Alta Via della Valmalenco (1° racconto)

Agosto 2006, destinazione Valmalenco

La Valmalenco è una valle laterale della Valtellina che si apre a nord di Sondrio in direzione Monte Bernina (4.049 m s.l.m.). Alle sue spalle lascia l’ampia vallata dell’Adda, decorata con i tipici terrazzamenti dei vigneti, per fiondarsi nella più stretta e selvaggia valle del Torrente Mallero, immersa nel ventre dei boschi alpini. La Valmalenco, delimitata a nord dalle Alpi Retiche Occidentali ed a sud dalle Alpi Orobie, si sviluppa con una conformazione a Y, precisamente da Chiesa in Valmalenco vi è la biforcazione della valle con direzione Chiareggio (1.612 m s.l.m.) e Campo Franscia (1.600 m s.l.m.). L’Alta Via della Valmalenco è un percorso escursionistico in quota che si snoda fra le montagne dell’omonima valle, all’interno della compagine montuosa vi è il Gruppo del Disgrazia, del Bernina e dello Scalino. Questo sentiero alpino si sviluppa in otto tappe lungo un percorso ad anello di circa 110 km con partenza da Torre di Santa Maria (770 m s.l.m.) e con arrivo in località Piazzo Cavalli (1.777 m s.l.m.), dal quale si può raggiungere il punto di arrivo seguendo un sentiero poco battuto che si articola fra antichi borghi tipici della zona. Il sentiero di partenza si trova in località Ciappanico (1.034 m s.l.m.) presso il paese Torre in Santa Maria, lo si può individuare seguendo le indicazioni relative all’Alta Via della Valmalenco.

TAPPA 1

(Torre Santa Maria – Rifugio Bosio)

Arrivati a Ciappanico posteggiamo l’auto in una stretta stradina sterrata poco distante dal punto in cui nasce l’omonimo sentiero che percorreremo per i prossimi 8 giorni.
Cartina alla mano cerchiamo il triangolo giallo che ci accompagnerà per tutto il viaggio. Il primo tratto del sentiero costeggia alcune case per poi addentrarsi velocemente nel bosco che le circonda. Il cielo è nuvoloso e raramente, quasi fosse un regalo, il sole si degna di sorriderci; il tempo ci fa ben sperare. Nel bosco l’aria è ferma, stagnante, ancora umida dagli interminabili temporali della settimana precedente.
La via si inerpica nel bosco deciduo che si sviluppa lungo la base della valle. Dopo una ventina di minuti incontriamo delle baite semi abbandonate che sicuramente sono utilizzate per il ricovero delle capre; qua e là, disseminate ovunque, vi sono una miriade di bagolette tondeggianti. Più avanti, dopo circa 50 minuti dal punto in cui ci inoltrammo lungo la via, raggiungiamo l’Alpe Son (1.361 m s.l.m.), molto caratteristica: casette in pietra, travi a vista e tetto in ardesia; tipiche di queste zone di montagna. L’alpeggio, posizionato a mezza costa su un piccolo promontorio, gode di una vista fantastica su tutta la parte inferiore della Valmalenco. Sorpassato il piccolo grumo di abitazioni, si scende lungo la costa della valletta e si raggiunge un ponticello in legno sul Torrente Torreggio, incastonato in una piega della montagna. Attraversiamo il rustico passaggio mentre un turbinio di flutti e di schiuma ci avvolge coi suoi gorgheggianti muggiti, da qui seguiamo una serpeggiante mulattiera nel bosco di abeti, che, con il suo zizzagare costante, ci porta al limitare dell’Alpe Pra Piasci che abbraccia il Rifugio Grandi (1.720 m s.l.m.). Man mano che saliamo in quota l’aria diventa frizzante e briosa, alleggerisce il carico sulle nostre spalle dandoci la carica per continuare il cammino. Giunti al rifugio, a circa 2 ore dalla partenza, ci concediamo una brevissima pausa per gustare l’affascinante paesaggio che si apre ai nostri occhi permettendoci di ammirare la parte centrale della Valmalenco, un panorama mozzafiato, esteso dalla Rocca di Castellaccio fino al Monte Palino (2.686 m s.l.m.) con al centro il massiccio del Sasso Nero (2.917 m s.l.m.).
Si riparte, ci attende ancora un lungo percorso che toccherà la cima del Sasso Bianco (2.490 m s.l.m.) per poi discendere fino al Rifugio Carlo Bosio (2.086 m s.l.m.), ove trascorreremo la prima notte.
Passato il Rifugio Grandi, attraversiamo un boschetto di larici ed abeti con un morbido sottobosco ricco di piante di mirtillo, ogni passo è seguito da un minuzioso spilucchiamento di prelibate leccornie violacee. Incontriamo una stradina sterrata che solca inesorabilmente il costone della montagna, sconfortati nel dover seguire tale pista, raggiungiamo l’Alpe Arcoglio Inferiore (1.976 m s.l.m.) sovrastata dall’omonimo monte. Anche qui la vista è superba, peccato che il cielo diventi sempre più cupo ed arcigno, i raggi solari diventano così rari che ad ogni loro comparsa ci riempiono di calore l’affannato cuore. Da qui fino al rifugio per il pernottamento, ci sarà un bellissimo sentiero di montagna immerso completamente nella natura. Lasciamo alle spalle i boschi per inoltrarci su pendii tipicamente alpini con pini mughi ed ontani che si fanno sempre più sparuti man mano che continuiamo l’ascesa al Sasso Bianco. Attraversiamo l’Alpe Arcoglio Superiore (2.123 m s.l.m.) dopo circa 3 ore di cammino, quando d’un tratto veniamo investiti da un vento gelido accompagnato da una finissima pioggerellina abbinata con sapiente armonia a pungente grandine; la speranza che il tempo volga al bello ci abbandona con la stessa velocità con cui soffia il vento. Alle 13:20 giungiamo al Lago d’Arcoglio (2.234 m s.l.m.), l’affanno degli ultimi passi ci suggerisce un momento di riposo. La pausa, lungo la sponda del laghetto, è molto gradita e ci dedichiamo ad un pranzetto fugace per riprendere le energie spese. I nostri pensieri volgono al tempo, gravi nuvoloni incalzano orgogliosi oscurando quasi completamente l’atmosfera; per paura di incappare in un acquazzone coi fiocchi, ripartiamo velocemente, arrampicandoci sui pendii erbosi del Sasso Bianco. Neanche il tempo di arrivare in vetta, a circa 1 ora e mezza dalla sosta, e siamo costretti ad indossare le mantellone; tutt’attorno il cielo è nero come la pece, mentre in Valtellina vi è un morbido e vellutato alone luminoso, forse l’ultimo raggio di sole prima della fine del mondo. Volgiamo lo sguardo alla discesa che ci aspetta o almeno per quelle poche centinaia di metri che possiamo osservare, tutto il resto è stato mangiato dal Nulla; con enorme gioia, che empie i nostri cuori, constatiamo che ci aspetterà una dolce discesa su sfasciumi di ogni genere, tipo e dimensione; tipicamente definita spacca gambe. Iniziamo la scesa lungo il versante nord del monte, dopo neanche un centinaio di metri veniamo bombardati da una mitragliata di grandine accompagnata da pioggia fittissima, il tutto condito da una batteria di fulmini e saette. Ai nostri piedi si è accumulato uno strato di circa 10 cm di bianchi pallini, come un manto nevoso. Le vicine montagne, per quel poco che vediamo, sono imbiancate da un candito mando, come se fossimo all’inaugurazione dell’inverno; lontano da qui, a qualche centinaio di chilometri, c’è sicuramente qualcuno che annaspa nell’afosa estate padana sognando le fresche montagne, tutt’al più i nostri pensieri mirano al caldo camino del rifugio. Dopo 2 interminabili ore, all’interno del temporale, raggiungiamo il Rifugio Bosio; sani e salvi, quasi un miracolo.
Dopo l’ottima accoglienza dei rifugisti, ci appropinquiamo nella camerata da 12 posti e, non sorpresi dall’essere gli unici pazzoidi che gironzolano con questo tempo infernale, adagiamo le nostre membra lungo un conciliante materasso, nel silenzio più assoluto. Estenuati più dal diluvio universale che dalla camminata, con un languorino nello stomaco, ci collochiamo nel salone in attesa di una calda cenetta. Nel frattempo stiliamo il rapporto di combattimento: pantaloncini bagnati, felpa bagnata, calzettoni bagnati e scarponi, anch’essi bagnati, la mantellona, fortunatamente, ha salvato almeno lo zaino. Ci abbuffiamo con brasato, salsicce, polenta, vari formaggi, insalata, pane, strudel e per concludere un bel caffettino, pieni come suini, pensiamo a cosa ci aspetterà il giorno seguente osservando attentamente la cartina della Valmalenco. Sazi, ci acciambelliamo nei nostri giacigli alla ricerca del dovuto riposo.

