L’Alta Via del Granito è un percorso ad anello di tre giorni che si sviluppa nelle valli e lungo i pendii montuosi del Massiccio di Cima d’Asta.
Il percorso segue antichi sentieri ed ex strade militari risalenti alla Grande Guerra che portano alla scoperta di stupendi paesaggi naturali e testimonianze della Prima Guerra Mondiale.
E’ percorribile sia in senso orario che antiorario, con possibili varianti per impreziosire la scoperta di queste montagne granitiche. Le nostre scelte: senso orario per comodità, ascesa a Cima D’asta per sfizio, rientro alternativo per scoprire nuovi paesaggi.
TAPPA 2
(Rifugio Caldenave – Rifugio Ottone Brantari a Cima d’Asta)
Il Rifugio Caldenave giace nel silenzio quasi assoluto, alcuni crepitii del legno accompagnano passi felpati. Rifugisti diretti alla cambusa o qualcuno coi pensieri alla toilette. Allungo l’orecchio cercando di capire, ascolto il silenzio e gli impercettibili rumori al piano inferiore.
Stufo dell’attesa, mi alzo, raccatto qualcosa di caldo e scendo al pianterreno. Silenzio. Esco, l’alba illumina i monti dell’opposta valle, le loro cime brillano nel cielo azzurro, terso, limpido e cristallino. L’aria è frizzante, fresca, ma non fredda, leggermente umida sul finale. Riempio ogni alveolo dei polmoni con l’energia del mattino, mi sento rinascere a nuova vita. Manca poco meno di un’ora alla colazione, devo attendere, solo, dormono ancora tutti. Aspetto nel silenzio del vento che scivola fra i rami del bosco.
Spostatomi all’interno, in sala da pranzo, ripeto l’attesa precedente, questa volta a una temperatura meno pizzicante. In cucina movimenti rapidi si avvicendano in meticolose operazioni, le immagino, ma non posso vederle, scorgo solamente ombre che danzano nella feritoia tra la porta e lo stipite. La luce che filtra dalla stretta apertura si allunga nella sala, incontra un tappeto, un cane addormentato a ciambella.
Nel frattempo, al piano superiore, si svegliano i vari dormiglioni che man mano compaiono nello scendere le scale. Giada fra loro, mi sorride e scrolla la testa nel sapermi alzato di buon ora. Usciamo nell’attesa dell’ultima manciata di minuti che ci separa dall’agognata colazione.
I cavalli brucano l’erba lungo i pendii erbosi che si estendono dal rifugio, verso valle. Il ruscello serpeggia e gorgheggia indisturbato. Due tende, verde una rossa l’altra, sono due foruncoli nel prato imperlato di rugiada. Chissà se i cavalli andranno a curiosare fra le tende, non oso immaginare la sorpresa dei campeggiatori in un’eventuale incursione equina. Come non detto, un puledro punta l’obiettivo, altri due lo seguono a breve distanza, una cavalla nelle retrovie. Al loro arrivo, da una tenda sbuca la testa scarmigliata di un ragazzo, dall’altra una ragazza, sentiamo gridolini divertiti per la presenza dell’avanguardia equina.
Il via libera del rifugista apre le danze allo stomaco brontolante, borbotta da almeno mezz’ora, forse più. Colazione a base di caffè, pane con marmellata e pseudo-Nutella, discreta. Voto 7.
La seconda giornata di trekking nasce varcando la soglia del rifugio, chiudiamo una porta per aprire quella dell’avventura.
