Islanda – Giorno 1

Luglio 2017, destinazione Islanda

L’Islanda è un’isola dalle meraviglie naturali che negli ultimi anni sono diventate famose grazie a stupende fotografie e filmati. È una terra che sorprende e non delude, è un universo di luoghi dalla bellezza disarmante. Seppur sapendo esattamente cosa avrei incontrato, la realtà è ben lontana da quello che pensiamo di trovare e visitare. Ogni singola sfaccettatura è sorpresa, spettacolo, meraviglia. Ho scoperto posti famosissimi che toccandoli con mano si sono trasformati in luoghi mai visti; come se le immagini digitali, impresse nella mia mente prima del viaggio, diventassero immediatamente una scialba rappresentazione della loro bellezza. Raccontare l’Islanda in poche parole è impossibile, bisogna viverla almeno per una volta nella vita, ma sono certo che al vostro ritorno sentirete l’irrefrenabile voglia di tornarci un’altra volta, ma anche una terza, se non addirittura una quarta o quinta… o sesta… Il “mal d’Islanda” è sinonimo di “mal d’Africa”, penso possa bastare come descrizione.

GIORNO 1

(Keflavik International Airport – Seljalandsfoss)

Sono all’Aeroporto Internazionale di Milano-Malpensa in attesa di salutare il mio trolley che, a breve, verrà fagocitato dal complesso sistema di smistamento bagagli.
All’interno dell’immensa struttura il tempo sembra cristallizzato e scintillante dalle fredde luci che risplendono dalla volta artificiale, all’esterno della squadrata struttura il tempo sembra fluire lento nel divenire cupo e oscuro sotto le sparute stelle che risplendono dalla volta celeste. I minuti e le ore ruotano attorno alla tavola rotonda dei 12 cavalieri con imperturbabile cadenza, i viaggiatori formicolano nelle vie e nelle piazze dell’aeroporto con imperturbabile frenesia.
Osservo volti carichi di energie e carichi di stanchezze, visi candidi come neve sotto la luna piena e visi bruniti dal sole o dalle proprie origini. Osservo sgargianti vestiti floreali in una moltitudine di colori o monocromatici abiti freddi e alteri, indumenti da mare tropicale o da oceano polare. Osservo una moltitudine eterogenea di popoli in viaggio verso luoghi vicini o lontani, estrosi o banali.
Oltrepassati i controlli doganali si entra in un mondo senza patria, un limbo di negozi che ti accompagna verso un portale numerato, un varco che segna il confine immaginario dell’inizio del proprio viaggio.
​L’annuncio dell’apertura del gate è il fischio di partenza verso un’avventura da scoprire. In ranghi ordinatamente disorganizzati seguiamo il capofila fin dentro il ventre del metallico mostro d’acciaio che ci fagocita in un sol boccone. Impazienti attendiamo di venire digeriti e il suono gutturale emesso dagli altoparlanti è l’annuncio al decollo. Questo risuona all’interno della fusoliera tubolare ed è immediatamente accompagnato dai sorrisi dei passeggeri che ne illuminano l’oscuro ventre. Fuori dal finestrino centinaia di ammiccanti luci variopinte salutano il volatile spiumato.
Dal finestrino dell’aereo, in volo su terre o acque sconosciute, l’oscurità è l’unico tono di colore che si riesce a percepire. Il ronzio dell’aria condizionata fa da sottofondo musicale al sovente via vai delle impeccabili hostess islandesi.
Il tempo non sembra trascorrere durante il volo da Malpensa Keflavik, le quattro interminabili ore trascorrono al rallentatore. Provo e riprovo a lasciarmi andare fra le braccia di un Morfeo introvabile e passo il tempo sognando un riposo che mai arriverà.
Fuori dai finestrini dell’aereo l’oscurità lascia lentamente i monotoni neri e blu a sfumature di rosa, giallo, arancione, viola e rosso. Ai miei occhi è l’inequivocabile indizio che ci stiamo avvicinando alla meta: l’Islanda. Il cielo e l’oceano oramai non sono più fusi in un unico manto scuro, ma ora sono sempre più chiaramente distinti e separati dalle screziature pastello dell’alba o del tramonto. È difficile capire quando inizia una e finisce l’altro a queste latitudini: in Estate inizio e fine si fondono soffocando la notte.
