Sentiero delle Orobie Occidentali – Tappa 4

Il Sentiero delle Orobie Occidentali è un’alta via che si sviluppa dal paese di Cassiglio fino al Rifugio Fratelli Calvi. Sei tappe da vivere alla scoperta delle meravigliose montagne bergamasche, lungo sentieri, vallate e monti dell’alta Valle Brembana. Questo percorso escursionistico costituisce la prima parte del Sentiero delle Orobie assieme a quello Orientale, quest’ultimo valica in Valle Seriana per terminare infine al Passo della Presolana.
Al contrario del secondo tratto, che richiede il set da ferrata, il Sentiero delle Orobie Occidentali non necessita di particolare attrezzatura o preparazione, solo allenamento e attenzione per i tratti più esposti.
Per comodità personale, ho spalmato tre tappe in due e, anziché terminare il cammino a Carona, sono arrivato fino in Valcanale.

TAPPA 4

(Rifugio Dordona – Rifugio Fratelli Calvi)

Sono sveglio ancor prima che i Manà inizino la loro cantata. Ho uno splendente cerchio alla testa, talmente brillante che faccio fatica a mettere a fuoco le cose. Devo ringraziare il compagno di stanza che ha russato come due eserciti in combattimento, è stata una notte delirante. Sarà una giornata faticosa, più che per la camminata lo sarà per la pesantezza alla testa. Stropiccio gli occhi cercando di focalizzare quello che dovrò fare oggi: raggiungere il Rifugio Fratelli Calvi. Rintronato mi lavo, sistemo le mie cianfrusaglie nello zaino e preparo l’attrezzatura montano-fotografica.
Scendo in salone con gli altri e mi siedo pesantemente sulla panca cercando di mascherare al meglio la nebbia che offusca i miei occhi. Senza vedere quello che mangio, senza capirne il gusto o il profumo, finisco la colazione. Gli altri stanno banchettando con pane e Nutella o marmellata, caffè e latte o tè; forse anch’io ho mangiato qualcosa di uguale al loro, non saprei dirlo.
Salgo a lavarmi i denti, carico in spalla il fardello e scendo per saldare il conto. Saluto Jessica, gestore del Rifugio Dordona, ringraziandola per l’ospitalità, ai cugini rivolgo un arrivederci al prossimo rifugio. Loro mi avvisano che scenderanno a Foppolo, lo sventurato devo assolutamente acquistare un nuovo paio di scarponi, anche qui mi chiedono la cortesia di avvisare il prossimo rifugista del loro tardo arrivo.

Prendo a camminare in una splendida giornata di Sole ingrigita dal malumore, cerco di concentrarmi su ogni singolo passo, sembra funzionare. L’aria fresca del mattino entra a pieni polmoni in tutto il mio corpo, cerco di concentrami su ogni singolo respiro, sembra funzionare. Il grigio inizia a colorirsi, inizia ad assumere tonalità e screziature più calde e meno opalescenti, inizio a stare meglio.
Percorro agevolmente la strada sterrata che porta al Passo Dordona, qui mi guardo indietro e vedo la schiera di escursionisti mentre salgono l’ampia via. Al passo sono ben visibili i resti della Linea Cadorna che segnano indelebilmente il confine fra i territori di Bergamo e Sondrio.
Incuriosito da questo affascinante e storico scorcio militare, accendo la torcia frontale e mi infilo nell’umido cunicolo che si tuffa nella roccia. La fragranza dell’aria cambia e acquista tonalità e screziature fredde, il buio odora di acqua, di roccia, di montagna e di stagnante. A una decina di metri dall’ingresso incontro un’apertura, la quale sfocia su un terrazzo in pietra che domina la valle sottostante. E’ un ottimo punto di appostamento e osservazione per il militare o per il fotografo.