Seguiamo le indicazioni che puntano al torrente, qualche metro più in basso rispetto al Rifugio Caldenave, lo attraversiamo e riprendiamo velocemente quota inoltrandoci nella fitta pecceta. Il sentiero sale deciso fin dal primo momento, zigzaga e tira guadagnando quota ad ogni passo. Il fitto bosco, principalmente abeti, è ricco di vegetazione: muschi, mirtilli, tronchi cariati e ceppaie azzoppate. Il passaggio successivo diviene pianeggiante, leggermente discendente fino a giungere al pianoro lacustre della Valle dell’Inferno. Qui i Laghi della Val dell’Inferno risplendono nella lucentezza dei raggi solari che giocano con le trasparenti acque. Alcuni tritoni, neri e ocracei, si muovono languidamente sul fondale sassoso alla ricerca di qualche leccornia. Mi perdo ad ammirarli per infiniti minuti, perdo i miei pensieri fra i loro movimenti e il tiepido Sole a scaldarmi la schiena.

Attraversata la piana d’acqua, massi ed erba, riprendiamo quota lungo il versante opposto della valle. Il rado bosco di abeti e mughi accompagna lo sguardo verso l’imminente Baito Lastèi. Il bivacco, in pietra e legno, è piccolo, grazioso, diversamente confortevole, ma piacevolmente incastonato in una cornice montana di aghifoglie da una parte, la conca dei laghi sulla sinistra e un intero mondo per perdersi nell’intorno.

L’ascesa continua, il cammino ci porta a guadagnare altro dislivello fino al dosso sommitale ove, seguendo una brevissima digressione, si può ammirare dall’alto il Lago di Nàssare. Questo, incastonato della Busa del Lago, è un grazioso specchio d’acqua accerchiato da abeti e larici da una parte, dall’altra ghiaioni fino alla vetta sommitale di Cima Nàssare. Il riflesso di una persona prende forma sulle acque verdine, i colori del lago e delle piante si fondono in sfumature di verde su verde con qualche screziatura di blu e azzurro.

La nostra traccia è in attesa al bivio, torniamo sui passi del Sentiero CAI 360. Il traverso obliquo esce dal bosco e intaglia la costa baciata dal caldo Sole. Raggiunto un punto panoramico sulle vallecole ne discende il pendio seguente fino ad acclimatarsi nella conca erbosa. Baito Scagni, il secondo bivacco del percorso, gode della tiepida quiete di questo brillante mattino, terso il cielo e statico l’aere.

Breve pausa per un frugale spuntino a base di cioccolato fondente e frutta secca. Lo stomaco ha divorato la colazione e ora chiede nuove energie; tanto per cambiare.
La marcia continua lungo la successiva salita, erbosa e massosa, tranquilla e piacevole. La valle opposta, denominata Buse Todesche, è un ampio anfiteatro roccioso costellato da innumerevoli massi, laghetti e pozze che, degradando a gradoni, zompa nel fondovalle dove il bosco lo ammanta. I Lagorai osservano statuari dal versante opposto della valle, bastionate rocciose agli antipodi, grigi gli oppositori e rossastri quelli a noi vicini.
Forcella delle Buse Todesche è la prossima tappa intermedia. Il sentiero sale in costa fino a incunearsi nella stretta vallecola, poi il ghiaione e infine l’arrivo. Lungo il percorso scorgiamo i residui della Grande Guerra, pezzi di metallo arrugginito, filo spinato sgrovigliato o ammassato come inospitali nidi d’uccello, pali di legno erosi dalle intemperie, una mulattiera che punta verso l’alta conca, un bunker in lontananza.
Forcella delle Buse Todesche, quota 2.413 m, è il confine fra due valli ora, un avamposto militare d’importanza strategica un tempo. Un bunker oscuro osserva silenzioso la valle sottostante appena percorsa, dal lato opposto resti di edifici e mulattiere, resti di un tormentato passato che fatica a ricordare le sue vecchie sembianze.
