erba secca e pelliccia di marmotta. Lasciamo la mia fantasia alle prese sui passaggi chiave del boulder alto 3-4 metri e torniamo verso il sentiero dell’Alta Via.
Direzione Forcella Giau. La traccia da seguire sale lungo i prati sviluppati ai piedi dello Spiz di Mondevàl, la profusione di fiori entra in contrasto con le bianche e grigiastre rocce delle montagne.

Monte Mondeval (sx), valli verdeggianti modellate dal tempo
Tracciolino lungo il Sentiero CAI 436

Un branco di asini pascola al sole, alcuni giocano, altri si dedicano ad amorevoli coccole, un paio dormicchiano col capo ciondolante, uno corre allegro e un altro lo segue a ruota. Il più bello si fa fotografare dai numerosi turisti multietnici comparsi dal nulla. L’asinello più giovane è quello maggiormente immortalato e anche noi veniamo inesorabilmente catturati dal suo giovanile fascino spensierato.

Un asino in posa fotografica sul crinale erboso

Giunti alla Forcella Giau (2.360 m s.l.m.) veniamo catapultati in città. Gente che urla, bambini che giocano a calcio, ragazze in pose spastiche per selfie di dubbio gusto, persone agonizzanti dopo la breve ascesa al passo, tutte col cuore in gola e i visi paonazzi, dai più giovani ventenni ai più anziani settantenni tutte con un piede nella fossa dopo questa escursione. Osserviamo il nuovo paesaggio di una valle appena incontrata: montagne sconosciute, il Rifugio Nuvolau in cima al suo monte, una strada asfaltata che sale dalla valle trasportando auto, moto e camper in coda, e il Passo Giau con un’infinita moltitudine di mezzi motorizzati.
Scendiamo velocemente incontrando una processione di infarti camminanti o altri semplicemente boccheggianti, anche i cani sono sconvolti e alzano lo sguardo al cielo con occhi supplichevoli e lingue gocciolanti. La vita di città non giova ne ai bipedi ne ai quadrupedi.
Nel punto in cui il sentiero diviene pianeggiante, incontriamo una coppia di vacche dal manto roano, bianco con macchie rosse tanto per intenderci, che amoreggia. La prima lecca vigorosamente il collo, il muso, il grosso faccione dell’altra mucca, la seconda si mette in posa, allunga il collo, si fa coccolare dalla lingua rugosa e bagnaticcia della prima. Una scenetta divertente, proprio inusuale.

Tamina e Verona, due inseparabili amiche

Proseguiamo, il cammino si inerpica sul versante settentrionale del Monte Cernera, che non vediamo in quanto è nascosto dalle alte pareti rocciose che sovrastano i nostri sguardi. Forcella Col Piombin, 2.239 m s.l.m., ci aspetta a breve distanza, con essa il pranzo. Panino con la marmellata di prugne, tanto per cambiare tipologia di frutta. Purtroppo il vento teso e freddino ci impone lo spostamento, smontiamo l’accampamento e riprendiamo la marcia per il passo successivo: Forcella Zonia (2.330 m s.l.m.).

Monte Gusela (sx) e le Tofane (dx)

Veniamo catapultati nel mondo antropizzato, caotico e incivilizzato del Passo Giau. Il passo è colonizzato da personaggi di ogni genere e tipo la cui massima aspirazione in montagna è farsi un selfie con le mucche al pascolo; niente da togliere a queste ultime. Alcuni in ghingheri come se dovessero andare a fare shopping in Via Monte Napoleone, altri pronti per il Moto GP al Mugello, altri ancora con vesti montanare all’ultima moda in “zuava style” con camicia a quadri, pantaloni alla zuava, scarponcini per il vero look da montagna e zainetti per gli alpinisti appassionati dello stile retrò; che dire, pensavo di aver visto il peggio, ma qui rasentiamo l’assurdo. A vedere queste cose rido dal piangere…
Da Forcella Zonia a Passo Giau sono una manciata di minuti su sentiero facile, in leggera discesa. Alla sella, un brevissimo tratto di asfalto fra auto, moto e persone che sciamano in ogni direzione. Oltre, un centinaio di metri di sterrato, il bivio fra il Sentiero CAI 443 easy e il Sentiero CAI 443 hard, infine, finalmente, la traccia che ci allontana dal caos cittadino.
Il sole sferza la terra, le piante e le rocce con un caldo afoso, pesante, graffiante, cocente e accecante. Cerchiamo un riparo, l’ombra di un albero o di un macigno, un attimo di tregua dalla calura, dalla stanchezza, dal lontano brusio di voci moleste e di motori rombanti. Lo troviamo accanto a un abete incastonato fra i massi precipitati in ere dimenticate, curvo sotto il peso delle avversità della natura. Mangiucchiamo qualcosina, frutta disidratata e cioccolato fondente. Goduriose sorsate d’acqua ritemprano il nostro animo liquefatto, arrostito. Pochi minuti che sembrano ore, le energie tornano a fluire e i sorrisi brillano fra l’ombra e la luce, giochi di contrasti fra gli aghi della conifera.
Riprendiamo i nostri passi sul Sentiero CAI 443 allontanando i pensieri dal sole verso la ferrata che ci attende. Incrociamo una traccia che sale lungo una sassaia colonizzata da rade erbe, ma non capiamo se è la nuova via da prendere o dobbiamo continuare. Il Sentiero CAI 438 è più avanti? Senza ottenere risposta alcuna, continuiamo, siamo fiduciosi di trovare una determinante palina.
Nei pressi di un esiguo pianoro, un palo con alcune indicazioni segna il punto dove dobbiamo cambiare direzione di marcia: lasciamo la strada che prosegue e saliamo lungo l’irto versante orientale del Monte Gusela. Alle nostre spalle un enorme masso, grosso quanto un monte, si gode l’ebrezza della nostra faticosa salita, lui imbellettato dai raggi solari, noi grondanti di sudore. I tornanti sembrano non avere fine, incalzo le marce e allungo. Tengo Giada in vista, sia per dirle dove sono sia per controllare che non si verifichino problemi di sorta. La aspetto in una sella, oltre si intravede la Ferrata Ra Gusela.