TAPPA 2

(Rifugio Bosio – Rifugio Ventina)

Sveglia all’alba, i primi pensieri piombano nei ricordi del temporale del giorno precedente e la speranza vacilla, usciamo dalla camerata dirigendoci verso la sala per la colazione e, con somma sorpresa, dalle finestre aperte al piano inferiore penetra violentemente una luminosità a noi sconosciuta; fuori il mondo è immerso in un puro azzurro cristallino. Sbigottiti, senza parole, mangiamo la sostanziosa colazione a base di caffèlatte e tè, cereali e pane con la marmellata, per poi fiondarci all’esterno a goderci libidinosamente i primi caldi raggi del sole mattutino. L’aria è fresca, quasi pungente, ma dopo pochi passi sul sentiero bagnato dal morbido sole estivo, ci scaldiamo e carichi di un’energia inebriante voliamo lungo la via. Il cielo è completamente terso, qualche sparuta nuvoletta cerca rifugio nelle pieghe delle montagne circostanti il rifugio, come se avessero paura del sole; nel frattempo l’atmosfera si fa sempre più calda e piacevole. Il tepore ci avvolge, la voglia di stendersi sull’erba soffice, ancora umida, cerca di prendere il sopravvento; il dovere ci chiama, oggi dovremo superare l’ostacolo più impegnativo dell’Alta Via della Valmalenco, obiettivo Passo del Ventina a quota 2.675 m; niente di eccezionale, tranne per il fatto che ci aspetterà una scarpinata con fiocchi e controfiocchi.
Il sentiero, sormontato dal Gruppo del Disgrazia, scivola sinuoso lungo la valle costeggiando dapprima il Torrente Torreggio, gradatamente risale lungo il pendio per poi raggiungere l’Alpe Mastabbia (2.80 m s.l.m.). Il panorama che si estende ai nostri occhi è semplicemente strepitoso, il vellutato cielo blu contrasta con le bianche cime frastagliate di tutta la vallata; in particolare il Gruppo del Bernina si staglia con la sua fiera imponenza. Baciati dal sole continuiamo il nostro cammino seguendo sempre i segnalini a forma di triangolo giallo ed arriviamo all’Alpe Giumellino (1.980 m s.l.m.) dopo circa un’oretta abbondante. A questo punto si possono scegliere due vie, la prima, quella ufficiale, scende fino all’Alpe Pirlo (1.619 m s.l.m.), all’Alpe Pradaccio (1.720 m s.l.m.) per poi risalire fino al Passo del Ventina (2.675 m s.l.m.), altrimenti vi è la seconda traccia, la variante, che sale in costa lungo la base del Pizzo Pradaccio raggiungendo la via ufficiale. La scelta è stata ovvia, perché scendere per poi risalire se, con la variante, si può tagliare evitando fatiche inutili, ed allora abbiamo tagliato. Lungo la variante, i capolavori del Bernina lasciano senza fiato, soprattutto la visione dell’Alpe Pirlo, giù in basso, lontana, là dove la via ufficiale ci avrebbe condotti, là dove avremmo dovuto risalire la via, là dove ci saremmo dati del pirla; peccato che fortunatamente siamo quassù. Soddisfatti e compiaciuti per la scelta azzeccata, dirigiamo in nostri passi verso la congiunzione con l’altro sentiero. Raggiunto l’incrocio guardiamo verso l’alto, anzi, più in alto dove la via sale, sale, sale impervia, quasi infinita con i suoi 700 m di massi, sfasci, pietroni, roccette, lastre e ghiaioni. Senza fiato, non per la fatica, ma per la visione che anticipa la scalata, quella che ci attende, rimaniamo inermi, fermi per riprendere il respiro. Proseguiamo la scarpinata sotto una brillante cascatella a sbalzo su una vicina parete rocciosa. Dopo una lunghissima arrampicata su quella discarica di pietrame, raggiungiamo, col cuore in gola, i Laghetti di Sassersa (2.431 m s.l.m.); circa a 4 ore dalla partenza al Rifugio Bosio. I laghetti, di origine glaciale, hanno le stesse tinte degli atolli polinesiani dove i topazi si sciolgono negli smeraldi creando un gioco di tinte, persino invidiabili dalle tavolozze di Gauguin, Van Gogh o Monet.
Ci concediamo una tranquilla sosta al sole contemplando il mare adamantino ai nostri piedi. Di soppiatto, lentamente, per non farsi notare, come una leonessa scivola nell’erba alta della savana prima di lanciarsi verso la preda, immensi nuvoloni, nascosti dalle alture, ci accerchiano soffocando il sole in una fioca luce per poi sopraffarla e soffocarla definitivamente. La calda atmosfera si trasforma velocemente in pungente aria gelida che penetra le nostre ossa. Inermi a questo sconvolgimento, ripartiamo in direzione Passo del Ventina lasciando alle nostre spalle il paesaggio lunare dei residui morenici.
Il sentiero si fa sempre più faticoso, gli sfasciumi rocciosi hanno lasciato il posto a ghiaioni interminabili; non capiamo su quale pianeta siamo precipitati, è una paesaggio marziano, carico di energia e povero come un deserto. Saliamo lungo l’irto pendio incalzati dai gravi nuvoloni, ogni passo scivola sulla fine ghiaia e, finalmente, dopo 2 ore, raggiungiamo l’agognato Passo del Ventina (2.675 m s.l.m.); desiderato a lungo e sudato fino alla fine. Il tempo sembra darci una tregua, anche se non ci aspettiamo grandi ricompense per la fatica sofferta. Riprendiamo fiato osservando attentamente il panorama. Sotto i nostri occhi vi è uno scenario impressionante, abbiamo a poca distanza la Vedretta del Ventina, il Monte Disgrazia (3.678 m s.l.m.), purtroppo senza la cima mangiucchiata dalle nubi, e tutta la parte alta della Valmalenco, zona occidentale, da Pian del Lupo (1.656 m s.l.m.) fino al Passo del Muretto (2.628 m s.l.m.).
Ormai la parte più difficoltosa era finita, da quel punto fino al Rifugio Ventina (1.965 m s.l.m.) sarà solo discesa, tutta sui residui morenici della Vedretta del Ventina. Preparate le mantelle, iniziamo la scesa sui ghiaioni. Lungo il percorso finale della seconda tappa attraversiamo due nevai, residui di tempi lontani, per poi raggiungere la cresta della morena, da qui l’omonimo rifugio dista qualche decina di minuti. Dietro di noi, lontano, anzi lontanissimo, il passo ci saluta mentre viene inghiottito dai pesanti nuvoloni.
Al rifugio ci aspetta il meritato riposo, lasciamo il carico nella stanza e ci tuffiamo sotto la calda doccia che allieta le gambe dai dolori. La cena ci aspetta, nel salone, assieme ad altri escursionisti, ci rimpinziamo a dovere; un buon modo per gratificare il nostro corpo dopo la notevole scarpinata odierna. Gustiamo voracemente un risottino alle erbe, formaggio e burro (tipo pizzoccheri), scaloppine e verdurine al forno, insalata e macedonia di frutta sciroppata con un pensierino: una pallina di gelato alla crema. La stanchezza prende il sopravvento e mentre il nostro corpo grida vendetta, l’unica soluzione è dedicarsi ad uno dei piaceri della vita, una sana e profonda dormita.

