Islanda – Giorno 9

Luglio 2017, destinazione Islanda

L’Islanda è un’isola dalle meraviglie naturali che negli ultimi anni sono diventate famose grazie a stupende fotografie e filmati. È una terra che sorprende e non delude, è un universo di luoghi dalla bellezza disarmante. Seppur sapendo esattamente cosa avrei incontrato, la realtà è ben lontana da quello che pensiamo di trovare e visitare. Ogni singola sfaccettatura è sorpresa, spettacolo, meraviglia. Ho scoperto posti famosissimi che toccandoli con mano si sono trasformati in luoghi mai visti; come se le immagini digitali, impresse nella mia mente prima del viaggio, diventassero immediatamente una scialba rappresentazione della loro bellezza. Raccontare l’Islanda in poche parole è impossibile, bisogna viverla almeno per una volta nella vita, ma sono certo che al vostro ritorno sentirete l’irrefrenabile voglia di tornarci un’altra volta, ma anche una terza, se non addirittura una quarta o quinta… o sesta… Il “mal d’Islanda” è sinonimo di “mal d’Africa”, penso possa bastare come descrizione.

GIORNO 9

(Kleifarvatn – Keflavik International Airport)

La guazza riveste completamente l’auto, l’ha impreziosita di un’infinità di diamanti umidi che lentamente scivolano verso il basso trascinando con loro le altre gocce incontrate lungo il cammino.
L’aria è fresca e umida, il cielo è terso e limpido come cristallina acqua di sorgente. I lupini e i pochi fili d’erba cresciuti loro attorno sono immobili nella staticità del vento. Le rocce giacciono nella stessa medesima posizione in cui le ho lasciate il giorno precedente tranne forse per la sabbia solcata dai miei piedi che ha acquisito nuova forma.
Oggi è il mio ultimo giorno in questa indimenticabile isola che mi ha regalato, e continua a regalarmi, emozioni sempre nuove e forti.
La vicina riva del lago mi risveglia dai sogni e dai pensieri per chiamarmi con il suo atono canto di tranquillità e pace. Il silenzio è incontaminato, puro e semplice nella sua struggente bellezza. Non odo nessun fremito nell’aria, solo la mia immaginazione può credere di udire qualcosa che non esiste in questo territorio desolato. Dirigo i miei passi verso la battigia lasciando nella sabbia brunastra una lineare sequenza di impronte che si alternano fra le morbide onde disegnate dal vento. È un solco effimero che il tempo cancellerà presto, ma in questo momento connette la realtà di questo mio sogno al sentiero di emozioni che sto percorrendo da giorni e che, a breve, mi porterà al suo compimento. Il velo superficiale del lago è come un’enorme chiazza di metallo fuso, riflette svogliatamente le dolci colline che lo incorniciano e si crogiola pigramente sotto il timido sole del primo mattino. L’arenile è bagnato da delicati flutti ondosi che sinuosamente scivolano sulla sabbia bagnata accarezzandone delicatamente la ruvida pelle, non emettono suono alcuno per non disturbare la quiete del sacro luogo e preferiscono evitare di formare la spuma per non creare scompiglio. Silenzio.

Lago Kleifarvatn

Riprendo il mio cammino. La meta successiva, che dista qualche chilometro o forse poco più, è l’area geotermale di Krysuvik. La strada serpeggia lungo la sponda rocciosa che sovrasta il lago, da qui lo si può ammirare attraverso gli scorci che si aprono fra le formazioni rocciose dalle forme amorfe alcune o disegnate con armoniose curvilinee altre. Lasciato il vasto specchio d’acqua alle mie spalle, il paesaggio cambia e si trasforma repentinamente in una vastissima valle verdastra attorniata da colline, oltre spuntano sovente delle grigie colonne fumose; le aree geotermali sono vicine.