Con l’aumentare della luminosità si intravedono basse nubi sofficiose che ammantano l’oceano come una trapunta di candida lana, mentre, ai confini della coperta, le nuvole a macchia di leopardo lasciano intravedere la terra tanto sognata. Negli squarci non si definiscono i particolari finché la coltre lanosa non si apre completamente regalando uno spettacolo di coste frastagliate, di piatte terre intagliate da fiumi o creste rocciose, di immensi ghiacciai spiaccicati al suolo come una frittata, di scintillanti laghi di metallo fuso che riflettono le calde tonalità del nuovo cielo.
La solita prassi accompagna i viaggiatori nell’atterraggio, nello sbarco e nel ritiro bagagli, ma fuori l’aeroporto ognuno prende la sua strada verso le meraviglie da scoprire di questa selvaggia terra.
Ritiro l’auto alle 3:30 di mattino e parto alla volta di Þingvellir mentre vengo inondato dai primi raggi del sole rosso fuoco. La prima alba, indimenticabile quando meravigliosa.
Nessuna nube, cielo completamente terso, temperatura molto frizzante e piacevole, ben lontana dell’afa italiana. Sono elettrizzata e stanco, non per il lungo viaggio, ma per la notte insonne. Ci sarà tempo per dormire, ora l’unico pensiero è l’Islanda.
Oltre il parabrezza, una spensierata strada serpeggia sinuosamente sui delicati paesaggi che separano l’Aeroporto Internazionale di Keflavík al Parco Nazionale Þingvellir.
Nei pressi dei centri abitati ogni lampione è dimora di un gabbiano, ognuno ha prenotato il suo posto e non lo cede tanto facilmente agli altri pennuti; sono tante belle statuine piumate che abbelliscono la via maestra.
Il placido paesaggio è sporadicamente punteggiato da qualche pecorella intenta a brucare l’erba smeraldina. All’avvicinarsi della mia auto alzano il capo e, non vedendo niente di interessante, si rimettono immediatamente a spiluccare i fili d’erba.
Viaggio in solitaria compagnia mentre il sole sale all’orizzonte irradiando le bassissime nebbie che si espandono dalla superficie di laghi e paludi, queste lambiscono i pendii delle colline, inglobano abitazioni o scavallano la via asfaltata che corre sotto i miei occhi.
Le dolci colline sono ammantate da verdeggianti prati di alte erbacee tinteggiate da fiori gialli, verdi e viola. Questi ultimi, in particolare, sono molto più rigogliosi, vigorosi e spumeggianti nella loro fioritura. La loro sfumatura di viola e panna arricchisce indubbiamente la bellezza di queste terre desolate.
Il tetto di questo universo è tinto di azzurro e di biancastre spumiglie stiracchiate dal vento. I grigi scuri, i neri e talvolta i rossi delle rocce vulcaniche dai millenari ricordi si intrecciano coi verdi saturi e i gialli paglierini delle distese erbose che avvolgono l’intero mondo in un abito ampio e soffice. Piccoli e morbidosi batuffoli ovini punteggiano di avorio il tessuto cucito con spensierata maestria da un reticolato di strade di ardesia o di terra cotta, asfaltate o sterrate; il ricamo è abbellito dai lupini bianco-mirtillati. Infine, la sarta ha incastonato alla rinfusa tante gemme architettonicamente belle o brutte, quadrate o rettangolari, bianco di mura tinteggiate o rosso di tetto dipinte, dai tetti aguzzi per le case e chiese o tondeggianti per stalle simili ad hangar, a tetti vari ed eventuali per tutto il resto.
Giungo a Þingvellir nella primissima mattina e, nella vastità del luogo. Essere l’unica persona riempie di desolazione lo sconfinato paesaggio che si apre a perdita d’occhio davanti al mio naso.
Lascio l’auto al parcheggio, lei sola nella distesa di asfalto. Prima di scendere nel canyon, mi godo il paesaggio senza limiti che si può ammirare da una terrazza, questa si staglia su questa incantevole terra in un arco aggraziato.

Parco Naturale di Þingvellir

Il sole, leggermente rialzato sopra le creste dei monti all’orizzonte, irradia di caldi gialli le rocce e le piante erbacee e arbustive della landa. La strada da percorrere per visitare Þingvellir scende immediatamente all’interno della spaccatura creata dall’allontanamento delle due placche tettoniche, Nord-Americana ed Euroasiatica, e che, nei millenni, ha dato vita a un canyon di rarissima bellezza.

Þingvellir

Le rocce verticali si spaccano e si sfaldano su se stesse, sono due muri a secco di antica pietra che resiste al lento trascorrere del tempo e all’inesorabile spostamento delle terre sotto le loro radici.