TAPPA 3

(Rifugio Ventina – Rifugio Tartaglione Crispo)

Dopo un’abbondante colazione riprendiamo il nostro lungo cammino, l’obiettivo odierno sarà il Rifugio Tartaglione Crispo (1.832 m s.l.m.) con tappa al Rifugio Del Grande Camerini (2.550 m s.l.m.).
La giornata si prospetta interessante dal punto di vista meteo, gli immensi nuvoloni che sovrastano le cime tutt’attorno, vengono squarciati sovente da intensi raggi di luce; invochiamo la clemenza del tempo, sperando in una giornata senza pioggia. Percorriamo velocemente la mulattiera che si snoda fino a Chiareggio (1.612 m s.l.m.), dapprima sul costone assolato del Monte Senevedo ed in seguito nel ricco bosco sulle sue pendici. Superati gli unici due tornati della stretta stradina, seguendo i triangoli gialli, tagliamo nella boscaglia lungo il sentiero che ci porterà a Pian del Lupo, più precisamente in località Forbesina (1.656 m s.l.m.). Immersi in distese di lamponi, mirtilli ed ontani, ammantate da alti abeti intervallati qua e là dai larici, a circa 40 minuti dalla partenza, arriviamo al ponticello in legno che permette l’attraversata sul largo letto del Torrente Mallero.
Una breve precisazione storica: nella famosa e disastrosa alluvione del 1987, il Torrente Mallero riversò migliaia di tonnellate di massi e pietre nel Fiume Adda, il quale inondò la Valtellina con le rocce provenienti da questa valletta. Ora l’alveo del Mallero è stato sistemato per scongiurare eventuali alluvioni di pietrame.
Continuiamo lungo il sentiero che si sviluppa sui residui della grande alluvione, massi tondeggianti di misure diverse, alcuni di notevoli dimensioni, hanno colonizzato completamente l’area di Pian del Lupo. In breve tempo, avvolti da fiamme color lillà, raggiungiamo Forbesina per poi solcare una strada sterrata, anch’essa collegata a Chiareggio. Poche centinaia di metri lungo la via e riprendiamo il sentiero che si inerpica nel fitto bosco; anche qui, golosi come non mai, ci dedichiamo ai piaceri della gola e, inesorabilmente, manciate di mirtilli succosi finisco fra le nostre fauci dandoci la giusta carica per affrontare l’ennesima scarpinata.
L’aria si riscalda, nella volta del fitto bosco si insinuano i lucenti raggi del sole che aprono i nostri cuori d’immensa felicità; il cielo si apre, le piccole nuvolette biancastre nuotano in un enorme oceano azzurro turchese.
In men che non si dica, giungiamo al guado di un fluente torrentello che scroscia vorticosamente fra le rocce nel bosco; a poca distanza vi è il pianoro con lo spiazzo erboso dell’Alpe Vazzeda Inferiore (1.832 m s.l.m.), circa a due ore di cammino dal Rifugio Ventina; di lì a poco, dopo un piccolo strappetto, vi è l’Alpe Vazzeda Superiore (2.033 m s.l.m.). Man mano che saliamo gli abeti lasciano gradatamente posto ai larici cedendo poi il territorio a mughi ed ontani, infine, a quote più alte rimangono solo cespugli di piccola taglia e prati sconfinati tinteggiati da un’infinità di sassi di ogni qualità. Il sentiero continua a salire a zig zag lungo il levigato pendio del Monte Vazzeda e man mano che saliamo, lentamente, dietro una cresta, si accresce l’imponente maestosità del Monte Disgrazia con la sua fascinosa vedretta in primo piano; gli ultimi sforzi e, stremati dalle fatiche di quei tre giorni, arriviamo al Rifugio Del Grande Camerini (2.550 m s.l.m.), ore 12:00. Il panorama è mozzafiato, alle nostre spalle il Monte Vazzeda (3.301 m s.l.m.) con il suo ghiacciaio, a destra il Monte Disgrazia, a sinistra la Valle del Muretto con l’omonimo passo e, davanti a noi, l’ampia valle della Valmalenco Occidentale con Chiareggio in primo piano sovrastato dal Sasso di Fora (3.345 m s.l.m.), dalla Sassa d’Entova (3.329 m s.l.m.) e dal Monte Senevedo (2.561 m s.l.m.).
Riprendiamo le nostre forze mangiando un boccone fugace mentre rimaniamo in solenne attesa che si liberi, dall’ammasso di nuvoloni, la cima del Monte Disgrazia. Con la fortuna di questi giorni, la nostra solita fortuna, decidiamo di ripartire mentre le nubi incombono cupamente sopra i nostri sguardi tristi. Discesa una semplicissima ferrata di 10 m, la via si sviluppa morbidamente lungo i pendii della Val Sissone fino ad un’altra cresca, molto suggestiva, che ci catapulta direttamente in bocca alla Vedretta del Disgrazia; sembra a portata di mano. Il morbido versante è coperto da vellutati cuscinetti d’erba e di fiori dai mille colori con le più svariate tonalità, numerosi rigoli d’acqua solcano questo manto verde arricchendolo con allegri fruscii e gorgoglii, mentre, in lontananza, sull’uscio della sua dimora, una marmotta fischietta al nostro passaggio. Tendiamo l’occhio in lontananza sperando di catturare, con lo sguardo, una qualche parvenza di movimento, ma tutto sembra immobile, finché, non distante dalla nostra via, nei pressi di un masso tondeggiante, simile ad un panettone, una piccola pallottolina pelosa schizza velocemente a qualche decina di metri dal pietrone per poi scomparire nella sua umile tana. Oltrepassata la cresta la via discende rapidamente verso il fondo valle. La scesa è maledettamente faticosa in particolar modo in un punto ove il sentiero è stato corroso da uno smottamento e le gambe doloranti iniziano a gridare vendetta. La fatica accumulata si fa sentire, la stanchezza cerca di prendere il sopravvento sui nostri poveri corpi. Raggiunto il Torrente Sissone ci troviamo a poca distanza dal Rifugio Tartaglione Crispo, sia separati dalla meta da qualche miliardo di massi paffuti dalle dimensioni più varie e colorite.
Alle 15:40 giungiamo a destinazione accasciandoci su una panca. Il primo pensiero, dopo qualche minuto di contemplazione su quanto fosse comodo stare sdraiati, vola fulmineamente alle dolci, croccanti e squisite frittelle del rifugio; non per altro siamo arrivati all’ora della merenda, decisamente più che meritata. Soddisfatti, molliamo lo zaino nella camerata e ci affidiamo alle cure tonificanti di una calda doccia. Flaccidi come dei molluschi senza conchiglia, andiamo ad accoccolarci nella sala dove da lì a poco mangeremo famelicamente la ghiotta cena a base di pasta fresca con burro e grana a volontà, scaloppine al limone con patate al forno e per concludere, dulcis in fundo, una strepitosa crostata con marmellata di mirtilli.
Satolli come si deve, facciamo due passi nel cortile per riempire i polmoni con la fresca arietta della sera. Durante la cena, il cielo si era liberato ed ora sovrastava la valle quasi completamente terso. Con la speranza di trovare una bella giornata per la tappa successiva, ci addormentiamo come sassi sugli accoglienti materassi nella camerata.