Riprendiamo il nostro cammino dopo una lunga pausa fine a gironzolare fra i ruderi alla ricerca di prede fotografiche inesistenti. La mulattiera perde lentamente quota seguendo il versante meridionale della cima Tombola Nera; un nome, un quesito, una risposta mancata. Torniamo ad ammirare le montagne intraviste il giorno precedente, ma con nuovi panorami, valli sconosciute, sentieri da navigare, boschi da scoprire. Il Sentiero CAI 373 e il CAI 360 si incontrano in curva, la mulattiera li ingloba portandoli con sé verso Settentrione; resta un solo nome dei tre: Sentiero CAI 373.
Cima d’Asta troneggia sulla Val Malene, sulle vette minori come Monte Cengello, Cima Lasteati, Cima Tellina, Punta Socede, Col Verde, Cima Bianca, Col della Banca, Cima del Passetto, Sasso Largo e Campagnassa sul finire, da sinistra a destra nel paesaggio granitico.

La via segue dolcemente il versante tagliandolo quasi orizzontalmente, alcune salite, altre discese, tratti piani fra roccia e sfasciumi, terrazze sulla valle, residui di edifici, bunker o quant’altro di stampo militare, prati scoscesi e frane antiche, boschi sul fondale e un lontano fruscio del torrente a risalire.
A ridosso di Cima Lasteati, nel punto in cui il sentiero lambisce una trincea rivolta alla vallata opposta, ci concediamo una meritata pausa, con pranzo annesso (panino con crema di nocciole e cacao). Non siamo particolarmente stanchi, ma iniziamo a percepire i primi sintomi del lungo cammino. L’arrivo è distante e ancora ci attende la parte più difficoltosa della seconda tappa: da Forcella Magna al Rifugio Ottone Brentari a Cima d’Asta.

Una ventina di minuti immersi nel tepore del caldo abbraccio del Sole sono sufficienti a dilavare le fatiche, fardello in spalla e riprendiamo la marcia. La via continua imperterrita a seguire la costa dello scosceso versante roccioso che, in alcuni punti, crolla a picco sotto i nostri piedi. Passiamo dapprima al cospetto del Ricovero del Tenente Cecchin, incastonato nella roccia e decisamente irraggiungibile, per poi incontrare il Ricovero Baita Coro Sasso Rotto.

Un coro costituito da una decina di persone intona armonie che si perdono nel vento che corre fra le vette. Prima di raggiungerli ci intrufoliamo nelle viscere della terra seguendo una galleria scavata nella dura e nuda roccia. Torcia alla mano, passo dopo passo, con la testa bassa per non picchiarla sulla roccia, seguiamo il budello alla ricerca della scoperta. Un varco di luce ci proietta in un altro paesaggio, un’altra valle. Altre trincee, profonde, distinte, severe. Proseguiamo l’avventura seguendone l’ondulata linearità per sbucare decine di metri oltre il punto d’ingresso, oltre il Ricovero Baita Coro Sasso Rotto.
Scendiamo verso Forcella Magna con le orecchie immerse nei canti del coro che aleggiano nell’etere montano. Non sappiamo se vi è una ricorrenza o altro, poco importa il motivo, la bellezza di queste cantate diviene un tutt’uno con la montagna stessa.
Altre trincee, cavità, tunnel e mulattiere. L’irrazionalità della roccia si scontra con le geometrie militari, curve sfuggevoli e linee imbrigliate dalla mente, antipodi che divengono una sola entità nel luogo di congiunzione, sembrano essere nati assieme nell’alba dei tempi.
Laghetto di Forcella Magna è uno specchio d’acqua in cui le lontane vette del Gruppo di Cima d’Asta riflettono la loro altezzosità fra le sfumature delle nubi, nelle onde di leggere increspature modellate dal vento e contrastate dalla luce.
A quota 2.117 m Forcella Magna è il portale fra due valli, Val Sorgazza e Val Cia, un’incuneatura della cresta rocciosa che da Cima Trento corre sgraziata fino a Cima d’Asta, una finestra soffiata dal vento, un passaggio obbligato nel crocevia di numerosi sentieri che la raggiungono e da essa scappano, un punto sulla mappa che da un semplice nome prende forma un’immagine di forme e colori.
