Islanda – Giorno 4

Luglio 2017, destinazione Islanda

L’Islanda è un’isola dalle meraviglie naturali che negli ultimi anni sono diventate famose grazie a stupende fotografie e filmati. È una terra che sorprende e non delude, è un universo di luoghi dalla bellezza disarmante. Seppur sapendo esattamente cosa avrei incontrato, la realtà è ben lontana da quello che pensiamo di trovare e visitare. Ogni singola sfaccettatura è sorpresa, spettacolo, meraviglia. Ho scoperto posti famosissimi che toccandoli con mano si sono trasformati in luoghi mai visti; come se le immagini digitali, impresse nella mia mente prima del viaggio, diventassero immediatamente una scialba rappresentazione della loro bellezza. Raccontare l’Islanda in poche parole è impossibile, bisogna viverla almeno per una volta nella vita, ma sono certo che al vostro ritorno sentirete l’irrefrenabile voglia di tornarci un’altra volta, ma anche una terza, se non addirittura una quarta o quinta… o sesta… Il “mal d’Islanda” è sinonimo di “mal d’Africa”, penso possa bastare come descrizione.

GIORNO 4

(Fjallsarlon – Egilsstaðir)

Apro gli occhi anticipando la sveglia impostata alle 4:30, sono le 3:00. Stranamente pimpante e carico, dato i trascorsi.
Il mio animo si rallegra nell’osservare le nubi che sovrastano le montagne mentre vengono squarciate da penetranti raggi rosso-aranciati che fendono l’umido manto etereo. Una densa e spettrale nebbia avanza a capo chino senza pietà alcuna, un cereo muro che scivola a una cinquantina di metri d’altezza sospeso su un tappeto invisibile, si muove silenziosamente dall’Oceano Atlantico verso l’entroterra senza emettere rumore. Le calde tonalità dell’alba cedono pigramente il posto a cinquanta sfumature di tetra monotonia.
Mi teletrasporto con tutta l’attrezzatura fotografica nei pressi del bacino glaciale per cogliere gli ultimi raggi di sole prima che il Nulla mangi tutto. Ero a conoscenza del meteo incerto, ma non così in anticipo.
I pochi villeggianti del posteggio ronfano nei loro scomodi giacigli, non sanno cosa sta accadendo nella piana glaciale, al loro risveglio vedranno solo lugubri grigi e nessun raggio di sole. Devo sbrigarmi, altrimenti rischio di perderli anch’io.
I varchi di luce irradiano una tiepida luminescenza sui crepacci dell’antico Ghiacciaio Vatnajökull che, grinzosamente, scivola sul fondovalle fino alla sottostante laguna incorniciata dalla morena. Le vette delle montagne, quelle rimaste ancora visibili, svettano verso l’azzurro, quello rimasto ancora cristallino, alla ricerca di un fuggevole tepore, quello rimasto e non ancora assorbito dalle nubi. La laguna osserva impassibile il flemmatico mutare degli eventi che si susseguono sopra le sue quiete acque, ne riproduce le vicende con dettagli increspati da interferenze impalpabili, fresche e fuggevoli.

La Laguna Fjallsárlón e il Ghiacciaio Vatnajökull

Le condizioni ambientali non risvegliano il mio lato artistico, qualora ne abbia uno, ma limitano la mia fantasia a un paio di scatti panoramici non molto emozionali e qualche dettaglio minimalista degli iceberg o delle opalescenti acque nei pressi della riva.
Parzialmente soddisfatto mi dirigo verso Diamond Beach pensando alla fortuna di essermi svegliato in anticipo e sorridendo a coloro che si sono persi quei fugaci attimi perché ancora abbracciati a Morfeo.
Anche qui, nel grande parcheggio a due passi dalla spiaggia, nessuno è sveglio, forse sono un folle a alzarmi così presto o, forse, sono un folle punto e basta.
La follia viene ripagata da due enormi occhioni scuri come la notte che spuntano fra i gelidi flutti; mai e poi mai avrei pensato di incontrare una foca, la prima foca della mia vita! Non avendo un teleobiettivo il risultato è scandaloso, in ogni caso mi porto a casa uno splendido ricordo mentale e uno fotografico meno degno di nota, ma pur sempre qualcosa.

Due enormi occhioni scuri

La compagna di brevissime avventure si volatilizza, come un battito d’ali di un moscerino, verso lidi più sicuri e non disturbati; il nostro incontro è durato troppo poco. Non potendole più donarle sguardi ricolmi di ammirazione, rivolgo le mie attenzioni agli iceberg arenati sulla spiaggia nera; l’obiettivo odierno è quello di immortalarli con le onde che li avvolgono cercando di realizzare effetti seta fotograficamente accattivanti. Penso e ripenso alle opere digitali pubblicate nel web da tutti i miei predecessori, mi concentro in questa tecnica con scarsissimi risultati e innumerevoli insuccessi. Non comprendo, non capisco in cosa risieda il mio errore: sono io quello impedito o sono le onde impetuose a non facilitarmi il compito? Passata un’ora, o forse più, lancio la spugna alle spumeggianti onde e, completamente abbattuto, penso a come scordare il non risultato.

