Il Sentiero delle Orobie Occidentali è un’alta via che si sviluppa dal paese di Cassiglio fino al Rifugio Fratelli Calvi. Sei tappe da vivere alla scoperta delle meravigliose montagne bergamasche, lungo sentieri, vallate e monti dell’alta Valle Brembana. Questo percorso escursionistico costituisce la prima parte del Sentiero delle Orobie assieme a quello Orientale, quest’ultimo valica in Valle Seriana per terminare infine al Passo della Presolana.
Al contrario del secondo tratto, che richiede il set da ferrata, il Sentiero delle Orobie Occidentali non necessita di particolare attrezzatura o preparazione, solo allenamento e attenzione per i tratti più esposti.
Per comodità personale, ho spalmato tre tappe in due e, anziché terminare il cammino a Carona, sono arrivato fino in Valcanale.
TAPPA 3
(Rifugio San Marco 2000 – Rifugio Dordona)
Apro gli occhi alle prime malinconiche melodie dei Manà, mi raggomitolo nelle coperte e osservo la luminosa atmosfera che traspare dalle tende; troppa luce all’esterno, presagio di una terribile e nefasta giornata stupendamente sfavillante. Tiro i tendaggi e dalla finestra si apre un’emozionante orizzonte di monti splendenti a perdita d’occhio, cieli senza fine, nubi inesistenti fino al limitare terrestre e oltre. Apro le alte e dal davanzale riempio i polmoni con la briosa aria delle montagne bagnate dall’alba, dalle narici e dalla bocca scivola in gola, nei polmoni e in ogni singolo alveolo; sento l’energia irradiarsi dal mio cuore verso ogni estremo lembo di terra del mio corpo.
Preparo il sottoscritto, l’attrezzatura montano-fotografica e vado in sala da pranzo dove metà dei futuri compagni di viaggio è in attesa della colazione. Nel frattempo, un paio di ragazze finiscono di allestire il buffet con pane, fette biscottate, alcune torte, burro e marmellata, e dalla macchinetta automatica mungeremo caffè, tè, cioccolata o cappuccino. La caposala da il via alle danze, in religioso silenzio scegliamo quali fonti di energia daranno vita alle centinaia, se non migliaia, di passi che solcheranno le vie dei monti di questa gloriosa giornata. Mangio una fetta di torta in più per sopperire alla mancanza della sera precedente. Questa mattina non posso proprio evitarlo, meglio un’altra ancora, non si sa mai che finiscano le energie.
Usciamo dal Rifugio San Marco 2000 praticamente tutti in contemporanea. Nel parcheggio mi prendo carico dell’onere di avvisare la rifugista del Rifugio Dordona, termine dell’odierna tappa, che i miei nuovi compagni di avventure arriveranno nel tardo pomeriggio, causa attesa per l’esito della veloce restaurazione degli scarponi.
I “buona giornata” e i “buon cammino” saltellano di bocca in bocca, con l’arrivederci mi allontano in direzione del Rifugio Cà San Marco.
Seguendo la strada asfaltata si raggiunge la vecchia cantoniera del Passo San Marco, alla sua destra riparte la mulattiera dell’antica Via Priula che risale fino al sovrastante passo. Manco il tempo di fare due passi in salita e mi accorgo d’avere qualcosa di insolito nella tasca destra, infilo la mano e pesco la chiave della stanza. Mi mando a quel paese da solo, marcia indietro e di filata torno sui miei passi. Sbuco sul piazzale fronte rifugio, tutti gli sguardi su di me, mi sorridono e mi chiedono se ho già finito il lungo cammino, rispondo che è stato molto bello e interessante, ma ho avuto un pò di peso in più sulle gambe. Ora è il momento buono per sfoderare la chiave incriminata, è altresì il momento buono per una risata generale. Consegno la chiave a chi di dovere e mi sento dire che la numero 1 è quella che tutti si dimenticano di ridare; la prossima volta meglio un altro numero, oppure ancora meglio la camerata senza chiave.
I “buona giornata” e i “buon cammino” saltellano di bocca in bocca e con il secondo arrivederci mi allontano verso il Rifugio Cà San Marco. Raggiungo nuovamente la vecchia cantoniera del Passo San Marco seguendo la strada asfaltata, alla sua destra riparte la mulattiera dell’antica Via Priula che risale fino al sovrastante passo. Manco il tempo di fare due passi in salita e non mi accorgo che nella tasca destra non c’è qualcosa di solito. Infilo un passo dietro l’altro e in un batter d’occhio arrivo al Passo San Marco.

