Sentiero Alpino Calanca – Tappa 2

Agosto 2018, destinazione Grigioni

Il Sentiero Alpino Calanca è un percorso escursionistico lineare che si sviluppa lungo la dorsale montuosa rappresentata da cime quali Piz de MuciaPiz Pian GrandPiz de TrescolmenPiz de GagelaPiz de l’ArdionCima de Nomnom e Piz de Groven; tra le più importanti, tutte fra i 2.500 e 3.000 metri di quota. Il sentiero nasce dal Passo di San Bernardino, o dalla variante che parte dall’omonimo paese, e si allunga sui pendii montuosi affacciati sulla Valle Mesolcina e sulla Val Calanca per terminare infine presso il paese di Santa Maria in Calanca. Un percorso complessivo di tre giorni che possono essere spezzati in più tappe qualora le ore di cammino siano eccessive.

TAPPA 2

(Rifugio Pian Grand – Capanna Buffalora)

Sono le 4:30, troppo presto, mi raggomitolo. Sono le 4:40, ancora troppo presto, mi ri-raggomitolo. Sono le 4:50, ancora troppo troppo presto, mi stufo. Sveglio la mia compagna di avventure con dieci minuti di anticipo e, senza imprecazioni di sorta, spostiamo tutti i nostri modesti averi nel reparto gastronomia cercando di limitare il rumore per non svegliare gli altri.
Muoviamo i nostri corpi in un buio pesto che viene infranto dalle nostre torce frontali. Il silenzio è quasi assordante se non fosse per i nostri passi felpati interrotti dal profondo russare dell’Inglese, ho l’impressione che stia respirando sott’acqua producendo le bollicine.
Il mondo al di fuori del rifugio è immerso nell’ombra e solo una delicatissima aurea chiara di un blu meno oscuro si espande timidamente oltre le creste delle montagne orientali. La restante parte dell’ambiente è senza forma, colore o dimensione alcuna.
Sul tavolo compare un sacchetto di biscotti al cioccolato e Nutella (portati da casa) mentre l’acqua per il caffè si scalda sul fornello a butano. Appesa sulle nostre teste vi è una piccola lanterna con un rimasuglio di una rossa candela dalla tinta color lampone, la accendiamo per creare un’atmosfera romantica; le torce frontali non sono famose per questa caratteristica.
Usciamo, l’aria è fresca non fredda come immaginavamo, umida e profumata di erba bagnata.
L’orizzonte, col passare dei minuti, ha assunto tinte pastello più calde e delicate come petali di una rosa antica. Siamo immersi in un’atmosfera magica, sognante. Ammiriamo la luce irradiata dall’alba oramai imminente mentre dona forme, colori e dimensioni all’ambiente circostante.

Rifugio Pian Grand all’alba

Lavate le vettovaglie della colazione, carichiamo lo zaino in spalla e salutiamo con un arrivederci questo posto incantevole. Merita sicuramente un ritorno, anche se per vivere il bivacco una seconda volta.
Seguiamo i segnavia bianco-rosso-bianchi che ci portano in pochi metri a scalare massi, sfasciumi, massi e ancora sfasciumi. La traccia si incunea verso destra fino a raggiungere il Pass Ovest dell’Alta Burasca. Un altro ominide, senza braccia ne gambe, ci saluta silenziosamente dalla sella in cui è seduto, augura una splendida giornata a chiunque lo incontri.
Una leggera brezza fredda solletica la pelle per inebriare corpo e spirito, rinasco a nuova vita come le calde luci del nuovo giorno che baciano le cime rocciose.
Indirizziamo lo sguardo verso il Rifugio Pian Grand ove scorgiamo due persone, impossibili da riconoscere, che gironzolano per il prato alla nostra ricerca, o almeno questo immagina la mia fantasia. Una si ferma e ho l’impressione che punti il viso nella nostra direzione, chissà se ci hanno visti.
Riprendiamo il cammino seguendo la traccia che scende verso sinistra e sovrasta la Val Largè. La prima parte costeggia la parete rocciosa che si tuffa nel vuoto profondo della valle, questa è superabile senza grossi problemi arrampicatori grazie alla serie di catene. Serve un approccio concentrato, saldo e sicuro, non è mai e poi mai bello precipitare per decine di metri su rocce a picco su un impervio pendio. A seguire una zigzagata su prato decisamente pendente, dapprima scende un pizzico verso Oriente, poi taglia completamente un declivio erboso con tratti franosi a Occidente e, infine, giunge al pianoro sottostante con gli ultimi tornanti che solcano una pietraia. Qui, lungo la china verdeggiante, incontriamo tre stelle alpine, solitarie e bellissime nella loro unica grazia. Fotografarle è possibile rischiando il collo sullo scosceso declivio, non fotografarle è la scelta migliore per salvaguardare la pellaccia.
Il Sentiero Alpino Calanca prosegue fra una miriade di piante di mirtilli alternate a ginepri e rododendri. Il profumo è inebriante, suadente, riempie il cuore con il calore di un aromatico abbraccio. La via continua costeggiando un ruscelletto che, in breve tempo, si oltrepassa per poi tagliare orizzontalmente prati e alte erbacee, a seguire un alpeggio parzialmente abbandonato e, in fondo alla conca, giunge infine al vicino Lagh de Trescolmen (2.025 m s.l.m.).
Il lago è incastonato in un anfiteatro roccioso alto decine di metri, quest’ultimo è sovrastato a sua volta dalle vicine guglie della Cima de Gagela.