Diamond Beach

Penso e ripenso alle opere digitali pubblicate nel web da tutti i miei predecessori, mi concentro in questa tecnica con scarsissimi risultati e innumerevoli insuccessi. Non comprendo, non capisco in cosa risieda il mio errore: sono io quello impedito o sono le onde impetuose a non facilitarmi il compito? Passata un’ora, o forse più, lancio la spugna alle spumeggianti onde e, completamente abbattuto, penso a come scordare il non risultato.

Un diamante accarezzato da un’onda

Le mie impronte lasciano temporanee tracce nella scura sabbia, tracce poco profonde facilmente dimenticabili dalle onde e dal vento, segni di un passaggio che accompagna i miei pensieri persi fra terra e mare.

Diamond beach

Sulla riva bagnata dall’oceano i diamanti glaciali vengono scossi e schiaffeggiati dai flutti, cammino con gli occhi rivolti sulla trama monotona e allo stesso tempo variegata della spiaggia, in solitudine, osservo le meraviglie senza doverne parlare.
La tessitura farinosa che accoglie i miei passi illumina la strada della mia vena artistica, l’ispirazione non è geniale, ma originale: un portfolio fotografico che rappresenti concretamente la Diamond Beach.

Battito d’ali
Angelo caduto

Non è solo sabbia nera e scintillanti blocchi di ghiaccio, ma un mondo costituito da sabbia, ghiaccio, acqua, schiuma delle onde sulla spiaggia, sassi tondeggianti, piume, scheletri di pesci terrificanti o ali di angeli piovuti dal cielo. Una spiaggia è molto più di quello che si vede, osservando con occhi attenti si scopre un mondo infinito di dettagli e particolari non nascosti, ma semplicemente non visti.
Soddisfatto del risvolto artistico della mattinata, indirizzo il mio insaziabile interesse della scoperta verso la vicinissima laguna glaciale chiamata Jökulsárlón.
Lungo le sue sponde compaiono i primi esseri umani, imbacuccati e intirizziti dalla fredda aria, muniti alcuni e armati altri di macchine fotografiche, teleobiettivi o binocoli. Scendo dall’auto e lo spettacolo è drammaticamente affascinante: decine, o forse centinaia di iceberg, galleggiano nella silenziosa quiete di questa mattina uggiosa, solo qualche loro mormorio rompe la spettrale assenza di suoni.

Iceberg nella Laguna Jökulsárlón
Iceberg nella Laguna Jökulsárlón
Iceberg nella Laguna Jökulsárlón

Un rumore profondo di un ancestrale mostro appena risvegliato da un sonno senza fine irrompe nell’aria sconquassando l’atmosfera statica, l’unico iceberg nero (come abissale lava di reconditi incubi) e immenso (come un colosso) si spacca in due parti: la più minuta scivola dapprima sotto le scure acque per poi risalire furiosamente scalciando un vicino ghiacciolo grosso come un mastodonte e sollevando un’onda anomala che va a scombussolare, uno dopo l’altro, case, auto, ippopotami e rinoceronti; la madre di questo trambusto rimane imperterrita fino al ritorno della tranquillità, poi con estrema lentezza si rotola dolcemente mostrando i lati nascosti del suo irascibile carattere, riposizionando poi il suo glaciale fondo schiena in una posizione più comoda. Il frastuono accompagna la sveglia di numerose sterne che si prodigano rapidamente verso l’Oceano Atlantico, fanno la spola fra il supermercato vicino e le affamatissime bocche da sfamare dei loro arruffati piccoli, paffutelli e imbranati cuccioli. Alcune sonnecchiano dondolando sui ghiacci galleggianti, altre cantano a squarcia gola, talune vengono inseguite dalla scarmigliata progenie, tutte le altre volteggiano freneticamente per procacciare pescetti minuscoli.