Oggi l’aria non è umida come in precedenza, bensì fresca e delicata, splendente come una principessa. Mi soffermo a scattare un paio di foto e, senza indugiare troppo, riprendo svelto il cammino. Oltre il Passo San Marco percorro un centinaio di metri sulla strada asfaltata che scende in Val d’Orta, successivamente, nei pressi di un pannello in legno con le indicazioni del Sentiero delle Orobie Occidentali, prendo il sentiero che sale sulla destra lungo la costa del Pizzo delle Segade. La traccia, ben visibile e visibilmente segnalata, continua gradualmente la sua ascesa fino alla cresta fra il Pizzo delle Segade e la Bocchetta d’Orta. Dopo pochi minuti di cammino sul filo del rasoio raggiungo la Bocchetta d’Orta, qui la via scavalla a destra e discende ferocemente in un ripido canalino. Lo stretto sentiero, a tratti cedevole e cedevolmente ripido, rallenta gradualmente il suo corso dando il via alla traccia pianeggiante che prosegue ininterrotta fino ai pascoli della Baita Colomber. Cammino sulla cintura del Monte Fioraro, in costa con saliscendi continui, mai decisi e decisamente delicati. Dalla sua cinta posso ammirare l’interminabile paesaggio che spazio a perdita d’occhio sulla Valle Brembana fino al limite estremo dove il Resegone domina il confine ultimo.

Oltrepasso Baita Colomber in vista del Passo della Porta. Il cielo è quasi completamente sereno, l’azzurro turchese è screziato da qualche nuvoletta lungamente stiracchiata dal vento d’alta quota. Colgo l’occasione per realizzare la mia terza opera precaria, questa volta sfrutto un grosso masso per avere fondamenta solide. L’omino cresce a ogni scatto della reflex fino a toccare il cielo con il sesto dito, il più alto. In vetta al roccione, l’equilibrista sembra infinitamente piccolo e insignificante, ma con la corretta composizione riesco comunque a farlo stagliare sopra tutto e tutti. Solo una frastagliata nuvoletta lattiginosa svetta oltre, mentre lentamente scopare dall’obiettivo lasciando spazio a un mare cristallino. Penso alla sera quando chiederò ai cugini d’oltralpe se avranno incontrato uno statuario ometto che si crogiola al Sole estivo.

Dal Passo della Porta la traccia discende in breve verso Baita Arale, continua sul piccolo pianoro e ridiscende verso l’anfiteatro erboso dov’è situato un bellissimo alpeggio coi tipici Barech, il Bivacco Zamboni e il nuovo Rifugio Marco Balicco. Raggiungo il bivacco posto al centro del teatro alpino, il Barech è a un centinaio di metri in basso, poco oltre, sulla destra, il nuovo rifugio in legno si tuffa sulla verdeggiante valle sottostante. Rabbocco la borraccia nell’imponente fontana posta a ridosso dell’ingresso del Bivacco Zamboni, mentre osservo l’allevatore che sistema la recinzione delle sue manze orobiche.

L’alta via riprende il suo corso salendo a lato di un antica morena fino ad arrivare a un intaglio nella cresta meridionale del Monte Azzaredo. Nella valle opposta il sentiero scende franosamente verso il ruscello che, sinuosamente, scivola negli acquitrini dell’alpe posta a pochi passi dalla Baita di Piedevalle. Perdo i segnalini bicolor che si sono volatilizzati, guardo la cartina e decido, senza mezzi termini, di tagliare il dosso sul quale ritrovo la traccia, la stessa traccia che lambisce Baita Piedevalle. Dalla casetta il sentiero è dolce e delicato, sale sulla costa del versante meridionale del Pizzo Rotondo fino allo strappo ultimo che porta alla Forcella Rossa: un taglio nella roccia rossa, brunastra con riflessi aranciati che caratterizza l’omonimo passo. Prendo una pausa per immortalare il paesaggio quasi immacolato che si apre a Occidente, al contrario il paesaggio orientale è solcato da innumerevoli autostrade verdi che d’Inverno diventano il regno dello sciatore.