TAPPA 4

(Rifugio Tartaglione Crispo – Rifugio Longoni)

Svegli dalla dolce dormita e pimpanti più del solito, dedichiamo gli ultimi minuti nel rifugio a gustarci una fantastica colazione con la marmellata più buona che abbia mai assaporato.
Stranamente, tanto per cambiare, il tempo è incerto; le informi nubi si attorcigliano alle vette e lentamente calano lungo i pendii boscosi della valle. Lasciata la dimora, ci dirigiamo nuovamente verso la strada sterrata percorsa il giorno precedente con direzione Chiareggio. In località Forbesina, le rade baite sono immerse nelle fiamme color lillà che tinteggiano allegramente tutta la radura; lungo il sentiero, le alte ortiche creano un morbido e pungente manto che attornia gli edifici montani; tutt’attorno le nubi inghiottono l’ultimo spiraglio di luce e pesantemente schiacciano l’ambiente affogandolo nell’umidità.
Continuiamo lungo la via seguendo la strada sterrata che flessuosamente scorre in un’ampia abetaia di Pian del Lupo. Rari cespugli di lamponi, sviluppati nelle minute radure che punteggiano l’area, arricchiscono assieme a giallastri funghi gelatinosi, viscidi come limacce, il povero e spoglio sottobosco. Al limitare della macchia, il paesaggio si apre, a sinistra sale il pendio del Sasso di Fora (3.345 m s.l.m.), dapprima rasato e leggermente declivio per poi svilupparsi irto fino alla vetta, mentre a destra vi è il letto del Torrente Mallero sormontato dal Monte Senevedo (2.561 m s.l.m.). A 40 minuti di cammino raggiungiamo Chiareggio (1.612 m s.l.m.), un piccolo paesino montano con qualche decina di case, semplice, ma nello stesso tempo molto caratteristico. Lungo la via principale, l’unica del borgo, vi è il negozietto di alimentari della signora Mirta, amica di famiglia da numerosi anni. Acquistiamo pane, salumi e formaggi necessari per continuare il nostro cammino.
Salutata l’amata contrada, ci addentriamo nella boscaglia del Sasso di Fora, la quale ci accompagnerà fino all’omonima alpe nella Val Forasco. Il sentiero, molto agevole, scorre rapidamente sotto i nostri passi. Salendo in quota, veniamo totalmente ingoiati dalle spesse nubi, abeti e larici scompaiono gradatamente nel grigio etere perdendosi nell’infinito. Giungiamo ai prati acquitrinosi dell’Alpe Fora (2.053 m s.l.m.), l’aria pesante rende l’ambiente tetro, magico e spettrale, incantevole e angosciante. Continuiamo senza fermarci cercando di non sprofondare nella lurida acqua delle marcite, zampettiamo come camosci sui pochi sassi emersi per giungere finalmente su un percorso più secco e friabile. Una serie di strappetti, intervallati da tenui rigagnoli, ci permettono di avvicinarci alla Piana di Fora (2.300 m s.l.m.), qui veniamo schiaffeggiati da un gelido vento graffiante che sferza lungo i pendii erbosi. Gradualmente il freddo diventa più intenso e la finissima, quasi impalpabile, pioggerellina evolve in aghi invisibili. Indossiamo per l’ennesima volta la mantella, il nostro passo si fa più incalzante perché abbiamo paura di arrivare al rifugio completamente zuppi d’acqua. Di punto in bianco ci troviamo in una bufera di neve, il vento sferza impetuoso sui nostri coprizaino che svolazzano in ogni direzione, i bianchi fiocchi si scagliano violentemente sui nostri visi, ghiacciati dal piccante freddo; a guardarci basite, un gruppetto di brune alpine osserva la nostra frenetica corsa verso la calda dimora. Al centro dell’ampio anfiteatro roccioso della Piana di Fora calano le folate di vento, la neve continua a cadere sofficemente. Il pianoro è racchiuso in un’arena accerchiata da imponenti muraglioni dai quali alcune cascate si lanciano nel vuoto per tuffarsi in minuti laghetti ghiacciati. Il rifugio è distante qualche centinaio di metri, superato un leggero dislivello, costituito principalmente da scivolosi lastroni di pietra dalla forma tondeggiante, a ricordo di antichi ghiacciai, arriviamo finalmente al Rifugio Longoni (2.450 m s.l.m.).
Tecnicamente la tappa continuerebbe fino al Rifugio Palù (1.947 m s.l.m.), ma il tempo burrascoso ci fa desistere da qualsiasi altra camminata; decidiamo di concludere la quarta tappa e continuare il giorno successivo con la speranza in un tempo più clemente. Contattiamo il servizio meteorologico, il responso conferma le nostre preoccupazioni, il pomeriggio sarà all’insegna di pioggia, pioggia ed ancora pioggia, mentre per il giorno successivo è prevista una giornata con tempo variabile.
Sconsolati più che mai, affoghiamo le nostre disperazioni in un fumante piatto di pizzoccheri; semplicemente libidinoso.
Il meriggio lo trascorriamo all’insegna di numerose sfide a carte, le partite a Scala Quaranta e Macchiavelli si susseguono per svariate ore finché, stufi ed annoiati, riversiamo i nostri pensieri verso la realizzazione dell’itinerario per il giorno venturo. Osservata attentamente la cartina, sviluppiamo l’idea malsana di modificare radicalmente la quinta tappa aggiungendo una sfiziosa variante: Passo delle Tre Mogge (3.014 m s.l.m.). Programmiamo di svegliarci molto presto, prima del solito, per raggiungere il passo, da qui scenderemo al rifugio e, recuperati gli zaini, proseguiremo verso il Rifugio Palù, per poi dirigerci al successivo Rifugio Mitta; in caso la mattinata seguente non sarà delle migliori, la variante non verrà manco considerata. Fra un passo ed un pizzo, tra un sentiero ed un torrente, attraverso un alpe o un rifugio, non ci accorgiamo che oltre la mappa dei sentieri della Valmalenco, al di là della carta stampata, là dove sferzava la bufera, le nubi si erano alzate. Assorti dai nostri pensieri, non ci siamo accorti della mutazione atmosferica, lentamente la valle si era aperta lasciando filtrare gli ultimi raggi di sole. Usciamo frettolosamente per non perderci il tramonto. Infreddoliti, ammiriamo la palla di fuoco che cautamente cala alle spalle delle cime imbiancate. L’intera Valmalenco si apre cautamente, da Chiareggio a Caspoggio, da Torre Santa Maria fino a limiti delle Alpi Orobie; ora è tutto a portata di sguardo.
La cena, in compagnia della famiglia di rifugisti e da loro amici, è a base di gnocchi alla romana con formaggio e prosciutto cotto, il tutto arrotolato come girelle, tagliate a fette e cucinate al forno. A seguire brasato con fagiolini stufati ed involtini di peperoni con tonno ed acciughe; per finire, pere sciroppate con salsa di cioccolato. Pienotti e pasciuti come dei suinotti, collochiamo le nostre povere e dolorose membra nei sacco a pelo per sprofondare vorticosamente in un sonno profondo.