Lagh de Trescolmen e la catena montuosa della Valle Mesolcina

Dalle ripidi rupi scende una cascata che si tuffa nel bacino montano. Tutt’attorno una profusione di ontani, mirtilli, ginepri e rododendri ammanta questo arco di roccia e erba immerso nell’ombra proiettata dall’alba.

Lagh de Trescolmen

Riprendiamo il cammino in una fitta foresta di mirtilli e rododendri baciati dal Sole, una coperta che ricopre quasi interamente il dosso graffiato dalla traccia del sentiero che si arrampica sul suo dorso tondeggiante. La via prosegue inseguendo la metallica linea di una catena inchiodata alla roccia che, in un paio di metri, scende verso il sottostante ghiaione. Oltre, solo roccia, roccia, roccia e ancora roccia. Ci tuffiamo in boschetto di ontani e altre latifoglie, habitat perfetto di migliaia di minuscoli insetti sciamanti grossi come inferociti moscerini, si infilano nelle orecchie, nelle narici, negli occhi, in bocca, ovunque. Scappiamo a gambe levate fra ragnatele sospese nel vento che ostacolano la via con i loro invisibili e impalpabili intrecci.
Lasciato ai posteri il girone dantesco dei moscerini assatanati, entriamo ora nella seconda cerchia infernale: sfasciumi a perdita d’occhio. Il sentiero sale e scende in una distesa infinita di massi, sassi e sfasciumi. Contro ogni mia aspettativa si rivela più facile del previsto e in meno di un’ora raggiungiamo il non più lontano boschetto di larici che inizialmente si intravedeva sul dosso mirtilloso. Il torrente accompagna i nostri pensieri con un sottofondo musicale di fruscii, brusii, mormorii, rumori che si librano nel vento fino alle nostre orecchie.
Salito il crinale, si arriva alla Bocchetta del Büscenel (2.166 m s.l.m.) ove ci attende un’altro guardiano della valle, statuario, impassibile e serioso, coi suoi sassi sapientemente disposti a formare un ominide, rassicurante, fiero e amichevole.

Omino presso la Bocchetta del Büscenel

La Val Calanca si estende da Nord a Sud in tutta la sua ampiezza, bellezza, lunghezza e creatività montagnosa. Davanti ai nostri occhi si innalzano cime quali Cima RossaCime dei Cogn e Pizzo Pianaccio a Nord, Pizzo del Ramulazz e Piz di Strega a Ovest e Piz da Termin e Torrone Alto a Sud. In basso, nel fondovalle, vi è il paesino Rossa e le sue frazioni. Risalendo i pendii con lo sguardo, verso quote più alte, si avvistano i numerosi alpeggi dai rigogliosi pascoli che chiazzano i radi boschi di larici.
Raggiunta quindi Bocchetta del Büscenel si conclude la traversata della prima valle, ora ne rimangono altre due: Val Ganan e Val de l’Ör.
Salutiamo l’ometto sventolando la mano nel vento, nessuna risposta di rimando. La via risalente il dorso del monte per poi tagliare in una vicina vallecola ghiaiosa, qui continua sul suo versante opposto fino a raggiungere un secondo dosso. La particolarità della valletta sassosa è dovuta alle rocce belanti che cantano al passare del viaggiatore. Sembrerà uno scherzo poco gustoso, ma alcune volte la realtà può superare l’immaginazione. Lungo il vostro cammino, non allarmatevi se sentirete il verso di ovini lanuginosi che si nascondono ai vostri occhi, è normale, non esistono, è solo la vostra fervida fantasia a farveli immaginare, qui le rocce belano realmente.
Bando alle ciance, meglio riprendere la marcia. Il sentiero taglia obliquamente un pendio erboso decisamente scosceso, impervio e a dir poco verticale. A seguire l’ultimo dosso prima di inoltrarci nella valle successiva, Val Ganan.