L’ultima salita prima di giungere alla Ferrata Ra Gusela

Indossiamo l’imbrago, il set da ferrata e il casco. Attendiamo un gruppo di tedeschi che scende dalla via. Con loro precipita un sasso e poi un altro ancora. Urlo in inglese nella loro direzione, non imprecazioni sia chiaro, ma chiarisco di fare maggiore attenzione perché, quei distacchi, posso essere pericolosi se dovessero raggiungere qualcuno, se non addirittura letali. Ripeto la lezioncina non appena ci raggiungono e mi rispondono con superficialità che non se ne erano accorti. Mentre si allontanano mi accorgo che uno di loro ha i talloncini di acquisto attaccati all’imbrago, resto basito, esterrefatto, anzi, stercofatto.
Più la montagna diventa una moda, più si incontrano persone impreparate che non hanno minimamente idea di cosa sia la natura. La montagna è natura, ma la natura non è tutta montagna. La natura è una cosa fragile che si inquina e si distrugge facilmente. La imbrigliamo senza fatica come un pesce rosso in una boccia di vetro o un leone in una gabbia di uno zoo, la annulliamo disboscando un bosco secolare, la uccidiamo raccogliendo un fiore raro, cacciando un animale in via di estinzione per abbellire un salotto o liberando specie invasive in habitat fragili. La montagna la puoi inquinare con mozziconi di sigarette, scarnificare con piste da sci o sfruttare nei modi più disparati. La montagna, come la natura, non si lamenta, non piange della disgrazie, non è rancorosa verso l’uomo e tantomeno vendicativa, semplicemente aspetta e cambia, guarda e muta, osserva ed evolve, e quando meno ce lo aspettiamo serve noi stessi su un piatto d’argento: noi accompagnati da un sublime contorno di sbagli ed errori, il tutto condito con la stessa arroganza con la quale l’abbiamo vessata. Chi affronta le ferrate facendo cadere i sassi, chi cammina sui ghiacciai con le scarpe da ginnastica, chi percorre sentieri con le ciabatte, chi affronta una via di arrampicata col temporale in arrivo, chi non conosce il percorso che deve affrontare o la sua difficoltà o tantomeno la relativa lunghezza, chi pensa di andare a fare un facile picnic in alta quota senza l’abbigliamento utile per fronteggiare un improvviso temporale, il vento, il freddo o il buio qualora non si conosca il tempo necessario per il ritorno. Basta un minimo errore e finisce tutto. Poi tutti a piangere chiamando il soccorso alpino, come un Dio invocato a seguito di innumerevoli preghiere. La mancanza di rispetto che l’uomo rivolge a qualsiasi di cui non ha la proprietà è l’esempio calzante di quello che ci meritiamo per il futuro, del singolo e di tutti. Ognuno ha ciò che si merita.
Altra dose di polemica, mi dispiace farvela leggere, ma nessuno vi obbliga a farlo.
Ben lontani dal gruppetto, attacchiamo il primo tratto della Ferrata Ra Gusela. Inizia con una docile salitella, facile, verticale sulla sinistra e decisamente ripida sulla destra. Agganciati al cavo di sicurezza, lo seguiamo fino a un punto in cui si allarga il sentiero, qui ci fermiamo e attendiamo l’arrivo di una coppia. Che dire, torno a fare polemica. Entrambe senza attrezzatura di sicurezza, lui abile nel muoversi in disarrampicata, le completamente l’opposto, lui che non si cura dell’incolumità della sua compagna, lei che scende a tentoni fino alla cengia, lui che fa il bulletto come per mostrarle quanto è bravo, lei che ride di tutto questo, noi terrorizzati per la scena, agghiacciante. Ci raggiungono e ci fanno segno di proseguite, io mi rifiuto categoricamente di oltrepassarli con il corpo a valle e loro a monte, quindi slegato. Preferisco restare appoggiato alla roccia, legato al cavo e loro, incoscienti, slegati e baldanzosi per quello che hanno appena affrontato. Ci ringraziano e spariscono dietro la sella. Noi continuiamo scrollando la testa. La via sale ripida su roccia sporca di terra e fine ghiaino, gli zaini pesano e spostano verso l’esterno i nostri corpi, ma con la sicurezza in vita siamo sereni e sicuri. Quei cinque o sei metri, forse più o forse meno, li oltrepassiamo senza alcuna difficoltà. In cima voltiamo lo sguardo in basso e ripensiamo a quello che abbiamo visto. La vita è una sola, non importa quanto possa essere facile un sentiero, una ferrata o una via di arrampicata, se il pericolo viene sottovalutato la fine è dietro l’angolo; meglio minimizzare il rischio, abbassare la franchigia puntando allo zero, non vogliamo pagare, o al meno col costo più basso.
Alcune volte ripenso alla dimenticata selezione naturale che ha portato l’uomo durante tutti i passi dell’evoluzione, penso che la selezione naturale non esista più, è estinta, e noi, ora, siamo nell’era dell’involuzione, della scemenza, della demenza; non rispettiamo gli altri e, a dire il vero, non sappiamo rispettare noi stessi. Alla fine della fiera, mi viene da ripetere un mantra acquisito: ognuno ha ciò che si merita. Sacrosanta verità. A voi la scelta di cosa essere, come vivere e se vivere.
Basta, direi che per ora vi ho annoiati fin troppo, meglio tornare all’avventura, per chi non ha paura.
Torniamo alla ferrata che fu. Siamo un pizzico delusi della sua brevità, pensavamo in qualcosa di più duraturo. In ogni caso la realtà è di una bellezza disarmante: un altopiano carsico immenso si estende verso le vicine cime del Monte Gusela e del Monte Nuvolau, Tofana di Rozes in lontananza è così vicina da poterla toccare, le famose Cinque Torri che in basso troneggiano su prati e boschi, il sole sulla pelle, il vento fra i capelli, la roccia nuda, rossiccia e terrosa ai nostri piedi, in lontananza altre cime e vette, nuvole in corsa nel cielo, lontanissime voci all’orizzonte, il Rifugio Nuvolau che troneggia sulla sua omonima vetta, la nostra odierna tappa finale, il riposo meritato che ci aspetta, ricordi, emozioni, gioia e bellezza.