Sterna

Dopo il trambusto, nella laguna torna una sonnolente quiete, grandi e piccoli ghiacci alla deriva si godono il cullante dondolio delle delicate onde mosse della brezza.
Lascio la laguna allo stormo di turisti vomitato da alcuni autobus, inizio seriamente a pensare che le sveglie anticipate siano più utili a evitare i turisti che a godere dell’alba.
Poche centinaia di chilometri separano i miei pensieri dalla prossima meta: la Cascata Sveinstekksfoss.
La lingua asfaltata, tagliata in due esatte metà da una intermittente riga biancastra, si srotola senza tregua per un’interminabile distanza senza fine.
La fitta nebbia ingloba la strada nera sciogliendola con chiare tonalità di grigio lattiginoso, oltre il limitare dei bordi laterali le basse erbe crescono orizzontalmente verso un infinito che finisce nelle basse nubi, anch’esse vengono sfumate dalle ceree screziature nell’assenza.
Il tempo trascorre lento mentre fendo la densa umidità dell’aria, al contrario i chilometri scorrono rapidamente mentre il tachimetro conta ogni mio passo nel suo ciclico roteare numerico.
La mia posizione indeterminata sull’isola prende coscienza di sé non appena intravede baluardi rocciosi che si innalzano nelle grigie umidità eteree. Nell’altra metà del mondo compaiono spianate erbose a perdita d’occhio. Il limite visibile della strada si allontana fino all’orizzonte dove altopiani e cime montuose si ergono verso le nubi che volano a quote maggiori. L’azzurro cristallino del giorno precedente è un ricordo indelebile nella mente, la limpida trasparenza delle sue vesti ha emozionato di leggerezza i mie sogni. In questo giorno triste, i ricordi mi rallegrano l’animo e illuminano un cereo mondo senza contrasti, in cui luci e ombre sono appiattiti dalla monotonia delle plumbee nebbie. L’anima dell’aspro territorio si riflette sovente sulla superficie immobile di forme amorfe dalle svariate dimensioni che chiazzano la pianura erbosa. Queste rispecchiano il carattere selvaggio di arcigni monti e bastioni rocciosi che si ergono dalla landa ricoprendosi di lacere spoglie tinte coi verdi di erbacee rigogliose, talvolta fiorite. Nei prati che si susseguono ininterrottamente lungo i cigli della via è possibile scorgere dei lanuginosi fantasmi che pascolano beatamente nei prati, le teste immerse nelle alte erbe nascondo musi enigmatici e corna grinzose, solo i corpi batuffolosi tinti di bianco, marrone o nero fanno mostra di sé nel verde erbaceo.
Attraversato un ponte stretto e corto, che sorvola un timido ruscello infossato fra alte sponde, incontro un trio spettrale sul bordo della strada che è indeciso se continuare a brucale l’erba o attendere la prima auto in corsa per oltrepassare la carreggiata. In Islanda è sempre doveroso rallentare quando si intravedono animali allo stato brado, anche se sono a qualche metro dalla via. Non si può mai indovinare cosa formicola nella loro capoccia, quindi è meglio evitare di facilitare il loro interesse suicida. Rallento, sono a una decina di metri dalle pecore, sembrano disinteressate dall’attraversamento, sono a un paio di metri dalle pecore, sembrano molto interessate all’attraversamento, inchiodo. Infarto moltiplicato per quattro, uno mio e uno a testa per loro. Ferme in mezzo alla strada mi osservano e poi, come nulla fosse accaduto, riprendono il cammino verso fili d’erba più interessanti. Imparo a mie spese, o meglio ad anni di vita persi, che questa loro pratica di autodistruzione è molto in voga; sono convinto che queste loro bravate piratesche siano il peperoncino nella loro vita monotona.
Prima di arrivare alla mia prossima meta colleziono altri due tentativi di ammutinamento cerebrale da parte di sei pecore, sono convinto che questa zona in particolare ispiri i loro spiriti scriteriati a follie di ambiguo godimento.
La lingua di nero asfalto continua a seguire il suo percorso incidendo sottilmente la superficie di questo territorio lunare, paesaggi immersi fra desolate lande che si sfumano nell’orizzonte e sgraziate colline senza tempo graffiate da rigogliose erbacee.
La vista muta dopo ogni curva o lungo ogni rettilineo. I cambiamenti diventano più frequenti e incalzanti durante l’avvicinamento ai fiordi orientali.
Ammiro la bellezza sedentaria di questi luoghi mentre fluiscono immutabili attraverso la trasparenza vitrea del parabrezza, immagini fuggevoli in continuo avvicendamento.
Le sconfinate pianure e i bassi monti corrugati lasciano spazio a morbide ondulazioni sulle quali la strada ondeggia al ritmo di onde lunghe e silenziose, ad ampi fiumi spalmati su immense colate alluvionali in cui l’acqua metallica scintilla fra tondeggianti sassi diafani, a lunghi ponti che sorvolano glaciali flutti provenienti da lontani ghiacciai, a esigue o ampie lagune dalle inerti superfici che risplendono dei saturi colori del plumbeo cielo. Le desolate praterie, che vestono i territori pianeggianti, saltuariamente sono abitate da enormi chiocciole tondeggianti fasciate di giallo, azzurro, rosa, verde, bianco o nero. Restano immobili in attesa dell’arrivo dell’Inverno, rimirano i campi sui quali sono cresciute, il cielo che le ha bagnate e la terra che ha dato loro il nutrimento per svilupparsi in lunghi steli d’erba e, infine, ricordano il fattore che le ha mietute raccogliendole in variopinte balle di fieno.