Il traverso scosceso

Cima de Gagela troneggia con le sue cineree vesti rocciose, osserva silenziosamente il trascorrere inesorabile del tempo nella sua impassibile maestosità. Fra le lunghe braccia della montagna si nasconde una valle selvaggia e addomesticata: la prima per i duri pendii erbosi di un versante e gli aguzzi sfasciumi dell’opposto, e gradoni rocciosi ammantati di erbe e arbusti che ondeggiano verso le ruvide forre scavate dai torrenti, la seconda per le innumerevoli pecore bianche, marroni, nere e maculate che scorrazzano ovunque e dovunque alla ricerca di qualsiasi tipo di leccornia, ligie nel loro arduo compito di mantenere costantemente tagliato lo svizzero tappeto erboso.
Sul versante della Val Ganan, chiamato dai più con l’appellativo Cascinel del Ciar, intravediamo una lunga linea serpentiforme che disegna una riga ondulata dalle chiare tonalità lanuginose. Si sposta lentamente come un assonnato serpente dall’indole pacifica, mentre cerca riparo in un chissà quale anfratto. Seguiamo il sentiero, questo scende lungo il franoso declivio erboso fino a raggiungere la processione ovina. Al nostro arrivo si sparpaglia e il disegno diventa ben presto uno sciame belante.
Cioccolato fondente, al latte, gianduia o con le nocciole? L’annoso dilemma formicola nella mente di ognuno quando si appresta a scegliere il gusto preferito, o quello godereccio del momento. Quest’oggi sono incerto nella scelta, il ventaglio offertomi è maggiore del consueto e propone nuove leccornie: salame di cioccolato, praline di cioccolato e muffin al cioccolato. Potrebbe essere ripetitivo e noioso, ma forse non lo è quando si parla di cioccolato. I profumi variano da sfumature di fava di cacao tostata, liquirizia e caffè, nocciola in alcuni casi e erbaceo in molti altri. Non sono impazzito, o forse si, ma sto parlando della costellazione di produzioni fecali di varia geometria, genere e gusto che le simpatiche pecorelle disseminano in ogni dove lungo il sentiero. Un vero e proprio campo minato, a tutti gli effetti sia solidi che mollicci, tranne quelli esplosivi, direi più umidicci e sporchevoli.
Il Rifugio Ganan è in nostra attesa su un promontorio roccioso che governa le bestie della valle, osserva guardingo i movimenti dei minuti batuffoli di lana che zampettano per monti e per valli come formichine operaie alla ricerca di cibo.
Avvicinandoci alla meta intermedia, veniamo intercettati da una nutrita rappresentanza ovina che ci accompagna precedendo i nostri passi, accelera e rallenta, bruca e produce, bela e zompetta, e produce. I nostri passi vengono altresì anticipati da uno stuolo cioccolatoso di ogni genere e tipo, ma la comunanza generale è caratterizzata dalla freschezza del prodotto artigianale. Giada, che mi segue a ruota passo dopo passo in questa traversata della Val Ganan, scuote il capo incredula mentre ad alta voce descrivo le cioccolatosità che calpesto. Ridendo, mi scongiura di non scrivere questi aspetti del nostro viaggio nel reportage che seguirà. Non crede che io possa realmente avere il coraggio di mettere nero su bianco le numerose righe riguardanti la cacca, ebbene si, la cacca, e di conseguenza di pubblicarle sul mio sito. L’idea è allettante e sfiziosa, anche solo per la sfida indirettamente lanciatami. Ebbene sì, la cacca delle pecore è importante all’interno di una minuziosa descrizione dell’ambiente, altrimenti la fragranza dei rododendri può stancare le narici del lettore con le sue sfumature di resina e vaniglia, e soprattutto tediarne la lettura. Quindi, a mio avviso, è di fondamentale importanza l’arricchimento aromatico del racconto, anche questo è parte del viaggio.
Rifugio Ganan, quota 2.375 m, giunge dopo 9,3 chilometri di percorso. Anche questo, come il precedente Rifugio Pian Grand, lo definirei più propriamente “bivacco” e non “rifugio” come lo intendiamo noi in Italia.