Tofane e la Cinque Torri d’Averau

Ci attende un plateau di roccia carsica, una piana che sembra infinita, bianca, abbacinante, rugosa, intagliata e graffiata, un labirinto di insenature, dossi e avvallamenti. Il sentiero parte con alcuni segnavia di bianco e rosso dipinti, sono distanziati gli uni dagli altri da alcuni metri di roccia, altri si perdono fra le pieghe del tessuto calcareo per nascondersi alla nostra vista. Il percorso da seguire è una traccia effimera che si perde nella pietra, non c’è terriccio o ghiaia che ne evidenzino le sorti, non ci sono rami spezzati o erba calpestata, non ci sono persone da seguire, solamente pennellate bicolor che dobbiamo cercare a ogni passo. Puntiamo in direzione del Rifugio Nuvolau seguendo le curve del sentiero che disegnano la morfologia di questa landa desolata.

Il plateau di roccia carsica del Nuvolau, sullo sfondo Cinque Torri d’Averau e Tofane a sx, Cortina d’Ampezzo

A un centinaio di metri dall’arrivo decidiamo di aggiungere una tappa intermedia all’avventura: Monte Gusela. Tagliamo per la via che si orienta verso Sud e si inerpica docilmente sul versante settentrionale della ormai vicina cima. In vetta ci attende una statua della Madonna, solitaria; ora con due sconosciuti a farle compagnia.
Il paesaggio è immenso, montagne e cime vertiginose, boschi e prati, nuvole turbinanti e cielo azzurro, minuscole persone ai passi, sui sentieri o nei pressi dei rifugi, pascoli e borghi lontani, paesi in lontananza, vento tiepido e caldo sole. Respiriamo la leggerezza dell’aria, la sua freschezza, la sua energizzante libertà. Stiamo così bene in cima a questo cucuzzolo che non vogliamo più tornare alla realtà della nostra avventura, ci basta questa, semplice, unica e mozzafiato.