Ben presto il verde dei prati lascia spazio a sole pietre, a terra brulla e spoglia, a pochi steli d’erba e a roccia senza limiti. Sono entrato in un nuovo spazio lunare con sfumature marziane. La pietraia desertica viene sostituita nuovamente da basse distese d’erba, a terra poco rigogliosa, a numerosi steli d’erba e a qualche fiorellino spaurito; sono tornato nello spazio terrestre con sfumature extraterresti che è l’Islanda.
Ho perso il conto dei chilometri e delle ore, non ho minimamente idea in che luogo e tempo mi trovo, ho lasciato tutto alle mie spalle da quando ho salutato la meravigliosa laguna glaciale e mi sembra di essere in viaggio in un film senza la parola fine, senza titoli di coda. I territori sono inaspettatamente simili, meravigliosi, stupendi, monotoni e unici che quasi non mi accorgo della pesantezza del lungo viaggio.
Il confine che divide e congiunge la terraferma dall’oceano trasforma le spiagge nere in scogliere basse e piatte o alte e strapiombanti sui vorticosi flutti. Le montagne, tenutesi a debita distanza dal mare come se ne avessero paura, si sono fatte più spavalde e oramai sono giunte a lambire le acque turbolenti dell’Oceano Atlantico. La strada sale e scende, scende e sale, lungo i pendii franosi che scivolano dalle cime fino alla sottostante costa frastagliata.
La segnaletica stradale di un imminente posteggio cattura la mia sonnolente attenzione carica della stanchezza di un viaggio interminabile.
Posteggio l’auto con vista sull’oceano, su una falesia battuta dal vento che sormonta una spiaggia schiaffeggiata dalle onde, e dedico le mie ultime energie per una meritata pausa, per riprendere i miei pensieri persi lungo i chilometri percorsi.
I turisti vanno e vengono, chi in auto chi in pullman o in camper. Gironzolano sulla scogliera, lungo la spiaggia o sugli esigui sentieri che si dileguano nella scarna macchia costiera, fotografano o si fotografano, ammirano e commentano il paesaggio in lingue sconosciute.
Vorrei fermare il tempo, congelarlo nel momento in cui sono arrivato per potermi addormentare e ritrovare le energie perdute durante la giornata. Non avendo questi super poteri mi limito a guardare il mondo che mi circonda per interminabili minuti. Sono affascinato dal luogo e annullato dalla stanchezza, esco dall’auto e vengo istantaneamente investito dal poderoso vento gelido proveniente dalle vastità senza frontiere dell’oceano, il mio torpore viene scosso da freddi aghi d’aria che penetrano nella mia pelle.
È un ambiente molto affascinante e suggestivo, stupendo col brutto tempo, ma immagino lo sia altrettanto in una giornata soleggiata. Il parcheggio è situato su un misero pianoro appollaiato su una falesia verticale di una decina di metri, i verdi fili d’erba che non hanno paura del vuoto guardano in basso dove le rocce precipitano sulla sottostante spiaggia desiderando di accarezzarne la friabile sabbia salina, al contrario la sabbia grigio-brunastra osserva con ammirazione le coraggiose piante che, incuranti del pericolo, ondeggiano libere coi capelli scarmigliati dal vento. Il muraglione roccioso corre verso sud serpeggiando fra grinze e increspature, antichi crolli e torrioni solitari. Neri, grigi, marroni e rossi si alternano in continue fusioni di tinte fino al limitare meridionale dell’orizzonte, giocano coi tetri contrasti cromatici che rispecchiano le montagne soprastanti. I pendii montani si sciolgono sotto l’azione degli eventi atmosferici creando calanchi, grinze, fessure, rughe di ogni lunghezza e dimensioni, tagliano le glabri vesti dei rilievi in tutta la loro lunghezza, dalle vette fino alla falesia. Immagino, dietro ogni ansa della viva falesia, un altro angolo di lugubre paradiso in cui le scene si ripetono con trame simili, ma differenti dettagli. La stretta lingua di sabbia accoglie nel suo ventre una rocciosa torre di avvistamento nera come la pece, i suoi piedi sono in ammollo fra i marosi che si infrangono sulle sue rocce, il corpo è avviluppato dalle carezze del vento mentre la smeraldina chioma ondeggia finemente nella libertà dell’essere solitaria nelle terre selvagge. L’isolata sentinella si trova sulla linea di confine che separa la staticità della sabbia alla dinamicità dell’acqua, da una parte la rena è immobile, ferma e immaginariamente immutabile, dall’altra il mare è in continuo mutamento, instabile e apparentemente identico nel tempo, da una parte le basse onde delle infinitesime rocce abrase dalle ere restano eterne nella loro morbida tessitura tranne per variegati disegni e forme realizzati dalle alghe color nocciola che sono arenate sulla battigia, dall’altra le onde poderose sconvolte dal tempo evolvono a ogni respiro del vento creando schizzi astratti e visionari senza alcuna logica se non nella fantasia di scorgevi qualcosa. Il mare, plumbeo e oscuro, corre a perdifiato nel rincorrere le nubi fino a raggiungerle nell’estremo limite in cui la vista perde ogni dettaglio e le scure sfumature acquose si sciolgono nelle ceree tinte gassose.