La vita è disseminata di bivi, questo è uno fra i tanti. Abbiamo a disposizione tre strade, una sola quella da scegliere. Ferrata Gabrielli, Sentiero CAI 326 e CAI 327, o il Sentiero CAI 380, le quattro meno una opzioni. La prima, via attrezzata che necessita di imbrago, set da ferrata e caschetto. La seconda, sentiero in discesa per qualche decina di metri, in piano poi, infine in salita. La terza, discendente in costa, risalente fino a un passo, discendente sul finire. Ora, ragionamenti alla mano, escludiamo la n°2 (facile), a seguire la n°1 (sappiamo non essere difficile, ma rischiare senza protezioni ha senso?) e quindi, a esclusione, l’ultima carta a nostra disposizione è la n°3.
La cartina in nostro possesso non mostra difficoltà di sorta. Parte come una linea rossa flessuosa che segue in costa il monte dipinto di grigio, al raggiungimento di un ruscello sale il pendio fra isoipse abbastanza ampie fino al Passo Socede, infine termina con una breve discesa al Rifugio Cima d’Asta costeggiando il Lago di Cima d’Asta.
La cartina ha semplificato eccessivamente la realtà. Tranquilla discesa nel ghiaione mentre siamo accarezzati dal Sole sferzante, un minuto pianoro, poi verso Nord sempre in lenta calata, fino a un ruscelletto. Qui una rampa decisa, a tratti franosa e fangosa, macina metri di quota a ogni passo, riconquista quei centomila millimetri persi in una discesa fine all’attuale scalata. A seguire un traversino, breve e tranquillo, che giunge un panoramico dosso erboso sormontato da un masso spaccato esattamente in due, nella sua solitaria presenza troneggia sulle vallate sottostanti. Una curva verso monte ruba i nostri pensieri portandoci alla vista successiva, una salita senza fine verso le creste rocciose, centinaia di metri e oltre di dislivello puntando a un passo inesistente, una linea solcata nell’erba agli albori e dispersa fra le placconate rocciose scarificate da antichi ghiacciai nel divenire, e finire. Passo al passo coi nostri tempi, in breve si intravede il Passo Socede nell’incunearsi delle reseghe rocciose, fra massi e sfasci, nella roccia in contrasto col cielo. Oltre, un nuovo panorama, discesa, il lago e il rifugio.
Sarà per la stanchezza della lunga tappa, sarà per il peso del fardello, sarà per i pensieri volti al peso del lavoro, sarà quel che sarà, ma questo tratto del percorso l’ho, l’abbiamo, sofferto oltre la semplicità di disegno della mappa. Immaginavamo le difficoltà nel percorrere la rampa finale, ma non concretamente come all’atto dei fatti.
Stavo tralasciando un particolare incontrato fra il dosso erboso e l’anfiteatro roccioso del passo, lungo le placconate del Vallone Occidentale di Cima d’Asta, fra erba e roccia, fra un belato e un abbaio, ovvero un nutrito gregge di pecore e capre bellamente al pascolo, nere, marroni, bianche, mélange, e cani tutt’attorno per tenerle aggregate, in una forma sgrammaticata di parole disseminate ovunque alla ricerca del filo d’erba migliore. Del pastore nessuna traccia. Gli ovini si muovono al nostro passaggio come un banco di pesci al passaggio di uno squalo, mutano posizione e forma della macchia lanuginosa in base ai nostri passi, per chiudere alle nostre spalle l’apertura creatasi poco prima. Ne usciamo sotto lo sguardo sorridente di un pastore, eccolo, saluti reciproci, lui scende preceduto dal cane anziano, noi saliamo inseguiti dal vociare della mandria. Particolarità, mai scoperta fra le Alpi, almeno fino a questo momento, di un pastore palesemente di origini africane. Un incontro inusuale, ma che rispecchia l’evoluzione dei tempi in cui gli italiani preferiscono la vita comoda di città a quella difficoltosa dell’alta quota dove privazioni, assenze e i totalitarismi della montagna dettano le fatiche quotidiane. Simbolicamente lo ringraziamo per la sua forza con un lontano saluto che si perde nel vento. Se non fosse per lui, probabilmente, in questo momento non avremmo ammirato questa cartolina, forse l’immagine della transumanza sarebbe un ricordo, o i pascoli non esisterebbero più, i ruderi degli alpeggi non avrebbero più memoria e la natura tornerebbe alla sua vita selvaggia. Grazie!