Il tunnel della Via Cadorna si apre sul terrazzo che domina la valle
L’ingresso del tunnel della Via Cadorna

Lascio il terrazzo e proseguo il buio sentiero scavato nella roccia. Le ombre proiettate dalle pietre che sporgono dal soffitto e dalle pareti, o che crescono dal pavimento, si muovono a ogni mio passo con spettrali giochi di bagliori e di tenebre. Piccoli e umidi proiettili gocciolano nel nero puro dell’immensità, precipitano dall’oscura volta verso il ventre materno della terra in un continuo e interminabile ticchettio che cadenza un tempo infinito. L’oscurità del tunnel termina con la luminosità del mondo esterno. La fragranza dell’aria cambia e acquista tonalità e screziature calde, la luce profuma di erba, di roccia, di montagna e di vento.
Sui prati che attorniano le trincee, un placido branco di vacche al pascolo si crogiola nel tiepido calore del Sole mattutino.

Vitella in trincea della Via Cadorna

Una vitella curiosa si avvicina, scende una scala in pietra ed entra nella trincea a brucare sparuti ciuffi d’erba che sono cresciuti fra le rocce basali del muro a secco. Richiamo la sua attenzione per farla uscire dalla trincea e per farle un paio di foto; una mucca in trincea non è una visione usuale. Assieme, mano nello zoccolo, raggiungiamo le altre spensierate ragazze. Saluto le donzelle con una foto ricordo e mi avvio nuovamente lungo il cammino.
Seguo per un centinaio di metri la strada polverosa e sassosa di bianco e grigio vestita, dopo un paio di curve sulla sinistra si dirama il sentiero che mi poterà al Lago delle Trote. Prendo la nuova via che cinge il Monte Toro come una sottile cintura. Alla mia destra si apre un ampio panorama sul paese di Foppolo, sullo sfondo il Monte Cavallo, il Monte Pegherolo e il Monte Secco sovrastano la valle, il Monte Arele, sulla destra, e il Monte Valsussera e il Pizzo Vescovo, sulla sinistra, chiudono a cerchio il resto del paesaggio.
Il Lago delle Trote è posizionato in un piccolo e armonioso teatro montano. La quiete che respiro al suo interno, il caldo Sole che ne bagna le acque, il profumo di erba che aleggia tutt’intorno sono un ottimo spunto per prendere una piccola pausa, cerebrale, non fisica. I pochi minuti trascorsi non sono abbastanza per tornare in piena forma, ma la meta mi aspetta e decido comunque di avanzare seppur con enorme fatica.
Costeggiando il pendio del Montebello si arriva alla desolata landa che caratterizza il paesaggio di entrambi i paesaggi che si aprono dal Passo della Croce. Qui lo scempio delle invernali piste da sci hanno deturpato irrimediabilmente il panorama naturale con i loro infiniti pratoni o grigi ghiaioni. Il cerchio alla testa si trasforma in mal di testa martellante e pulsante. Il sentiero diventa autostrada, vuota e deserta, e scende rapidamente verso il passo sottostante. Le ginocchia alzano le mani per arrendersi, cedono all’incalzante discesa monotona.
Tiro un sospiro di sollievo quando, al Passo della Croce, la caduta si arresta e tocco il fondo, piano e delicato. Mi chiedo se i gitanti francesi hanno già passato questo punto o sono ancora alle prese con lo shopping. Nel frattempo, osservo la valle cinta fra il Monte Chierico e il Monte Valgussera: le autostrade invernali solcano i pascoli dei piccoli e grandi pianori che si aprono quasi a perdita d’occhio, qua e là delle baite e rifugi, delle finissime cicatrici nere intervallate da piloni che ne sorreggono i fili, un nutrito branco di mucche dedite al pascolo e cielo azzurro senza fine.