Scogliera di Lækjavik

Il luogo è molto affascinante e suggestivo, ma il freddo pungente e il forte vento hanno liquefatto ogni mia fantasia fotografica; sono quindi obbligato a ripiegare tornando in auto. Mi concedo altri interminabili minuti ad ammirare questo stupendo paesaggio da dietro un muro di vetro, protetto dalle intemperie ne assorbo la cupa energia e la tramuto in nero inchiostro su stropicciata carta biancastra.

Scogliera di Lækjavik

Questo tratto di costa, denominato Lækjavik, merita un’intera mezza giornata per immortalare ogni anfratto roccioso, ogni sfumatura, ogni contrasto, ogni onda che incontra lo sguardo creativo; purtroppo devo rimandare per mancanza di energie. E, chissà, magari perdersi lungo uno dei tanti sentierini che si dileguano verso ignote mete.
Giro la chiave e il cruscotto si illumina immediatamente, il brontolio silenzioso del motore si sente a malapena fra le raffiche della delicata brezza. Innesto la retro e nella manovra saluto con rammarico le fotografie non scattate. Rilascio la frizione premendo allo stesso tempo l’acceleratore, la prima marcia lascia rapidamente il passo alle maggiori. Poco distante, al termine della strada in salita, dallo Stop dipinto sull’asfalto riparte un nuovo viaggio verso mete da scoprire. Lo spazio, che da un lato è delimitato dai bordi della lingua nera e dall’altro non ha limite alcuno, riprende le tessiture incontrate nei chilometri precedenti: pianure illimitate a Oriente e montagne a Occidente, sabbia e roccia alternata a prati con numerose chiocciole al pascolo o corsi d’acqua incuneati in ampi alvei fluviali o immense distese di mercurio che riflettono le monotone tinte celesti, rare fattorie o case solitarie dimenticate dal mondo, candide o scure pecorelle batuffolose intende nella complicata attività di spiluccamento erbaceo.
Il variopinto ambiente monotono si interrompe bruscamente dopo un promontorio che nasconde il primo fiordo, da qui in avanti le montagne incombono sulla strada che si insinua su stretti o poco ampi tratti naturalmente pianeggianti o artificiosamente scavati, oltre i quali regna incontrastato il profondo Oceano Artico.
In prossimità di un corto ponte, vedo alla mia sinistra due strade: la prima corre pianeggiante fino a un vicino parcheggio, la seconda sale rapidamente lungo il costone di una montagna per andare chissà dove. Immagino le fotografie viste in internet prima della partenza e opto per osservare la Cascata Sveinstekksfoss dall’alto, quindi, oltrepassato il viadotto, prendo la via successiva. Mentre mi inerpico lungo al strada sterrata inizio a intravedere la forra in cui il fiume si è insinuato.
Lascio il mio mezzo in un piccolo posteggio impolverato assieme ad altri due quadrupedi motorizzati, e mi dirigo con grandi falcate, carico del mio fardello tecnologico, verso la vicinissima meta acquosa.
Lo spettacolo è stupendo, mi trovo su un baluardo roccioso che sovrasta il pianoro da una parte e la stretta gola dall’altra, la cascata spruzza di spumeggiante irruenza nel precipitare da un salto di decine di metri su rocce grigio-nerastre, l’acqua cristallina si incunea fra i massi e scivola vorticosa tra sfumature nere e screziature celesti.
Il vento continua imperterrito a gonfiarsi rigoglioso, ma questa volta non demordo e mi concedo qualche attimo fotografico.