Sotto di me si intravede la riga chiara che taglia i pascoli e raggiunge la strada sterrata che da San Simone corre in piano verso Baite Fontanini. Serpeggio nei pascoli fra vacche placidamente distese al Sole e altre intende a pascolare, e il mandriano a poca distanza col fido compagno sdraiato ai suoi piedi. Appena metto piede sulla strada abbacinante decido di accelerare il passo per guadagnare tempo, qui il paesaggio non merita rallentamenti o soste fotografiche.
Al contrario, una breve sosta presso Baite Fontanini è necessaria per osservare il lavoro di un casaro molto poco nostrano. Dalla cadenza capisco che proviene dalla vicinissima Romania, provo a capire e, a gesti, ci intendiamo subito. Saluto lui e il suo saporito lavoro in forma, riprendo il cammino con l’acquolina in bocca.
La strada di montagna si riduce a una larga mulattiera, questa segue in costa il pendio della Cima di Lemma dapprima in un bosco di abeti, larici e betulle, successivamente si apre lasciando ampio spazio al vallone erboso che porta al Passo di Tartano.
Dopo aver superato un piccolo gruppetto di baite, mi ritrovo ai piedi del Passo di Tartano. Affronto la salita sull’erboso versante meridionale per arrivare alla meta intermedia giustappunto per il pranzo. Sotto la notevole croce del passo osservo i due scenari che si aprono ai miei piedi: Val Tartano e i Laghi di Porcile a Nord, Monte Arete, Monte Cavallo e Monte Pegherolo a Sud.

Seguo l’indicazione per le trincee della Linea Cadorna per cercare un rifugio dallo sferzante vento che soffia nella sella, ne trovo uno riparato dal parapetto in pietra. Mollo tutte le attrezzature e mi crogiolo al Sole per consumare il pranzo. In questa location godo un’ora di completo relax in compagnia di un panorama sublimemente rilassante; ho tantissimo tempo a disposizione per la siesta, ma proprio tanto.
Rilassato e riposato, ricompongo lo zaino e il fardello fotografico, riattivo le gambe e riprendo il cammino verso la prossima destinazione: Bocchetta dei Lupi. Baciato dal Sole seguo la linea delle trincee per tutta la lunghezza della sella.

Lascio alle spalle il Passo di Tartano, scendo alcuni metri di impervio sentiero di finissimo terriccio poco stabile e di alcuni massi incastonati sulla via franosa come ossuti bitorzoli. La traccia, al cospetto del Passo di Porcile, continua sulla costa settentrionale del Monte Valegino.
Quasi in vista del Lago di Porcile Alto prendo il sentiero che porta verso il Lago di Porcile Grande, seppur cartina e indicazioni indicano di proseguire oltre. Nessun problema, tutte le strade portano alla Bocchetta dei Lupi. Giunto al Lago di Porcile Grande, il sentiero punta direttamente verso la stretta insenatura passando per la Valle dei Lupi. Mi guardo in giro, nessun lupacchiotto in vista, peccato.
La traccia non è per niente ben segnalata, i tracciolini rosso-bianco-rosso sono decisamente sbiaditi, ed è altrettanto poco solcata nel terreno. Intuisco non essere una via praticata dai più.
Giungo all’altezza dell’intersezione con il Sentiero CAI 201A, quello proveniente dal Lago di Porcile Alto, quello che dovevo prendere in precedenza. I segnalini ricompaiono allegri e numerosi, mi guardo alle spalle e non noto alcuna indicazione bicolor fra quelle smunte, chissà.
Da questo punto in poi, almeno fino alla bocca del lupo, il sentiero sale allegramente in quota serpeggiando altrettanto pigramente. Inizio ad accusare la fatica dei chilometri percorsi oggi, direi normale.
Giunto alla Bocchetta dei Lupi tiro un sospiro di sollievo, anzi metà sospiro non appena vedo la discesa che dovrò affrontare, interminabile.