Rifugio Ganan

A capanna come il cugino, si differenzia per diversi particolari, sia dentro che fuori. Interno: pavimento in pietre piatte appoggiate sulla terra battuta, spartano, ben attrezzato, con la porta d’ingresso simile a una botola ritagliata dal tetto metallico, pesante e comoda come una ghigliottina, ma sicura e solida come è a tutti gli effetti. Esterno: recinzione in stile Jurassic Park, compreso di cartello di benvenuto (nella mia immaginazione), che accerchia il pianoro su cui è appollaiato il bivacco, con ampie maglie metalliche sorrette da pali in acciaio per tenere lontani i feroci ovini che potrebbero mangiare l’avventuriero in un sol boccone, o forse serve per evitare che disseminino cioccolatini in ogni dove, o che mangino tutto il resto. Altra peculiarità del ricovero è la toilette: è posizionata oltre la linea protettiva, in territorio ostile e pericoloso, ma in posizione panoramica unica nel suo genere, è affacciata sul burrone dal quale le deiezioni umane possono ammirare un’incantevole caduta libera verso il nulla, mentre l’umano di turno viene contemporaneamente sbranato da una innocente pecorella.
Ore addietro mi ero lamentato dei ghiaioni-sassaie-sfasciumi della Val Largè, ma da ora in avanti, fino alla curva sul pendio del Piz de Ganan, sarà ancora peggio. Sfasciumi, sassaie e ghiaioni senza alcun limite d’immaginazione. Sciolgo la monotonia della lunga traversata con qualche ometto di innaturale equilibrio che avrà sicuramente vita breve. Sono curioso di sapere se qualcuno lo vedrà dopo il nostro passaggio.

Equilibrio n.2

L’intrigante attraversamento di un ruscello, tramite catene avvinghiate a una parete di quarzo aranciato, spezza la monotonia di roccia, roccia e ancora roccia.

La catena e il ruscello

Le pietraie infinite si allungano a perdita d’occhio, oltre ogni nostra immaginazione, ma non disperiamo perché manca poco al lago a forma di cuore. Il suo arrivo è anticipato da un dono inaspettato, la roccia ci regala quello che la sua monocromia non possiede, il cuore.

Cuore di Calanca

Meno di due ore e due chilometri di pietre, e siamo a ridosso del Piz de Ganan. Risaliamo la china lasciandoci alle spalle il lungo traverso di ininterrotti saliscendi, oltre ci aspetta una lunga e ripida discesa fra scoscesi pendii erbosi fino ad arrivare a una sella disegnata fra il monte e un dosso.
Finalmente, dopo due giorni di cammino e ore ad allungare lo sguardo in ogni anfratto erboso, trovo la mia prima orchidea svizzera (Orchis Mascula). Che dire, felice e soddisfatto. Basta poco per rendermi felice, e le orchidee spontanee riescono sempre, e dico sempre, a regalarmi emozioni, e forse anche una lacrimuccia di gioia. Identica a quelle Italiane che si incontrano spesso in montagna, ma deliziosamente bella perché la prima.

Orchis mascula ssp. speciosa, orchidea spontanea

Oltrepassata la sella, il panorama cambia totalmente. Un’altra valle si apre ai nostri occhi, ma con un’inusuale lago a forma di cuore: Lagh de Calvaresc (2.215 m s.l.m.).

Lach de Calvaresc, il cuore del Sentiero Alpino Calanca.

Pausa e spuntino sulla sponda del lago in prossimità del sentiero.
Le ombre delle nuvole giocano con le luci irradiate dal Sole sulle immobili acque del lago. Il pelo d’acqua viene sporadicamente increspato da cerchi concentrici schizzati da alcuni pesci che ghermiscono invisibili insetti. Nel silenzio del panorama lacustre solo un lontano belare smorza la quiete di questo sconosciuto paradiso incastonato fra le montagne. La pace ristoratrice disegna degli splendidi sorrisi sui nostri volti, stanchi e soddisfatti, e un lago dalla forma non comune descrive tutto il resto.

Lagh de Calvaresc

Salutiamo il Lago de Calvaresc con un sicuro arrivederci e riprendiamo il cammino con la gioia nel cuore.