Cascata Sveinstekksfoss

Saziata la mia fame creativa, torno all’auto per riprendere la via verso la meta successiva: Cascata Folaldafoss.
In breve tempo raggiungo il prossimo bivio che mi poterà su un’altra strada sterrata, da questo punto fino al ricongiungimento con la Ring Road è tutto un’incognita. Ricordando l’esperienza del primo giorno, quella con un innumerevole numero di buche che mi ha fatto scuotere tutte le membra fino a scombussolarmi il midollo, sono dubbioso se giocarmela comoda lungo una lunga strada o rischiarmela per abbreviarne il tragitto. Oramai la biforcazione è a poche centinaia di metri di distanza, il dubbio mi attanaglia. Una decina di metri separano la mia scelta dalla futura rotta da tracciare. Osservando le automobili in avvicinamento, seguite da basse code di polvere, rassicuro il mio animo constatando che sono tutte macchine come la mia e fra loro scorgo un candido camper impolverato dalla cintola in giù. La decisione è praticamente presa: strada sterrata sia!
Non appena la imbocco lascio alle mie spalle il dubbio e inserisco una marcia dietro l’altra per tuffarmi in una nuova incognita avventurosa.
Le basse nubi lattiginose celano completamente la testa della morbida catena montuosa nascondendomi i loro visi, riesco solo ad ammirarne gli abiti verdeggianti e le rossicce rocce grigiastre.
La via si sposta a ridosso del pendio per poi virare a babordo in una lunga curva che si inerpica rapidamente verso un vicino altopiano. In breve tempo giungo sul piccolo pianoro roccioso sul quale è appollaiato un minuto parcheggio che, in solitaria beatitudine, si gode l’ampio panorama esteso fino al limitare della vista.
In una spaccatura della falesia incastonata sul limitare dell’altopiano vi è la scrosciante Cascata Folaldafoss. Questa si tuffa da un’ampia fenditura, tetra come la notte, verso un sottostante laghetto, dalle sfumature verdi e blu. La pozza cristallina è accerchiata da un imponente anfiteatro dalle rocce strapiombanti inclini a precipitare da un momento all’altro sulla rilassata quiete dalla rigogliosa vegetazione.

Cascata Folaldafoss

Il vento seguita imperterrito a sferzare la terra e i miei pensieri.
Lascio la verde valle in direzione delle nubi incolore che attendono placidamente il mio arrivo. L’intangibile banco grigiastro sembra congelato lungo una linea immaginaria, oltre di essa forme e colori perdono di significato. Avvicinandomi osservo il mondo sfumarsi gradualmente in tonalità cineree che erodono ogni gamma di saturazione fino a quando mi trovo a respirare l’impalpabile assenza del nulla. Guido l’auto lungo un’immaginaria linea di ghiaia e terra rosso-brunastra che serpeggia in un luogo invisibile, in alcuni tratti sale rapidamente e in altri più dolcemente, in alcuni tratti scende dolcemente e in altri più rapidamente; senza rendermene conto la strada scende, quindi ho oltrepassato il valico Öxi Pass.
Giunto al crocevia con la Strada n.1, ridiscendo la valle lasciandomi alle spalle un irreale mondo senza fantasia, per lasciare poi spazio a un nuovo paesaggio saturo di colori illuminati da un timido sole che squarcia le alte nuvole. Assaporo le bellezze ripetitive di quest’ampia valle percorrendo senza fretta il lungo tratto di strada, sterrata prima e asfaltata poi, che mi separa dalla prossima meta: Cascata Hengifoss.
Alla guida dell’auto, noto in mezzo alla strada un grosso uccello selvatico intento a zompettare nella corsia opposta alla mia. Rallento ripensando alle scriteriate pecore che vivono un’esistenza di brividi sfidando la sorte con gli automobilisti. Rallento, mancano una decina di metri al pennuto. Noto che dalla parte opposta è in arrivo un fuoristrada a tutta velocità. Oltrepasso lentamente il volatile per non rischiare di travolgerlo e mantengo un’occhio sulla strada e uno nello specchietto retrovisore, questo placidamente si gode il sole sull’asfalto incurante dei pericoli. Incrocio l’altro mezzo con il guidatore intento a parlare al telefono incurante del malcapitato, e non rallenta, non rallenta. Osservo la scena con timore. Il fuoristrada non rallenta e, nell’attimo in cui sta per piombare addosso allo sventurato, penso allo sfortunato volatile. I due si incontrano, lo schianto è inevitabile contro il paraurti del mezzo. Piroetta in un frullio di piume e ali sbatacchiate nell’aria in un volo grottesco e innaturale, guardo nello specchietto retrovisore l’auto che si allontana senza accennare a ripensamenti, il pennuto a terra, rallento e penso a cosa potrei fare, si alza con un’ala inerme per poi ricadere a terra, non so minimamente cosa fare, la curva che mi precede mi nasconde il suo futuro non appena scompare dalla mia visuale, un domani che sicuramente non avrà inizio, e io impotente continuo il mio cammino con l’amaro in bocca. Ora la stanchezza del lungo viaggio solitario ha due nuovi compagni: rabbia e tristezza. Purtroppo non saprei come cambiare il destino dello sventurato pennuto, penso solo alla tristezza della sua fine: la sentenza di morte di una vita selvaggia eseguita da uno straniero in una terra selvaggia. Concentro i miei pensieri sulla guida e su quello che mi attende.
La ramificazione 931 della Strada n.1 è la via successiva da prendere. Questa costeggia il Lago Lagarfljót attraverso boschi di conifere e latifoglie fino al suo restringimento dove l’immissario omonimo, Fiume Lagarfljót, incontra le sue tranquille acque grigio-azzurre.
Nell’esiguo parcheggio dedicato alla Cascata Hengifoss c’è una marea di auto e camper, tutti assiepati le une sugli altri lasciando liberi solo due posteggi, uno per il sottoscritto e uno per altri avventurieri.
L’aria è frizzante e briosa. Il paesaggio suggerisce toni terrosi di roccia e sabbia, e vegetali di erbe e bassi alberi. Il vento profuma di pioggia e il parcheggio odora di veicoli impolverati.
Il sentiero sale lungo il versante occidentale del canyon, sussurra idiomi variopinti di persone che ne percorrono il pendio in salita e in discesa. Poco distante, il torrente gorgheggia spensierato fra i sassi rossastri e le miei emozioni si impregnano di queste sensazioni.
Zaino in spalla e attacco il sentiero che sale il pendio scosceso ove incontro un’altra orchidea spontanea (Platanthera hyperborea).