TAPPA 5

(Rifugio Longoni – Rifugio Mitta)

La sveglia suona brillantemente, sbattuti ed assonnati sistemiamo le nostre cose, ingurgitiamo la colazione e ci fiondiamo velocemente nella ghiacciata mattinata. I primi passi sono difficoltosi, i muscoli, ancora intorpiditi e freddi, non sono ancora in grado di contrastare la temperatura quasi invernale; lentamente saliamo il primo gradone roccioso che sovrasta il Rifugio Longoni (2.450 m s.l.m.).
Gradatamente, con una flemma mai vista, il sole fa capolino fra le creste del Sasso Nero illuminando l’intera vallata. La giornata, rispetto a quelle precedenti, è decisamente splendente; alcuni nuvoloni, sparsi per la valle, rotolano lungo i crinali dell’anfiteatro alpino. Sfortuna vuole che la nostra meta non sia ancora visibile, un massiccio agglomerato di nubi oscura la via.
La prima parte del sentiero è costituita soprattutto da sfasci di rocce, ma non appena si riesce a superare il secondo gradone dell’anfiteatro, l’area diventa più dolce; leggiadri cespuglietti sparsi lungo il declivio sono intervallati sovente da qualche rigoletto d’acqua cristallina. Il pendio, man mano che si sale, assomiglia sempre più all’infinito ghiaione del Passo del Ventina con l’unica differenza che vi è un bianco manto costituito da un fine strato di grandine, forse la stessa incontrata durante la prima tappa. L’impetuoso dislivello, nei suoi 600 m, si avverte sulle nostre povere gambe; le doloranti articolazioni ci permettono di raggiungere i due laghetti posti a ridosso del passo. Tutt’attorno sembra inverno, sprofondiamo nel bianco risucchiati dalla fitta nebbia e dal ghiacciato manto ai nostri piedi; sembra un paesaggio di un pianeta sperduto di qualche remota galassia. Non curanti dell’ambiente ostile, procediamo verso il Passo delle Tre Mogge (3.014 m s.l.m.). A circa 2 ore dalla partenza giungiamo a destinazione, le nubi si diradano regalandoci uno  strabiliante panorama a 360 gradi, la Valmalenco e la Svizzera sono ai nostri piedi.
La sosta è breve e, senza perdere troppo tempo, ripartiamo in direzione del Rifugio Longoni. La discesa lungo il ghiaioso pendio è più difficoltosa rispetto alla salita, il vello di bianche palline si rivela molto scivoloso; stando attenti a non precipitare lungo il dirupo, arriviamo al rifugio.
Tempo di prendere gli zaini ed il cielo volge al brutto, che stranezza. Come al solito, oramai abituati, indossiamo le mantelle ed iniziamo la discesa che ci porterà verso una strada, la quale seguiremo fino ad incrociare il successivo sentiero. Ai piedi del rifugio, i pini mughi si avviluppano come meglio possono fra gli immensi sfasciumi di roccia che caratterizzano quest’area della valle, poco più sotto, incavata in una gola, vi è una delle tante cave di ardesia tipiche della zona. Incrociamo la strada sterrata, il cielo plumbeo si diverte ad alternare finissima pioggia a momenti di calma assoluta; arcistufi da questo incessante avvicendamento incalziamo il passo cercando di guadagnare più tempo possibile; ancora parecchie ore ci attendono prima di raggiungere il Rifugio Mitta. La pista di terra battuta si snoda flessuosamente lungo la valletta, giunti all’incrocio, deviamo con direzione Lago Palù. Il sentiero, se si può definire tale, è segnato sulla mappa e dipinto sulle rocce, ma in realtà non esiste una pista vera e propria: la via è stata tracciata con un tripudio di fantasia lungo tutta la base del Sasso Nero ove sorge un’immensa foresta di giganteschi massi. L’ambiente è tutt’altro che favorevole per noi escursionisti, quest’infinità di rocce inumidite dalla pioggerella rendono il nostro passaggio decisamente difficoltoso. E’ una continua scalata, un saliscendi ripetuto ed eterno. Fra un passaggio ed un altro, il rischio di scivolare e spaccarci l’osso del collo è elevato; per non rischiare di sfracellarci dobbiamo rallentare notevolmente il passo. Demoralizzati per il tempo perso tra sfasci, massi, sfasci ed ancora massi, decidiamo di fare una brevissima sosta su una rara roccia piatta e quasi orizzontale, l’unica disponibile ad accoglierci per il pranzo. Tristi, abbattuti e fiacchi, ripartiamo; la strada che ci attende è ancora lunga ed impegnativa. In vista dell’Alpe Sasso Nero, il percorso diventa nettamente più semplice. La zona, molto umida, è una distesa erbosa sovrastata dalle imponenti pareti del Sasso Nero che formano un piccolo nido ove tutto tace; è un paesaggio fiabesco. A poca distanza raggiungiamo il promontorio che sovrasta il Lago Palù, in quel punto il sentiero si tuffa verticalmente verso la piana; la discesa è decisamente troppo pendente. Il sentiero sprofonda in un nugolo di pini mughi seguiti da larici ed un fitto bosco di abeti. Ad ogni passo sentiamo fitte lancinanti alle gambe, sovente ci fermiamo a riposarci per poi riprendere la scesa. Stremati fino al midollo arriviamo al limitare della radura dell’Alpe Roggione (2.007 m s.l.m.) ove ci accasciamo per riprendere le energie.
Trascorriamo 15 minuti, quasi interminabili, ad osservare il lago avvolto dal lussureggiante pascolo che si perde nel bosco di abeti, le montagna attorno spiccano verso le nubi che occultano il cielo. Il tempo sembra arrestarsi, restiamo fermi, immobili, impassibili; i nostri sguardi si perdono nel mondo immobile. Tutto tace, solo il nostro profondo respiro spezza la quiete.