La nostra meta ha un tetto, la sua non sappiamo dove sia. Noi abbiamo il rifugio, lui avrà forse un’alpe che lo aspetta da qualche parte, o forse un rifugio. Da Forcella Magna al punto in cui siamo, non abbiamo intravisto niente che possa ricondurre l’immaginazione a un riparo, chissà dove dormirà. Nel frattempo le nubi arcigne hanno raggiunto l’apice della cupezza e i tuoni oscuri del temporale rombano nelle profondità gutturali dei canaloni rocciosi di Cima d’Asta. I nostri pensieri corrono in due direzioni, la nostra per non bagnarci e la sua per il destino che lo attende. Incoscienza o esperienza, non sappiamo quale sia, sicuramente la seconda, ci è sembrato tranquillo e sereno mentre conduceva a valle il gregge fra il rumoreggiare basso dei tuoni.

Rifugio Ottone Brantari a Cima d’Asta, quota 2.476 m, è in nostra attesa. Le placide acque dell’omonimo e vicino lago riflettono i cupi toni del cielo, le impervie pareti rocciose scarnificate dal tempo salgono a perdifiato nell’umidità vorticosa divenendo soffici e impalpabili. Gli ultimi escursionisti di ritorno alle auto lasciano il riparo, guardano valle e si allontanano.
Annunciamo la nostra venuta alla prima rifugista incontrata che, prontamente, ci conduce alla camerata da quattro, ma saremo solo noi due. Doccia calda, zaini che esplodono, tendopoli fra i letti a castello, prassi come da protocollo. Doccia, 5€ per 7 minuti, lusso allo stato puro.
Nel frattempo, all’esterno, il meteo ha mutato le sorti del temporale allontanandolo oltre le cime, lontano. Tanto trambusto e vociare, quanto assenza di pioggia o grandine. Immaginavamo uno scroscio, al contrario niente.
Fetta di torta e birra io, Coca Cola lei, un tavolo e due panche per noi. Gli ultimi raggi prima del tramonto, una coperta tiepida e luminosa. Ripensiamo alla giornata, alle fatiche, alle emozioni, alle salite, alle bellezze della Grande Guerra, ai pensieri e agli incontri. Pensiamo alla cena, speranzosi.
Il rifugio osserva la Val Sorgazza dalla cima del suo promontorio roccioso, l’oscurità dei boschi chiudono la vista a quello che vi nascondono, fra loro e le quote più alte prati e ghiaioni ammantano i pendii montani e intrecci di sentieri collegano ogni direzioni in una ragnatela informe, ma ben distinta. A Occidente, nel sandwich di nuvole e montagne, esplodono gli ultimi colori del giorno che mutano le tonalità dell’ambiente. La luce si affievolisce, i caldi toni si raffreddano lentamente fino a scomparire, mutano, di pari passo virano verso saturazioni di blu, grigio e nero.
Nel salone da pranzo siamo in pochi, oltre alla coppia onnipresente, altre tre coppie e due quartetti. Questa sera godiamo per la cena, lasagne al ragù e spezzatino con polenta, strudel a finire. Voto 8.
Tappa finale, il letto al piano superiore. Domani sarà un’altra lunga giornata: ascesa a Cima d’Asta, il rientro all’auto e il tragitto in auto al B&B.