Inspiro l’aria tiepida, col passare delle ore diventa sempre più calda e stagnante. Al di sotto del passo, il Sentiero CAI 208 si sviluppa a sinistra della strada, scende gradualmente verso la sottostante carrareccia abbacinante fino a raggiungerla dopo qualche centinaio di metri. La traccia è poco visibile e in alcuni tratti sono costretto a inventarla di sana pianta; ma non è un grosso problema tanto non rischio di perdermi. L’unica preoccupazione è rivolta alle vipere, non gradirei un incontro ravvicinato con una serpe.
Raggiunta l’ampia via, il Sentiero CAI 208 la percorre quasi interamente. Dapprima taglia il pendio erboso del Montebello, poi attraversa un paludoso alpeggio dove gli scarponi rischiano di rimanere intrappolati e rimanervi per i posteri a venire. Al passaggio successivo, risale le pendici del Monte Chierico con intervalli di erba e pietraie fino a giungere a una vomitata di pietre, pietre e ancora pietre che cola dagli impianti sovrastanti fin quasi a raggiungere il pianoro sottostante. Qui attraversa le onde, i vortici, le anse e la spuma del coriaceo fiume grigio-rossastro fino alla sponda opposta, infine rinasce a nuova vita divenendo sentiero. Questo prende la sinuosa forma di una serpe che dolcemente si insinua nell’alta erba di un’alpe.
In prossimità del Rifugio Mirtillo, la traccia sale rapidamente fino a scollinare sulla dolce cresta del Monte Chierico. Sull’altro versante, quello della Val Sambuzza, il panorama è completamente differente: due valli, due mondi, due universi radicalmente diversi e contrari, l’artificiosità dell’impronta dell’uomo sulla natura da una parte e la naturale interazione dell’uomo con la natura dall’altra.
Mi sento decisamente affaticato, il fisico regge benissimo e non è assolutamente stanco, ma la mente è appesantita da tonnellate di effimero peso che ne comprino la reattività. Guardo verso il basso, la traccia discende velocemente il crinale nell’erba alta, secca, gialla e ocra, fino a raggiungere dei radi e alti abeti in riunione su uno sperone montuoso. Radunate tutte le forze cerebrali, scivolo lungo la zizzagante discesa terrosa fino ad arrivare a un ampio pendio ammantato da una vasta pietraia dalle tonalità grigio-rossastre, ocra-grigiastre o rosso-ocracee.
Oltrepasso il torrente, in breve tempo raggiungo Baita Vecchia. Una baita isolata affacciata sull’ingresso della Val Sambuzza e baciata dal Sole estivo. Un ristretto piano d’erba dal manto smeraldino fa da zerbino alla porta principale mentre il sentiero, che risale la valle, le cinge la veste. La quiete e il silenzio, l’aria briosa e il caldo Sole, fanno crescere in me una gran voglia di sdraiarmi a sonnecchiare. La temperatura è molto piacevole in quanto le correnti d’aria che giocano nella stretta valle mantengono una temperatura mite, il contrario della landa desolata ove il caldo stagnava sui versanti erbosi e sassosi. Mi accoccolo contro il muro in pietra e uso lo zaino come cuscino, chiudo per bene la zip della giacca a vento e, come una lucertola, mi dedico all’assorbimento di tutta l’energia che il mio corpo riesce a immagazzinare. Sonnecchio con la testa a ciondoloni che sovente crolla di lato, un coccoloso tepore mi pervade anima e corpo, ma il mal di testa non demorde e tiene salde le redine del comando. Rilassato da una parte e stufo dall’altra, decido di pranzare con un panino farcito con speck e formaggio di monte.