Riprese le energie riprendiamo il nostro cammino, sfortunatamente ci aspetta ancora qualche ora di strada. Inoltrati nella selva, risaliamo zizzagando verso il Passo Bocchel del Torno (2.203 m s.l.m.). Il sottobosco nella piega della montagna è ricco e rigoglioso di svariate specie vegetali, sembra d’essere immersi nelle magiche foreste di Tolkien, lussureggianti e fiorenti. Al passo, il panorama è osceno, i pendii boscosi sono stati sfregiati da qualche ignobile mostro che col suo passaggio ha creato delle lunghe autostrade di terra bruciata. Gli indelebili solchi sono cicatrici incancellabili che hanno deturpato la valle. Il sentiero, che una volta era tracciato nell’incontaminata conca, ora non esiste, soppresso da una larga pista da sci. I segnalini triangolari sono dispersi qua e là lungo il limitare della selva rimasta, l’unica certezza è la larga via che si fionda verso il basso; le gambe, oramai completamente distrutte, cedono alla snervante discesa. Finalmente, raggiungiamo il punto in cui riprende l’Alta Via della Valmalenco, ci fiondiamo fulmineamente nella boscaglia cercando di dimenticare gli orrori trascorsi. L’ambiente è incontaminato, intatto, puro nella sua semplice genuinità; la prosperosa vegetazione è sommersa in un incantevole atmosfera. L’aria è fresca e genuina, rilassante per i nostri animi, ritemprante per i muscoli. Dopo interminabili ore a scorrazzare su pendii scoscesi ed in boschi selvaggi, arriviamo nella Valle dello Scerscen; passiamo per l’Alpe Campascio (1.844 m s.l.m.) e dopo un ultimissimo strappo, sotto un’incessante acquazzone, giungiamo al Rifugio Mitta con circa 9 ore di camminata.
Questa giornata è, fra quelle trascorse, la più allucinante. Tra i chilometri macinati sotto i nostri piedi e gli ettolitri di pioggia riversati sulle nostre teste, siamo molto soddisfatti per aver completato un tragitto così impervio e lungo, anche se la stanchezza ha demolito le nostre energie.
E’ arrivato il momento di dedicare qualche interminabile minuto ad una calda doccia rinvigorente. Affamati come non mai ci tuffiamo nel salone dove servono la cena; una fumante minestrona è d’obbligo con tutto il freddo che abbiamo patito, a seguire una bistecca alla griglia con contorno di verdure e per concludere una delicata torta alle mele, ancora tiepida. In men che non si dica la spossatezza prende il sopravvento, l’unica soluzione è il morbido materasso che ci aspetta.

TAPPA 6

(Rifugio Mitta – Rifugio Bignami)

Il plumbeo cielo sovrasta la morbida valletta, le basse nubi tagliano le vicine vette lasciando ben visibile il mantello boscoso lungo i pendii; nei prati circostanti vi sono i segni del temporale della sera precedente, immense pozze fangose, sparse a macchia di leopardo, riflettono il cupo grigiore che le domina. A poca distanza dal rifugio, in un minuto appezzamento melmoso, un gruppetto di brune alpine aspetta beatamente la mungitura mattutina; isolati muggiti spezzano il malinconico silenzio nel tentativo di attirare l’attenzione del pastore impegnato nella preparazione della mungitrice.
L’odierna tappa sarà la più breve di tutta la vacanza. Grazie all’impressionante scarpinata del giorno precedente siamo riusciti ad abbreviare il sesto tratto e, grazie ad una variante, taglieremo per la Forcella di Fellaria (2.819 m s.l.m.) anziché raggiungere il Rifugio Marinelli Bombardieri (2.913 m s.l.m.), questo ci eviterà il passaggio sulla Vedretta di Caspoggio.
Iniziamo il cammino, lungo la prima parte del tracciato incontriamo un giovane pastorello alla ricerca di qualche brunetta dispersa nella sparuta boscaglia. Superato un mediocre pendio, raggiungiamo un pianoro roccioso dominato dal Monte delle Forbici (2.910 m s.l.m.) e dal Sasso Moro (3.108 m s.l.m.). Al di sopra delle nostre teste, gli arcigni nuvoloni calano delicatamente avvolgendoci nella fitta nebbia. La visuale è molto limitata, l’unica certezza è il sentiero ai nostri piedi. Zizzagando lungo il declivio, dopo interminabili minuti nella grigiastra bruma, incrociamo la variante che taglia in costa lungo la vallecola; la via è ben segnalata e, senza preoccuparci, continuiamo il nostro cammino. Nell’avvicinarci al passo, leggere folate di vento spostano la moltitudine di nembi liberando quasi completamente l’intero paesaggio; innanzi a noi, incastrato in un ammasso roccioso, vi è la breccia verso la valle dell’Alpe Fellaria, tutt’attorno i crinali sono sofficemente imbiancati da un vellutato manto nevoso.
Giungiamo alla Forcella di Fellaria (2.819 m s.l.m.) dopo circa 3 ore di cammino. Ci da il benvenuto una spettacolare parete rocciosa abbellita da un nugolo di grossolane stalattiti di cristallo; assomiglia ad un imponente organo costituito da centinaia di canne con diverse lunghezze. Il passaggio è situato in una conca ai piedi del Sasso Nero, un avvallamento innevato dalle curve tondeggianti e continuamente sferzato da gelide folate. Senza perdere tempo e soprattutto per non surgelare, ci fiondiamo lungo la falda ghiaiosa poco sotto la forcella. La discesa non è difficoltosa e in men che non si dica la via si accosta a un rigoletto d’acqua proveniente dai nevai; seguiamo l’intero suo sviluppo intrecciandoci più volte con il letto del rivo lungo tutta la piana della verdeggiante Valle di Fellaria. Il traguardo è a poca distanza ed in meno di un ora avvistiamo il Rifugio Bignami (2.385 m s.l.m.).
Durante tutta la nostra camminata, l’immutevole cielo arcigno è rimasto ad osservare le nostre prodezze; non abbiamo avuto l’onore di ricevere né un sorriso né un segno di gioia, non si è degnato di donarci il piacere nel godere di un raggio di sole.
Più infreddoliti che stanchi, entriamo nella camera dove ci aspetta un clima artico; in tutti i rifugio ove abbiamo soggiornato in questi giorni, mai e poi mai ne abbiamo trovato uno così polare. Accertata l’inagibilità del salone dovuta alla presenza di una ruggente mandria di turisti, decidiamo di pranzare nella cameretta riorganizzata a tendopoli; pane, salame di capriolo e vari formaggi nostrani soddisfano i gorgoglianti stomaci. Rilassati e congelati, ci avventuriamo nel salone con la speranza che si sia ritirato il branco. La cioccolata calda è un ottimo modo per contrastare il freddo estivo; il pomeriggio è animato da un’interminabile serie di partite a carte condite in tutte le salse. Senza muovere un muscolo dalla panca in legno, rimaniamo per la cena gustando, assieme agli altri commensali, pizzoccheri, lonza di maiale con patate al forno e per concludere in bellezza, prima di addentrarci nella tendopoli, un colorito crème caramel vivacizza i nostri visi.