Platanthera hyperborea, orchidea spontanea

Prima di giungere al limitare superiore del canyon costeggio l’orrido in cui un salto di diversi metri origina la Cascata Jónsfoss e un secondo seracco roccioso in cui nasce la Cascata Litlanesfoss.

Cascata Litlanesfoss e Cascata Jónsfoss

L’ultimo tratto si insinua direttamente nella stretta valletta le cui pareti sono disegnate e dipinte da variegate linee di roccia che risalgono ad ancestrali stratificazioni temporali. In fondo al canyon, nel punto più estremo della gola, là dove le orizzontali rocce rosso-nerastre si incontrano, la Cascata Hengifoss si slancia nel vuoto con un salto di decine e decine di metri verticali fino a scomparire nelle sottostanti rocce che l’attendono.

Cascata Hengifoss

Lo spettacolo è unico, indimenticabile. La natura ha creato un perfetto connubio di linee orizzontali e verticali, colori tenui e forti, roccia statica e acqua dinamica, silenzi e rombanti scrosci, tutto in un’unica impressionante emozione.

Cascata Hengifoss

Torno sui miei passi ammirando l’esteso panorama che si oppone a quello stretto e angusto del canyon: la vista spazia dalle verticali rocce alle mie spalle, ai pendii scoscesi ed erbosi ai miei fianchi, al ruscello che scorre vorticoso a sinistra del sentiero fino alla vastissima valle glaciale che esplode in tutta la sua ampiezza delimitata da declivi dolci e delicati, il lontano fiume scivola lentamente sul fondo alluvionale fino a diventare un tutt’uno con il lunghissimo e interminabile lago simile a un fiordo, chiari prati e boschi scuri tappezzano le vastità artica, cime di monti in lontananza a sfiorare il cielo plumbeo chiazzato da radi oasi azzurre.
Il viaggio continua, ma la giornata è oramai agli sgoccioli. Quest’oggi mi sembra di essere sveglio dall’anno dei mai, interminabile e ricolma di emozioni, belle e positive, ma purtroppo anche tristemente negative.
Raggiungo la cittadina di Egilsstaðir seguendo la Strada n.931, questa costeggia la sponda opposta del Lago Lagarfljót fra tratti sterrati e asfaltati. Lungo il percorso una finissima pioggerellina aghiforme punzecchia il parabrezza, tratti plumbei di cielo si alternano ad altri luminosi e iridescenti. Il paesaggio cambia flemmaticamente intramezzando ampie vedute sul lago a tratti immersi in boschi ombrosi, cascinali e piccole fattorie, e porzioni di prati verdeggianti punteggiati da qualche pecorella.
Oltrepassato il paese di Fellabær prendendo il ponte che, attraversando il Lago Lagarfljót, attracca presso l’Aeroporto di Egilsstaðir per poi arrivare in un batter di ciglia a Egilsstaðir stessa.
Spesa veloce e poi, seduto in auto, contemplo il web alla ricerca di un chimerico ristorante dove mangiare qualcosa di tipico. Cosa c’è di tipico in Islanda? Ho pensato a tutto in questo viaggio, ma niente relativo alla gastronomia locale, una grave mancanza. La ricerca non porta a risultati soddisfacenti: dei quattro papabili inizio a girovagare con il navigatore che si impiastra in una strada a fondo chiuso e in un’altra senza una minima traccia di ristoro. Al secondo tentativo trovo un pub, il nome coincide e il parcheggio deserto sposta i miei pensieri verso dubbi riguardanti la qualità del posto, al presumibile orario improbabile o probabilmente errato o a perplessità varie ed eventuali. Sono stufo di cercare, quel che sarà, sarà. Mollo l’auto nella desolazione islandica del luogo e varco la soglia incrociando tutte le dita di mani e piedi. La desertificazione esterna rispecchia quella interna, il posto è senza carattere e il ristoratore è apatico quanto la sala vuota. La lingua inglese non è di casa, ma fra gesti e qualche parola anglo-islandese riusciamo a intenderci. Dopo