Riassetto l’attrezzatura per rimettermi in cammino, direzione Lago del Prato. Il Sentiero CAI 208 riprende la sua strada lungo il versante orientale della Val Sambuzza, dapprima su declivi erbosi con qualche pianta che spunta lungo la via per poi entrare nel bosco di abeti che veste il fondovalle. Raggiungo Casera dei Dossi dopo una manciata di minuti, un nutrito stuolo di capre si gode la siesta all’ombra delle alte conifere e sotto la tettoia dell’edificio, mi guardano coi loro curiosi occhi orizzontali mentre mi avvicino, mi inserisco nel gruppo e mi allontano. Oltrepassata la casera il sentiero rimane in costa con qualche lieve dislivello di poco conto fino a terminare in corrispondenza di un’altra baita dalla quale parte una strada sterrata, quest’ultima, qualche centinaio di metri più avanti, si collega alla carrareccia che collega Carona al Rifugio Fratelli Longo. Raggiungo l’altra arteria montana e la percorro in senso inverso, questa mi porterà in pochi minuti all’ormai vicino Lago del Prato.
Vorrei scattare una foto al panorama della minuta conca, la luce è molto interessante. I raggi del sole penetrano nelle nubi che si sono sviluppate attorno alle cime dei monti nell’arco della giornata, giungono al laghetto realizzando sfiziose increspature di ombre e di luci sui prati e sull’acqua del Prato, si insinuano nelle svettanti chiome degli abeti limitrofi proiettando le loro ombre sull’erba circostante e irradiano l’etere con la loro calda aurea cosmica. Purtroppo la mente si inebria con artistiche fantasie fotografiche e il cervello viene assillato dagli odierni molesti rumori cerebrali.
Mi trovo a un bivio: Sentiero CAI 208, che si insinua nel bosco, o Sentiero CAI 210, che segue l’abbagliante carrareccia per raggiungere il Rifugio Fratelli Calvi. Ho paura che la noia della strada carrozzabile e la sua lucentezza vada a peggiorare il cerchietto che ho in testa, forse è meglio il sentiero immerso nella boscaglia. Mai scelta fu così sbagliata. La via si tuffa immediatamente nella giungla, giungla credo sia il termine esatto, e, a saperlo, avrei portato un machete per fare pulizia. La vegetazione è talmente fitta che l’aria è opprimente, il passo rallenta sia per gli innumerevoli rami spezzati che ostacolano la via sia per le basse piante erbacee e arbustive che sono cresciute rigogliosamente. A tal proposito, ipotizzo sia uno di quei sentieri che sono veramente poco battuti. In effetti, ripensandoci bene, la strada sterrata è la via più semplice e panoramica per arrivare al rifugio, questa al contrario non è semplice e tanto meno panoramica. Guardo il lato positivo della mia scelta, mi permette di conoscere un lato abbastanza celato della valle.
Il cammino sembra interminabilmente lungo e, passato il bivio per il Rifugio Baita Armentarga, mi trovo di punto in bianco nella civiltà, o meglio in quello che ne rimane. Presso Baita Costa della Mersa il sentiero attraversa i ruderi di non so cosa, forse un insediamento militare del secolo scorso o forse i resti di edifici usati dagli operai durante la realizzazione della diga artificiale del Lago di Fregabolgia. Non mi pongo troppi quesiti, preferisco sorvolare oltre e arrivare all’agognata meta. Il Sentiero CAI 208 si rituffa nella fitta boscaglia e riemerge, un’infinita di tempo che a me è sembrata eterna, poco sopra il Lago Rotondo. Oramai le distanze e le tempistiche che mi separano dall’arrivo sono ridotte a manciate di metri e minuti. La visione del Rifugio Fratelli Calvi scaccia quasi, e dico quasi, completamente le turbolenti nuvolaglie neurali che mi hanno seguito, e ghermito, in questa intramontabile giornata.