Strada n.42

Nel punto in cui la via dimentica le curve, ovvero lungo un lungo rettilineo, scorgo un cuore verdognolo appollaiato sul pendio di un colle. Rallento e fermo l’auto in una rientranza pianeggiante accanto alla strada. Macchina fotografica al collo e torno indietro di qualche decina di metri. Solitario nell’asprezza del territorio, sorge un cuore di erbe verdeggianti che staglia sulla dura roccia grigio-brunastra. La reputo un’idea simpatica, mi fa pensare a tutte le indimenticabili emozioni e sensazioni che l’Islanda mi ha donato, e che rimarranno indelebili nel mio cuore.

Cuore d’Islanda

Giungo a Krysuvik quando le persone normali dormono ancora o iniziano a svegliarsi, il parcheggio è praticamente deserto se non fosse per un furgone camperizzato che poltrisce solitario nella tranquillità dell’alba. Trovarmi da solo in questo ambiente marziano, avvolto da nubi di bianco vapore dalle profumate sfumature solforose, fra mille colori, screziature dei minerali depositati sulle rocce, nella quiete totale interrotta ripetutamente dall’intermittente gorgoglio di pozze di fango ribollenti, mi fa pensare a quanto sia bello viaggiare in solitaria, ma allo stesso modo a quanto sia desolante la solitudine.

Sorgenti geotermali Krýsuvík

Gironzolo fotografando questa minuta bellezza che non è paragonabile all’area geotermale di Hverarond, ma comunque ha il suo distintivo fascino. Alla ricerca di nuovi spunti artistici salgo lungo un fangoso pendio che porta alle sorgenti secondarie di Krysuvik, interessanti soprattutto per la vista che spazia sulle variopinte solfatare principali fino al limitare dei confini visibili a occhio nudo.

Sorgenti geotermali Krýsuvík

Risalgo in macchina seguito da un delicatissimo profumo di uova marce; me lo porterò sicuramente appresso fino alla doccia italiana, e finché i panni non entreranno in lavatrice.
Seppure quest’oggi ho impostato la sveglia alle 3 in punto, non accuso alcun segno di stanchezza. In compenso ho nuovamente fame, quindi apro le danze alla seconda colazione con due fette di pane multicereali, Skyr alla banana e una mela.
La distanza che mi separa dalla prossima tappa, seppur di una decina di chilometri, trascorre abbastanza velocemente in quanto il paesaggio brullo non cattura più di tanto la mia attenzione. Oltrepasso la cittadina portuale di Grindavik dopo aver assaporato la saggia idea malsana del navigatore di Google Maps che mi intrappolato nell’area industriale in cui viene trattato il pesce oceanico, nessuna via di uscita all’infuori dell’ingresso. Suppongo volesse dirmi qualcosa, credo non volesse farmi avvicinare all’aeroporto oppure, più semplicemente, volesse propormi una visita turistica a questa ridente cittadina ancora immersa nel torpore della notte senza buio.
Presso il bivio dal quale si può raggiungere Blue Lagoon, nella testa del mio unico neurone nasce la godereccia idea di lasciare perdere le mete future e dirigere le sue chiappe verso fumanti acque azzurrognole. Consciamente conscio di essere a conoscenza del fatto che è impossibile acquistare un ingresso, navigo sul sito internet delle piscine termali per scoprire, se di scoperta si tratta, che ovviamente non ci sono posti a disposizione. Idea nata dal nulla e tornata a far parte del nulla. Povero il mio neurone che non può godersi il meritato riposo, ma gli tocca rimanere nel vuoto cosmico del Nulla. Il viaggio continua.
Nel parcheggio di Brimketill il vento è teso e sferza quanto le onde impetuose colpiscono senza pietà le imperterrite scogliere butterate. L’immensità dell’Oceano Atlantico è penetrante, assorbe il mio sguardo con la sua immane potenza. Dal terrazzo metallico osservo l’altalena ondosa di poderosi flutti che si schiantano sulla roccia marrognola e nerastra esplodendo in un’infinità di minuscole gocce, queste vengono immediatamente sospinte dal vento su scogli vicini o terre lontane non appena lasciano il mare. Ben presto dimenticheranno le loro origini, evaporeranno nell’aria e lasceranno una firma salata dove si posano, l’impronta della vita marina nel posto in cui mai potrà vivere. Bramketill è conosciuta per la piscina di origine naturale scavata dall’azione marina sulle nere rocce vulcaniche; la forza della natura riesce sempre a stupire l’uomo con la sua semplicità. Forse le condizioni non le rendono giustizia, ma non la reputo una tappa obbligatoria.