Panorama dal Monte Gusela: Passo Giau, Monte Cernera, Punta Lastoni di Formin (sx), Pelmo (sfondo a sx) e Civetta (sfondo a dx)
Panorama dal Monte Gusela: Nuvolau e il Rifugio Nuvolau, Averau, Lagazuoi Piccolo, Sasso di Stria a sx

La realtà dei fatti: il rifugio ci attende e con esso il termine del cammino. La stanchezza rapisce i nostri animi non appena discendiamo il pendio per ricongiungerci al sentiero principale, accusiamo la fatica dei dislivelli, il peso dello zaino, il caldo, il sole che scotta la pelle. Entro quasi in trans, mi sento scisso fra anima e corpo; il riposo nuoce gravemente alla salute. Incontriamo nuovamente il bivio e riprendiamo la via verso sinistra, manca poco. In attesa del nostro arrivo Ferrata Ra Gusela, l’ultima fatica, un breve tratto attrezzato, scale a pioli, il Rifugio Nuvolau (2.574 m s.l.m.) sul finire.
Annunciamo il nostro arrivo alla rifugista e veniamo rimbalzati, dobbiamo attendere fino alle 16:30 circa per poter accedere alle camerate. Molto strano, inusuale, non ci resta che aspettare i loro comodi. Abbiamo urgente bisogno di una doccia, ma sappiamo non esserci. Abbiamo urgente bisogno di riposo, ma a nostra disposizione ci sono solo tavoli e panche di legno; ci svacchiamo a uno di questi. Ho urgentemente urgenza di mangiare, soprattutto dopo aver visto un delizioso panino imbottito con salamella alla piastra e cipolle caramellate, la birra viene di conseguenza.
Scrivo queste parole con la pace dei sensi, la bocca insaporita di aromi decisi, lo stomaco beatamente sazio, il corpo stanco dissetato con fresca Weizenbier e l’alcol che alleggerisce la mente dal peso della fatica.
All’orario opportuno, praticamente deciso a casaccio dai rifugisti, conquistiamo la piccola camerata in legno. Quattro letti, due per noi e due per chi verrà, e una finestra sul mondo. Scopriamo una curiosità del Rifugio Nuvolau, ovvero che qui ci sono ben tre bagni: uno per gli ospiti della giornata è aperto tutto il giorno, uno è fruibile dopo le cinque quando i mordi e fuggi scendono a valle, uno all’interno dell’edificio è utilizzabile solo dopo cena. Andiamo nel n.2, chiuso. Ci spostiamo di conseguenza al primo, una turca e basta. Rientriamo e chiediamo cosa possiamo fare per darci un minimo di lavata, aprono il secondo solo per noi. Ci laviamo al lavandino con piroette e acrobazie degne di un funambolo, ma la pulizia è accettabile. In alta montagna la doccia è un lusso e lavarsi non è sempre fattibile, in bivacco o in tenda per intenderci.
Torniamo ai nostri ricordi, alle emozioni vissute, all’inchiostro che sporca le pagine, alla bellezza di un sacrosanto riposo.
La cena arriva con il menù alla carta: canederli in brodo annegati da 9 m di neve e polenta con Gulasch io, canederli col burro fuso e cotoletta con patatine fritte per la mia lei. Voto 7.
Il tramonto è alle porte, in massa usciamo tutti nel freddo vento della sera. Nubi e alte nebbie vorticano ammantando le montagne, nascondono le cime e le prime stelle. Le calde ultime luci del giorno giocano a nascondino con l’umidità, e io lotto coi filtri a lastra per ottenere il meglio dalla scena. L’anteprima delle immagini immortalate sembra promettere bene, molto bene, ma in genere a computer le mie aspettative non sempre coincidono con l’emozione iniziale; si vedrà.

Tramonto dal Nuvolau, Averau in primo piano

Il freddo e l’umido penetrano nelle vesti, la luce sbiadisce e le tenebre prendono lentamente il sopravvento sul paesaggio oramai addormentato. Chiudiamo la settima giornata di fatiche e gioie con un bellissimo tramonto montano, indimenticabile. È tempo di ritirarci nella nostra camerata e scoprire i due compagni di dormita. Una coppia tedeschi attempati ci saluta con un sorriso, loro sono già sotto le coperte e noi ci apprestiamo a movimentare gli ultimi minuti di luce artificiale. Salire sul letto a castello senza scala è un’impresa, non oso pensare di scendere qualora mi svegliassi per andare al bagno, al buio; come minimo mi ribalto a terra con le zampe all’aria.


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