Lago Rotondo, sullo sfondo Pizzo del Diavolo di Tenda e Diavolino (sx) e Monte Grabiasca (al centro)

Seguo la via che circumnaviga il Lago Rotondo, sulla sua sponda una giovane famigliola si gode gli ultimi raggi di Sole che accarezzano le increspature dello specchio d’acqua. Su un erbaceo promontorio che torreggia sul laghetto vi è un’insolita costruzione in legno a forma di cornice, al suo interno vi è una nota costruzione in legno a forma di panchina, nel riquadro il mondo viene separato in due parti: una dentro e una fuori, una è il dipinto e una è il muro sul quale è appesa l’opera, una è arte e una è natura, l’una e l’altra sono la stessa cosa, ma basta un effimero gesto dell’uomo per dividere il paesaggio in due realtà tanto distinte quanto similari. Incornicio l’attimo, incornicio il paesaggio e il suo mutevole cielo, incornicio i chilometri percorsi, incornicio le emozioni provate, incornicio i ricordi per appenderli al muro del mio passato e mostrarli al futuro che verrà.

Nella cornice, uno sguardo sui monti

Mi alzo dalla panchina alterando il dipinto, esco dal quadro dando vita all’arte del fotografo, smonto la reflex dal cavalletto e infilo il tutto nello zaino. Ora è definitivamente il momento di concludere il cammino e giungere finalmente alla meta che dista pochi passi.

Al rifugio chiedo del mio alloggio, prendo la chiave della camera, salgo le scale mentre il pensiero volge alla notte insonne del giorno precedente, apro la porta con sovraimpresso lo stesso numero indicato sul portachiavi, accendo la luce e come d’incanto i miei occhi si illuminano d’immenso quando vedo un solo letto a castello. Questa notte, l’ultima notte, potrò dormire solo; è quasi un’illuminazione. Mollo tutto sul pavimento e sul letto, e mi fiondo nei bagni per farmi un’idilliaca doccia ristoratrice. La pioggia di calde gocce piove sul temporale che ingrigisce il mio spirito e ne lava via ogni stilla di tetro umido, mi riprendo quasi completamente, ma, per completare l’opera, serve una fetta di torta. Sfoglio le pagine del numero di un mese passato di un anno trascorso della rivista Orobie fra un boccone di crostata alla marmellata e un sorso di birra, fuori dal rifugio il brioso venticello gioca con le nuvole creando irreali contrasti di luci e ombre.
Mentre assaporo il meritato riposo di questa interminabile giornata, un fuoristrada parcheggia nello spiazzo antistante il rifugio, scende un signore che assomiglia a qualcuno che ho già visto, ma in un primo momento fatico a mettere a fuoco il viso, poi mi accorgo che è uno del gruppo di francesi che la mattina si sentiva affaticato. Gli chiedo aggiornamenti e vengo a sapere che, dopo la tappa a Foppolo per acquistare un paio di scarponi per il suo sventurato compagno di avventure, ha avuto problemi di resistenza e le sue forze l’hanno lasciato a piedi. Quindi, l’unico modo per non interrompere l’esperienza orobica era di prendere il fuoristrada-navetta per il Rifugio Fratelli Calvi.
In attesa dell’arrivo dell’ora di cena, conosco altri escursionisti che nell’odierna giornata hanno scorrazzato per valli, passi e pendii della zona e, con me, si godono gli ultimi trefoli di luce che si insinuano nella sempre più folta coltre di nubi. Nel gruppetto si susseguono i nostri racconti di viaggio, di scoperte in terre sconosciute, di piccoli mondi che racchiudono tesori nascosti, di momenti fotografici unici che hanno impreziosito i nostri ricordi e di qualche risata in compagnia.

Il pensatore, uno sguardo sul mondo dal Rifugio Fratelli Calvi

Verso lo scadere delle ultime luci celesti appaiono dal nulla i miei compagni di viaggio, i volti sono stanchi, ma gli occhi brillano di felicità nel vedere conclusa un’altra impegnativa giornata di cammino. Ci salutiamo e ci aggiorniamo velocemente sui risultati odierni, prima che tutti spariscano a rinfrescare anima e corpo sotto la doccia.
La cena è pronta, finalmente si mangia. Nella sala da pranzo si chiacchiera di montagna e di viaggi mentre le portate vengono servite sotto i nostri occhi e celermente divorate dalle nostre instancabili fauci. Pasta alla boscaiola, scaloppine con verdure e una fetta di torta chiudono il sipario dell’estenuante esperienza di questo dì; e aprono le porte ai nostri giacigli. Un saluto a tutti per l’indomani con un arrivederci con le gambe sotto il tavolo per la colazione.
Mi corico sul morbido letto, stanco. Manco il tempo di contare la seconda pecorella e piombo nell’oscurità teatrale dei sogni.


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