Bramketill

Gunnuhver mi attende a qualche chilometro di distanza, non posso tardare oltre. Seguo la strada asfaltata che incide questa landa desolata fino a quando il navigatore mi indica di svoltare a sinistra. Nel parcheggio la desolazione paesaggistica muta completamente lasciando campo libero a un territorio marziano con sfumature infernali. Alte colonne di vapore acqueo si innalzano verso il cielo lattiginoso per poi sciogliersi nel vento teso. Basse dune e montagnole di roccia rossa, ocra, gialla e grigia si dileguano fino al limitare della vista.

Gunnuhver

Seguo il sentiero, passo dopo passo inizio a rendermi conto che il vero spettacolo deve ancora giungere.

Gunnuhver

Una lignea piattaforma sollevata da terra è l’unico terrazzo esposto verso una paradisiaca vista sull’inferno: terra e roccia si fondono con il calore che risale dal sottosuolo, i caldi colori pastello sembrano sciogliersi con il vapore acqueo che evapora dalla superficie arida di vita e rigogliosa di energia. Resti metallici, dalle forme contorte, e travi di legno, consunte dal calore, sono l’unica testimonianza di un passato antropico in cui l’uomo ha cercato di sfruttare la geotermia per poi scoprire, a sue spese, che la natura calda e dolce può diventare feroce e indomabile. Le rovine restano impassibili mentre la terra fuma incessantemente e le acque fermentano ribollendo in furibondi suoni dai sordi echi.

Gunnuhver

Altre colonne di fumo disseminate nella landa desolata si elevano in impalpabili torri cineree. In lontananza, forme squadrate, tondeggianti e tubiformi sono spettrali avamposti dove l’uomo è riuscito a imbrigliare il calore della Terra. L’Islanda è un luogo pieno di sorprese che non possono deludere il viaggiatore.

Gunnuhver

La ricerca della bellezza continua verso Reykjanes, promontorio situato a un paio di chilometri di distanza.
L’auto resta immobile nel parcheggio ad attendere il mio ritorno, mi dirigo verso la scogliera a strapiombo sulle onde. Gabbiani e sterne volano nel respiro dell’oceano che soffia sulla costa, volteggiano spensierati dai nidi verso le scure acque alla ricerca di cibo per poi tornare in breve tempo a sfamare gli schiamazzanti pargoli appollaiati in nidi arroccati sulle falesie.