In bilico sulla ghiaia fine della forcella, scatto qualche foto al trio lacustre posto alle mie spalle. Godo il momento perché la fatica maggiore è stata superata, ora devo pensare solamente alla discesa verso la fine, in particolare al primo tratto di sentiero che cade rapidamente su scivoloso ghiaietto grigio pantegana. Tranne il primo tratto, il resto è più tranquillo e le gambe non soffrono la stanchezza. Lambisco un piccolo laghetto isolato posto su un ridotto pianoro che sovrasta la parte terminale della Val Madre, poi passo accanto a una baita solitaria e, più avanti, attraverso un ampio declivio gradevole dove un cospicuo numero di vacche viene radunato da due mandriani. All’incrocio semaforico con la strada sterrata proveniente dal Passo Dordona prendo l’onda verde e, senza pensarci un attivo, arrivo in volata al vicino Rifugio Dordona.
Alla meta mi guardo attorno per osservare il rifugio, la sua posizione nella valle e l’oramai lontana Bocchetta dei lupi. Mentre assaporo la fine della camminata il pensiero volge agli amici francesi che sono ancora in cammino, chissà se gli scarponi dello sventurato escursionista d’oltralpe reggeranno la lunga tappa. Nella piccola, e non tanto ampia, Val Madre i raggi del Sole illuminano i pendii del versante orientale, mentre, sul lato opposto, il rifugio e le baite dell’alpeggio sono immersi nell’ombra proiettata dai soprastanti monti; la stessa ombra frastagliata si inerpica lentamente verso le cime baciate dalle ultime luci del giorno.
L’aria è tiepida e fresco è il venticello, inebriato dalla soddisfazione e dai profumi che aleggiano nell’etere mi godo un infinito attimo di pace dei sensi. Appoggio a terra il fardello e le racchette al muro in pietra, mi sento immediatamente sgravato da un peso che mi ha accompagnato per ore e per chilometri, per passi e per valli, e che, per tutto il tempo passato e per la distanza percorsa, ha ascoltato le mie solitarie parole e pensieri immersi nella fatica del cammino.
Varco la porta d’ingresso e la seconda a seguire, ed entro nella piccola e accogliente sala da pranzo nella quale incrocio gli sguardi della rifugista, Jessica, e di due suoi amici.
Preceduto da Jessica, lascio il fardello nella camerata nella quale dormirò. Ora, calda doccia ristoratrice, passo successivo verso la rivitalizzazione dei sensi, quello a seguire si chiama fetta di torta alle noci e miele.
Al di fuori del caldo e accogliente ambiente del Rifugio Dordona, la luce cala e il cielo limpido risplende di un’opalescenza azzurrina che rischiara le ombre della valle. Usciamo a chiacchierare, l’aria è fresca e frizzante, profumata di montagna e di tramonto. Sentiamo delle voci provenire da poco distante e, nel giro di qualche secondo, compare la prima falange degli amici escursionisti seguita da altri che, alla spicciolata, ricompongono il gruppo. Infine, giungono a noi gli scarponi fasciati con nastro adesivo, con loro un amico con le forze sotto le suole, o quello che ne rimane.
Il cammino, coi suoi interminabili giorni, le lunghissime tratte e gli innumerevoli dislivelli, inizia a pesare sulle spalle di alcuni membri del gruppo; anche se i sorrisi non si sprecano sulle labbra di tutti. Appoggiano a terra i fardelli e le racchette al muro in pietra, si sentono tutti immediatamente sgravati da un peso che li ha accompagnati per ore e per chilometri, per passi e per valli, e che, per tutto il tempo passato e per la distanza percorsa, ha ascoltato le loro parole di gruppo e pensieri immersi nella fatica del cammino. Preceduti da Jessica, gli escursionisti si dirigono nel ventre del rifugio alla ricerca di conforto nelle camerate e sotto la calda doccia.
Al termine della giornata, la luce cede il posto al buio, l’arrivo della sera accompagna i profumi culinari che si diffondono dalla cucina al salone, i commensali sono tutti con le gambe sotto il tavolo, gli stomaci brontolanti e l’acquolina in bocca. Jessica, aiutata da un suo amico, serve la cena a base di gnocchetti di polenta con fonduta di formaggio, stufato di carne con verdure miste e, a concludere, torta di cacao e peperoncino. Una buona e calda cena ristoratrice che ritempra le energie e le forze, sia quelle perse nella giornata odierna che quelle nuovamente da perdere in quella successiva.
Ultime parole davanti alla stufa, ultimi pensieri alla lunga scarpinata, ultime energie prima di sdraiare i nostri pensieri su un morbido cuscino. Col contagocce saliamo a prepararci per la notte, uno alla volta ci corichiamo sui nostri giacigli per dare una boccata d’ossigeno a muscoli e membra.
Il silenzio raccolto sui magnifici pendii alpini dei giorni precedenti è una raro ricordo che viene sbriciolato dall’impertinente russare di un compagno di stanza. Senza pace ripenso a un consiglio di un caro amico: preparare dei tappi di fortuna per le orecchie trasformando dei pezzi di fazzoletti di carta inumiditi di saliva, potrebbero essere una buona alternativa a quelli classici. Il rimedio funzionerebbe se il russare non fosse pari al barrito di cento elefanti lanciati alla carica per scacciare un predatore, il sonno riprenderebbe il suo corso se il continuo bagliore dei migliaia di fulmini non rombasse all’infinito. Dopo ore a rigirarmi nel letto riprendo a dormire fra sogni disturbati, rotti e irrequieti.