un’interminabile attesa, io e il bicchiere d’acqua seduto sul tavolo, vediamo arrivare in pompa magna il piatto che zittirà il brontolio del mio stomaco: una sola, singola e solitaria fetta di arrosto di agnello con tre patate lesse fredde, qualche cucchiaiata di piselli lessi freddi, qualche cucchiaiata di crauti rossi freddi e una manciata di insalata insaporita da scarabocchi di peperone rosso. L’agnello è gustoso, morbido e saporito, il resto niente di esaltante. Forse una fetta in più di carne avrebbe allargato il sorriso del mio stomaco, ma sono comunque soddisfatto. Saluto il serio gestore sorridente, scontrino in tasca che evidenzia i 36 Euro di prelibato godimento carnivoro e torno all’auto.
Saluto Egilsstaðir con un dubbioso arrivederci lasciandomi alle spalle quartieri dipinti con tristi colori e disegnati da altrettanto tristi architetti. Oltrepasso nuovamente il ponte e mi inoltro lungo la via che porta verso nord.
Oltre il mio sguardo il paesaggio scorre velocemente quanto i chilometri che sto collezionando, al contrario il cielo muta con una lentezza indefinibile, quasi statica. Dirigendomi verso nord le nuvole evaporano lasciando pigramente trasparire un timido cielo azzurrognolo rischiarato dalle ultime luci del giorno. Sottilissime sfumature pastello di rosa e giallo compaiono timidamente lungo i profili fumosi delle striate nubi naviganti in un mare cristallino. Mentre il sole danza alto e fiero in terre lontane, qui tutto sembra assopirsi in un tempo senza fretta. Tutto giace immobile, persino i mutevoli colori sembrano congelati nell’etere quasi a non voler virare verso tonalità più calde.
Credo di aver perso la cognizione dell’orario, dei minuti e delle ore trascorse alla guida. Se non fosse per l’orologio maniacalmente preciso, potrebbe essere mattina come sera: 23:05, quindi sono sveglio da circa 20 ore. La spossatezza sta per prendere il sopravvento, quindi decido di cogliere al volo la prima piazzola di sosta che incontrerò lungo il mio cammino; qualunque essa sia.
La celeste volta celeste lascia spazio a calde screziature di arancione e rosso che scaldano il freddo ambiente regalandomi un incantevole arcobaleno cromatico. In tutto questo la luce è brillante e mi fa seriamente pensare che il sole non abbia alcuna intenzione di addormentarsi.
Sono in viaggio nel giorno della notte senza buio.
Un solitario cartello blu segnala una piazzola di sosta, inserisco la freccia e lentamente rallento la mia corsa dirigendo le mie intorpidite membra verso il quarto meritatissimo riposo. Giro la chiave nel cruscotto e il ronzio silenzioso del motore smette di canticchiare, inserisco il freno a mano e mi sciolgo letteralmente e fisicamente lungo il sedile. Un minuto, o forse un’ora non saprei dirlo, ma il breve riposo da alla mente una modesta carica che mi spinge ad allungare lo sguardo verso un cartello poco distante, indica la presenza della Cascata Rjukandi.
Ore 0:00, mi trovo davanti alla stupenda e inaspettata cascata, assolutamente non programmata. Giocherella fra spruzzi e gorgheggianti schiamazzi in un incavo roccioso profondo qualche decina di metri e altro altrettanti. Le concedo una fotografia col cellulare, sono esanime per poter solo pensare a fare le cose seriamente. Merita sicuramente un servizio ad hoc, prossimo viaggio.
L’aria è frizzante e il leggero vento freddo mi risveglia dal torpore. In alto, fra le altezze intoccabili, nello spazio siderale, la luce continua a sfavillare nel cielo fra scintillii di ocra, vermiglio e zafferano.
Mi infilo nel caldo sacco a pelo, calo la mascherina e sprofondo nella notte del giorno senza luce.


Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...