Scogliera Valahnúkamöl

Oltre il promontorio vi è una lunga spiaggia di immensi granelli di sabbia dalle dimensioni che variano da una palla da basket a un elefante appena nato, tutti tondeggianti e modellati dal vento e dal mare. Le onde schiaffeggiano i massi emettendo cupi brontolii all’interno della massa granitica, sussurri e parole senza linguaggio, incomprensibili suoni di magica armonia.
L’auto è rimasta ad aspettarmi dove l’avevo lasciata un’oretta fa, non si è scomodata nemmeno per visitare il luogo. Mi abbraccia e ripartiamo alla volta di nuove avventure.
Scopro Stampar quasi per caso mentre mi dirigo verso Miðlína. Lungo la strada incontro una piazzola di sosta sulla sinistra, sicuramente ottima per concedermi la pausa pranzo. Qui, un cartello informativo chiama il luogo con un nome proprio e una descrizione degli eventi geologici che l’hanno creato ne delinea il viso. La mia curiosità pensa a tutto il resto.
Rimando il pasto al mio ritorno, anche se lo stomaco inizia seriamente a brontolare. Carico in spalla il fardello fotografico e mi inoltro nel deserto vulcanico. Seguo paletti di rosso dipinti che tracciano una via immaginaria fra sabbia brunastra e rocce modellate dalla vanità della lava, fra sassi e massi informi sparpagliati ovunque e minute pianticelle di rosa fiorite che cercano di strappare il nutrimento a questa terra inospitale. La bellezza di questo luogo risiede nella vastità selvaggia e incontaminata di un ambiente dipinto coi neri e gli ocra delle rocce e della sabbia, e dagli smeraldini verdi di cuscinetti erbosi seminati a macchia di leopardo. Le forme amorfe della roccia vulcanica disegnano mostri antichi e animali immaginari, sculture verticali e ondulate spianate orizzontali. La meraviglia assoluta di questo luogo è un piccolo cratere vulcanico che nasconde al suo interno un segreto meraviglioso: salendo lungo il breve pendio si arriva al cerchio sommitale dal quale si gode un incantevole panorama a tutto tondo su un infinito di lava senza limite alcuno. La vista più bella è all’interno dello scrigno, ovvero una lussureggiante oasi verdeggiante riccamente screziata di gialli e viola. Mai e poi mai avrei immaginato di poter scovare un eden incontaminato nel bel mezzo di una tale desolazione.
Tornato all’auto mangio le ultime cibarie avanzate, mi godo il sole seduto su una roccia e osservo le auto dei turisti che rallentano nell’avvistare una piazzola di sosta di interesse naturalistico per poi riprendere immediatamente il viaggio non avvistando niente di importante. La fortuna della piccola oasi è anche la vista miope del turista affamato di mete importanti.
Riprendo il mio viaggio verso l’ultima meta: Miðlína, confine tra due placche tettoniche che solca l’Islanda da Nord a Sud.
Il parcheggio è colmo di auto, camper e furgoni camperizzati. Un famigliola, genitori e due figli piccoli, pranza comodamente a un tavolo bellamente allestito con varie vettovaglie proprio dietro il loro caravan. Lasciata l’auto nel piccolo parcheggio mi dirigo verso il ponte metallico sospeso sulla Dorsale medio-atlantica che separa la Placca Nordamericana con la Placca Euroasiatica.

Miðlína

Il canyon aperto dalla deriva dei continenti è delimitato da due muri di scure rocce globose che si innalzano per qualche metro sa un fiume di sabbia trasportato dal vento. Cammino nel vuoto da Est a Ovest volando sulla terra di nessuno, un luogo che immaginariamente non appartiene ad alcun continente, ma concretamente esiste ed è tangibile grazie al lentissimo spostamento delle placche tettoniche che rendono possibile questa visione. Fra le dune poste all’estremità settentrionale del solco osservo la magia della natura: due torvi muraglioni si ergono ai lati della ferita geologica, al suo interno una lingua di sabbia è disegnata da centinaia di impronte che ne disegnano la superficie ondulata, a chiudere la cornice il ponte sigilla la bellezza di questo luogo aggiungendo un tocco moderno all’arcaica architettura costruita da immemori fenomeni di orogenesi.

Miðlína

Prima di raggiungere l’aeroporto devo fare l’ultimo rifornimento di benzina e infine consegnare l’auto; guardo l’orologio e concretizzo la pazza idea di aggiungere un’ultimissima tappa al mio viaggio: la Spiaggia di Sandivik.
Torno sui miei passi ripercorrendo la strada asfaltata che mi ha portato a Miðlína, per poi prendere, dopo una decina di metri, una via sterrata che porta verso l’oceano.
Lascio la macchina sul selciato imbellettato di sassi variopinti e sabbia giallo-ocracea. Con lunghe falcate, mentre i minuti scorrono freneticamente, raggiungo le basse dune ricoperte da lunghi steli color del fieno che ondeggiano al vento. Un palo solitario, di un metro o poco più, si erge solitario sull’abbacinante spiaggia che riflette ogni singolo raggio solare. Una corda spelacchiata è legata al suo fusto ligneo e, come una finissima treccia di capelli, serpeggia sulla sabbia perdendosi nei granelli ocracei.