TAPPA 7

(Rifugio Bignami – Rifugio Cristina)

Oggi è Ferragosto, c’è chi al mare si abbronza in candidi lidi, chi festeggia sulla spiaggia con falò e pazze grigliate, e chi invece taglia le proprie gambe con tremende camminate lungo sentieri in valli selvagge.
Allibiti e stupefatti, rimaniamo incantati di fronte al meraviglioso spettacolo che si prospetta tutt’attorno a noi; siamo rinati in paradiso. Il cielo, completamente terso, è libero da qualsiasi nuvoletta, anche dalle più piccole; il sole, alto e fiero nella cristallina volta celeste di un azzurro intenso color topazio, riscalda la fresca aria che accarezza la pelle; le montagne svettano nel blu con le loro cime innevate ed i loro ghiacciai brillano come diamanti fra le ambrate rocce. Gongoliamo euforicamente immersi in cotanto splendore, sentiamo i corpi più leggeri, carichi di un’energia mai provata, raggianti come la strepitosa giornata.
Durante tutta la camminata non abbiamo mai avuto l’onore di apprezzare le più alte cime, ora, invece, abbiamo la fortuna di godere nell’osservare questo splendente paesaggio. L’imponente Massiccio del Bernina sovrasta il territorio, la sua maestosa imponenza è semplicemente strepitosa; attorno alla cima più alta, il Bernina (4.050 m s.l.m.), vi sono il Pizzo Bianco (3.995 m s.l.m.), il Pizzo Zupò (3.996 m s.l.m.) ed il Pizzo d’Argento (3945 m s.l.m.), poco più in là il Pizzo Palù (3.906 m s.l.m.) ed il Sasso Rosso (3.481 m s.l.m.) dominano sulle Vedrette di Fellaria che scivolano lungo i pendii levigati ai margini del Lago di Alpe Gera.
Il Rifugio Bignami (2.385 m s.l.m.), una formichina davanti alla maestosità di queste vette, è posizionato su uno sperone roccioso che affonda i suoi vertiginosi pendii nelle scure acque del lago artificiale.
Dopo numerose fotografie partiamo in direzione Passo di Canciano. Il sentiero di dirige verso la diga del Lago di Alpe Gera lungo lo scosceso declivio delle propaggini del Sasso Moro; poco più in basso, in direzione Campo Franscia, vi è il Lago di Campomoro, anch’esso artificiale. Lungo l’attraversamento della diga si ha la vista lungo tutto il ramo orientale della Valmalenco; in lontananza si possono scorgere i pendii che abbiamo solcato nei giorni precedenti. Sull’altra sponda, alla base del Monte Spondascia, prendiamo la stradina sterrata che porta all’Alpe Val Poschiavina (2.230 m s.l.m.), dalla quale si apre la valle di origine glaciale, ampia e dolce, contornata da muscolose cime e solcata da un tranquillo torrentello.
Arriviamo al Passo di Canciano (2.464 m s.l.m.) dopo due ore abbondanti di passeggiata; questa è senz’alcun ombra di dubbio la tratta più semplice fra quelle presenti nell’intero itinerario. Cogliamo l’occasione per prendere una leggera tintarella e non perdere un solo attimo del caldo sole. Dopo la breve pausa, molto soddisfatti e rilassati, riprendiamo la camminata. Sorpassato uno strappettino su una parete rocciosa, tutt’altro che difficoltoso, giungiamo in un morbido e vellutato pianoro ingioiellato da due laghetti dalle sgargianti screziature. Un’ultima ascesa ed arriviamo al Passo di Campagneda (2.601 m s.l.m.) ove ci appropinquiamo a trovare un tranquillo posticino al riparo dallo sferzante vento. E’ la prima volta che pranziamo al sole: gustiamo il pranzetto con immane godimento.
Riposati ed un pò rintronati per l’arietta, ci incamminiamo lungo la via in direzione Rifugio Cristina. La parte più difficoltosa della settima tappa è il ghiaione che ci apprestiamo a discendere; irto e scosceso scivola rapidamente verso la valletta sottostante. Il panorama è splendente, il sole illumina i minuti laghetti disseminati qua e là lungo il Piano di Campagneda ed in lontananza, accerchiato da qualche bizzarra nuvoletta strigliata dal vento, il Massiccio del Disgrazia domina la Valmalenco. I Laghi di Campagneda ci augurano il benvenuto con il loro azzurro turchese che farebbe invidia agli atolli polinesiani. Sulla sinistra, a poca distanza dalla conca, il Pizzo Scalino si erge con la sua spiccata grandiosità. Continuando lungo il percorso, raggiungiamo un laghetto dipinto con tonalità rossicce per via delle rocce ferrose tipiche di queste zone; ha l’aspetto di una piscina a sfioro sul Massiccio del Disgrazia, è una veduta mozzafiato. I pratoni, che si estendono a vista d’occhio, sono punteggiati da numerose brune alpine al pascolo che placidamente, non curanti dei viaggiatori, si crogiolano al caldo sole pomeridiano.
Passato il pianoro incorniciato da antiche morene, giungiamo al Rifugio Cristina (2.250 m s.l.m.) all’alba del meriggio. Sistemati i bagagli, trascorriamo il resto della giornata a gironzolare fra le baite dell’Alpe Prabello accerchiate da nugoli di bambini che zompettano sulla morbida erba della radura. In una baita scoviamo una giovine signorina indaffarata a vendere ai marmocchi lo yogurt artigianale di loro produzione; acquistiamo un paio di vasetti dai differenti gusti, frutti di bosco e lamponi, e, per arricchire ulteriormente l’ultima merenda alpina, prendiamo una morbida ricotta di capra che degusteremo con il cioccolato fondente; una libidine all’ennesima potenza. Distesi al sole, nella vellutata erba, ci rilassiamo con il soave fruscio di un vicino rivo d’acqua cristallina.
Ceniamo con pasta al pomodoro, fesa di tacchino con purè di patate ed infine un crostata con marmellata di mirtilli; notiamo la differenza fra gli altri rifugi, questo è decisamente più da turisti. Stanchi per il centinaio di chilometri percorsi in questa settimana, ci fiondiamo sotto le coperte sprofondando lestamente in un pesante sonno.