Alp de Calvaresc Sora a mezza costa sotto il Pizzo de Ganan

Il sentiero scende sul pendio erboso e giunge in breve all’alpeggio dell’Alp de Calvaresc Sora, poi risale leggermente per assestarsi infine alla quota media di crociera tra i 2.160 e 2.180 metri di altitudine. Infine giungiamo alla Capanna Buffalora dopo circa un’ora di cammino. Il paesaggio attraversato nell’ultimo tratto è caratterizzato da radi boschi di abeti e larici invasi da innumerevoli crolli montani, questi hanno ammantato tutti i pendii con massi e sfasciumi. Ai piani inferiori della vegetazione una profusione di mirtilli, bacche violacee in ogni dove e relativa indigestione visiva.
Stanchi per la lunga camminata ed esausti per il Sole cocente dell’ultimissimo tratto, adagiamo le nostre amate chiappe su una qualsiasi panca del rifugio.
Rifugi che sono bivacchi, capanne che sono rifugi, si arriva al punto di confondersi le idee, ma non c’è da preoccuparsi, qui, in ogni caso o casa che sia, è tutto precisamente impeccabile.
I nostri due zaini sono stancamente afflosciati a terra come i nostri sguardi che si incrociano dolenti e appagati. Una rifugista arriva energica con un vassoio portante due bicchieri di infuso violaceo per augurarci il benvenuto, mai e poi mai abbiamo ricevuto un’accoglienza così calorosa. Ingurgitiamo avidamente il nettare trasparente dalle sfumature blu-violacee e dal sentore fruttato, quasi mirtilloso. Dubito sia sicuramente a base di mirtilli, qui in zona proprio non c’è un’opulenza palpabile di Vaccinium myrtillus.
Dimentichiamo i nostri fardelli nella camera da quattro letti a castello e torniamo all’esterno per goderci i caldi raggi del Sole. Poco lontano, una fontana in pietra gorgheggia e fluisce spensierata. Dama e numerose partite a carte anticipano il temporale imminente, pioggerellina prima e grandine con diluvio subito dopo.
L’interno del rifugio, scusate capanna, è tutto in legno come l’esterno. Non sono un intenditore, ma penso sia tutto legno di larice, color nocciola, chiaro con sfumature più scure, nodi concentrici e linee curve, profumo di legno con un vellutato ricordo di resina. Tavoli e sedie si affacciano su alcune finestre che osservano il temporale. Nel ventre del rifugio, capanna scusate, c’è l’ampia cucina che dà sfoggio della sua bellezza e tecnologia. Aperta alla vista degli avventori, comunica i profumi delle leccornie cucinate direttamente alla vista dei commensali.
Lavati e stirati, torniamo all’esterno dove veniamo investiti dalla frizzante aria che profuma di pioggia, terra, legno, sottobosco, resina e un’infinita moltitudine di altre fragranze.
Ci chiediamo a quale punto del percorso si troverà la famigliola Svizzero-Tedesca composta da mamma e tre figli, sicuramente inzuppati anche quest’oggi.
Rientriamo al richiamo dei cuochi, stasera menù svizzero: bündner gerstensuppe, salat, fleischkäse mit spätzli und paprikasauce e per finire heidelbeercreme mit meringues. Direi chiaro per tutti coloro che non conoscono la lingua tedesca, per nostra fortuna un simpatico commensale tedesco ci ha illuminati con la relativa traduzione: zuppa d’orzo grigionese, insalata, polpettone con spatzle e peperoni, crema di yogurt ai mirtilli con meringhe. Bis di zuppa e l’aperitivo è fatto, ma il resto è stato un pizzico misero di porzioni, tranne il dolce che era leggermente più abbondante. Tutto buono, ottimo, saporito, ma lo stomaco al termine di tutto aveva ancora parecchio spazio da riempire per saziare le energie spese durante la lunga giornata. Peccato, ma tutto impeccabilmente buono.
Nel frattempo sono arrivati i compagni di avventure, fradici sino al midollo. Siamo felici per loro, sono riusciti ad arrivare fin qui col temporale e hanno evitato la sosta notturna presso il Rifugio Ganan. Non erano sicuri nell’impresa, ma ce l’hanno fatta. Insieme un’altra sera, anche se non ci parliamo per lingue avverse.
Tutti, chi sazi e chi non completamente, andiamo a nanna. Domani ognuno di noi ha un’altra scarpinata da affrontare.


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