Solitudine

Un luogo molto affascinante che merita senz’altro una lunga camminata rilassante lungo l’arenile, per ammirare le onde dell’oceano, le onde delle dune, la tranquillità del luogo. Poco distante, oltre le minute colline friabili, c’è la Laguna di Sandvik che ospita uno specchio d’acqua dalle tonalità azzurre e verdi, e incorniciato da una fitta vegetazione lacustre. Piccoli uccelli svolazzano allegramente lungo le sue rive appollaiandosi sugli steli dei canneti, canticchiano melodie fischiettanti.

Spiaggia Sandvik
Laguna Sandvik

Tutto questo descrive un paradiso, purtroppo c’è l’altro lato della medaglia, ovvero numerosi solchi di pneumatici che graffiano la terra e la sabbia, piante schiacciate dal peso di fuoristrada irrispettosi e immondizia in ogni angolo (trasportata dal vento o dal mare in tempesta o semplicemente dimenticata da turisti smemorati).
Saluto questo piccolo angolo di eden per portare a compimento la mia storia, auto in spalla e via verso l’aeroporto. Saluto con dispiacere il mio destriero e lo rendo al suo proprietario Lagoon Car Rental.
Le porte scorrevoli del moderno Aeroporto Internazionale di Keflavík osservano i formicolanti turisti che gironzolano, vanno e vengono, salgono e scendono dai bus, entrano e escono dai taxi, un andirivieni senza sosta. Oltrepassato il varco, all’interno della struttura, tutto rimane invariato: decine, centinaia o forse migliaia di persone si muovono aritmicamente e senza sosta per fare il check-in, depositare i bagagli, mangiucchiare qualcosa presso i ristori o dormicchiare sulle poltroncine.
Seguo le procedure di check-in automatico, imbelletto il mio bagaglio da imbarco con l’apposita etichetta e lo saluto mentre viene fagocitato dal nastro trasportatore. Munito dei documenti di viaggio, proseguo la mia marcia dapprima attraverso i controlli doganali e infine verso il gate. Con me, sia davanti che dietro, centinaia di altre formichine multietniche, multiculturali e multilingue.
L’apertura del gate per salire sull’aereo è l’ultimo saluto all’Islanda, non un addio, bensì un arrivederci. La malinconia diventa tangibile e mi pervade.
In volo di ritorno dal paradiso, vedo bagliori lontani che illuminano immense nubi temporalesche dalle smisurate dimensioni. I fulmini esplodono di vitale energia all’interno del gigantesco mostro amorfo, senza ritmo ne irradiano i vaporosi muscoli risaltandone ogni nervatura, ne colorano la pelle con tinte rosa, gialle e viola; tutt’attorno il vuoto cosmico assorbe tutta la luce per risplendere di nero purissimo. Come una minuscola mosca che si aggira silenziosa attorno alle poderose natiche di un pachiderma, l’aereo continua il suo viaggio solitario tenendo distanze siderali dal pericoloso mastodonte.
Chiudo gli occhi pensando all’irritato cumulonembo e li riapro con il viso illuminato da un’infinita costellazione di luci giallastre che punteggiano la pianura, creano galassie immense o molto piccole, tutte collegate fra loro da fili invisibili che disegnano una scintillante ragnatela. Le ultime luci che osservo dall’alto sono quelle della pista d’atterraggio dell’Aeroporto Internazionale di Milano-Malpensa.
L’aria esterna è pesante, inquinata, umida, e calda, mi ero assuefatto completamente con quella islandese: leggera, pulita, secca e fresca. Sono due mondi completamente differenti. Rimpiango amaramente di essere tornato, ogni respiro cancella la purezza delle terre selvagge colmando i miei polmoni con il progresso industriale.
Torno alla realtà da uno stupendo sogno per riprendere la quotidiana vita, con gli occhi ancora ricolmi delle idilliache bellezze islandesi ripenso a quando le rivedrò. All’inizio del mio viaggio non sapevo che sarebbe stato così facile scrivere la parola fine su una storia come quella appena finita di vivere, ma ora so che è difficile vivere la parola fine di un’avventura come quella appena finita di scrivere.


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