TAPPA 8

(Rifugio Cristina – Torre Santa Maria)

L’Alta Via della Valmalenco è iniziata col maltempo e logicamente non può che concludersi con la pioggia. Il paesaggio è appiattito dalle grigie nubi che calano silenziosamente sulla verdeggiante radura; l’ambiente, carico di umidità, giace in una spettrale quiete interrotta dalla finissima pioggerellina.
Immersi nel lugubre etere, ci incamminiamo lungo il sentiero in direzione Ciappanico. La traccia, completamente immersa nel bosco, taglia in costa i pendii del Monte Acquanera (2.806 m s.l.m.), Monte Cavaglia (2.728 m s.l.m.) e Monte Palino (2.686 m s.l.m.) fino a Piazzo Cavalli (1.777 m s.l.m.), ove è possibile scegliere se raggiungere Caspoggio (1.200 m s.l.m.) o Torre Santa Maria (770 m s.l.m.). La prima parte della via si presenta molto semplice: un armonico alternarsi di sali-scendi saltuariamente interrotto da tratti pianeggianti. Tra roccioni, spiazzi erbosi e gruppi d’abeti, raggiungiamo dapprima l’Alpe Acquanera (2.116 m s.l.m.) e poi l’Alpe Cavaglia (2.056 m s.l.m.). Il temporale non ci da tregua, è un continuo susseguirsi di acquazzoni interminabili, battenti ed incessanti; siamo fradici, inzuppati come savoiardi immersi nell’alchermes, pronti per essere sommersi da copiosa crema pasticcera ed infine gustati in un’ottima zuppa inglese.
L’ultimo tratto del sentiero si rivela abbastanza difficoltoso, un’inaspettata salita ci attende per rivelarci in seguito una discesa taglia-gambe. Camminiamo in un bosco da favola, molto umido, ricco di funghi di ogni genere, tipo e dimensione, qua e là incontriamo alcuni abeti abbattuti dai fulmini e cosparsi da verdeggianti colonie di muschi, minuscole oasi di lussureggiante erba punteggiano la via arricchendola con scorci di luce soffusa che penetra nella vellutata nebbia.
A circa tre ore dall’odierna partenza, veniamo catapultati nella luce; l’intensa luminosità accompagna una larga pista erbosa che ha mangiato il declivio boscoso del Monte Palino. La pendenza ci fa soffrire, zizzagare è l’unico escamotage per scendere senza tagliarci le gambe; ci divertiamo, se possiamo concederci il termine, in una gara di slalom speciale fino ad arrivare a Piazzo Cavalli (1.777 m s.l.m.). Sostiamo telegraficamente per ammirare le graziose seggiovie ferme in attesa dell’inverno; ripartiamo. Non vi sono segnali ed indicazioni che ci permettano di incrociare il sentiero che ci porterà a destinazione; si è dissolto nel nulla. Studiamo attentamente la cartina e decidiamo di seguire l’istinto, poco più avanti, verso il limitare del bosco, incontriamo un arzillo signore che ci descrive come trovare la via per Torre Santa Maria. Pochi minuti di incertezza e finalmente l’agognata traccia, nascosta dall’alta erba e da un gruppetto di alberi, è ai nostri piedi; d’ora in poi sarà il traliccio dell’alta tensione a fare da segnalino.
Seguendo il tracciato si attraversano alcuni borghi antichi sparpagliati nella selva. Le case, arroccate in angusti spazi, sono edificate le une addosso alle altre creando stretti vicoletti e basse gallerie fra le pareti delle abitazioni. Le dimore sono costruite con materiali reperiti nella zona: le variopinte pietre, immerse nella malta, caratterizzano le muscolose pareti, mentre il legno grezzo contorna i terrazzi ed abbellisce i tetti; sono dei gioielli d’arte montana. Un gran numero di questi edifici sono lasciati in rovina e sfacelo, il tempo degrada lentamente queste bellezze architettoniche; è un peccato perdere questi preziosi manufatti che verranno dimenticati col tempo. Gli abitanti di queste contrade, quei pochi rimasti, sono solo un paio di anziane signore coi visi solcati dal tempo; sono isolate dal mondo, l’unico contatto sono i lontani amici e parenti che portano loro viveri e generi di conforto. Ripartiamo con l’amaro in gola, quando questi luoghi saranno completamente disabitati rimarrà solo il nostro ricordo che li terrà in vita, il resto sarà lasciato in mano alla natura.
Giunti presso ultimo borgo, l’unico tenuto in ottimo stato, perdiamo la traccia; gironzoliamo in lungo e in largo, ma niente, abbiamo smarrito la via. Fortuna vuole che in una casa ci sia una famigliola in procinto di pranzare, chiediamo informazioni e ci incanaliamo negli stretti vicoli del labirinto che si articola fra le abitazioni. Incrociata la mulattiera che sega definitivamente le nostre articolazioni, giungiamo, dopo mille dolori, a Torre Santa Maria (770 m s.l.m.). Trovate le informazioni necessarie, prendiamo una serie di scorciatoie che ci permettono di tagliare tutti i tornanti che fendono il bosco fino a Ciappanico (1.034 m s.l.m.). Le ultime forze stanno per lasciare i nostri corpi, le fatiche di questi giorni si sono accumulate sulle spalle e gli zaini sono diventati molto pesanti; ancora pochi centinaia di metri e concluderemo questa meravigliosa ed estenuante vacanza.
Ore 13:30, stanchi, morti, fradici, affamati e stufi per il tempo impertinente, fatta la foto di rito pranziamo con i rimasugli delle varie cibarie e ripartiamo per l’ultimissima meta della vacanza; casa dolce casa arriviamo!


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