Contrasti

La parete rocciosa rivolta al sole è quasi completamente glabra, mentre quella nascosta alla luce accoglie morbidosi cuscini di muschi grigiastri e verdognoli che si godono placidamente la pace del luogo.
Il silenzio è interrotto dai canti di numerosi uccelli che popolano questa solitaria mattina. Zompettano, svolazzano e gironzolano lungo il camminamento di terra e legno che si dirama sui verdeggianti prati acquarellati di giallo, viola e rosa del Parco Naturale Þingvellir.

Þingvellir

In uno squarcio del canyon si diparte una ragnatela di viottoli in terra battuta, sentieri, strade asfaltate e percorsi sopraelevati in legno che scavalcano i corsi d’acqua. La teoria di vie permette di raggiungere ogni angolo della valle da Silfra alla Cascata Oxarafoss, da un parcheggio all’altro, a tutto il parco nel suo insieme.
Silfra è il mio primario interesse, anche se sono consapevole di non poter tuffarmi nelle sue acque cristalline, purtroppo non avevo modo di organizzarmi per questa escursione. Qui i turisti possono immergersi, armati di muta e bombole, per ammirare lo staccarsi delle due placche tettoniche, il tutto completamenti avvolti nell’acqua limpida pari a quelle dei mari caraibici. Per mia sfortuna, se tale si può definire, il sole del primo mattino non illumina la stretta laguna e quindi mi ritrovo ad ammirare un cupo crepaccio anziché una caraibica fenditura. Rimando di qualche ora, tempo di gironzolare per il parco e tornare nella speranza che lo spettacolo si tinga di arcobaleno quando baciato dai raggi solari.
Circumnavigo diversi laghetti e stagni con acqua purissima e arricchiti da isolette completamente conquistate dalla vegetazione avida di terre asciutte da radicare.

Parco Naturale di Þingvellir

Circumnavigo diversi laghetti e stagni con acqua purissima e arricchiti da isolette completamente conquistate dalla vegetazione avida di terre asciutte da radicare.

La laguna di Þingvellir

Prendo stradine a caso nella speranza di scoprire chicche o angoli fotograficamente interessanti o seguo le indicazioni verso le attrazioni principali quando ho bisogno di navigare verso un porto sicuro.
La tappa successiva è la Cascata Oxarafoss, un flusso costante di acqua scrosciante che salta da un’altezza di una decina di metri e si infrange sui massi sottostanti in una nuvola di finissime particelle che si vengono disperse dal vento che soffia nel canyon.

Cascata Oxarafoss

Il fiume segue poi la strada fra le antiche mura di roccia fino a deviare verso sinistra in un punto dove la muraglia diventa inesistente. Con brevi e poco appariscenti salti, il Fiume Oxara segue il suo corso verso le placide acque del lago Þingvallavatn.
Concluso il mio circolo, provo a sbirciare nella fossa delle meraviglie, ma il destino mi rimanda a data da destinarsi; tutto dorme nell’ombra. Nel mio ragionamento non avevo considerato che il sole, nel suo arco celeste, si muove molto più lentamente alle latitudini islandesi rispetto a quelle italiane, e quindi come lo avevo lasciate è rimasto.
Col passare delle ore compaiono i primi turisti che fanno capolino sulla terrazza circolare, mentre i primi gruppi di subacquei si preparano per l’immersione. Gli uccellini non hanno cambiato le loro abitudini e continuano imperterriti a girovagare e a canticchiare.
Lascio questo affascinante parco con un arrivederci, ho ancora un ultimo tesoro da scoprire: Silfra. La Cascata Bruarfoss e la Cascata Midfoss sono la prossima meta, imposto il navigatore di Google Maps e mi immergo nelle strade dell’avventura e della libertà.
Il tragitto che mi separa da queste due poco conosciute cascate è relativamente breve e quasi non mi accorgo del tempo trascorso in auto.
Il cielo, nel frattempo, ha collezionato nuvolette sottili come carta velina e altre a forma di mandorla. L’azzurro non è più cristallino, ma presenta una finissima opalescenza. Il paesaggio mostra ogni genere di sfumatura fra colline e pianure, ogni tipologia di staccionata o rete metallica per contenere pecore, cavalli o vacche al pascolo, ogni genere di combinazione floreale fra il bianco e il giallo, e tra il giallo e il viola.
Lungo la via non incontro dettagli entusiasmanti che catturano l’attenzione, verso Sud è una landa desolata che si perde fino ai limiti dell’infinito dove cielo e terra si fondono all’unisono, mentre nell’entroterra basse colline dormono placidamente riscaldate da una leggera copertina di erbacea.
Al comando del navigatore interrompo la mia corsa sull’asfaltato e cambio direzione, seguo la via sulla sinistra e solco una strada sterrata che si tuffa nella macchia. In un batter d’occhio mi trovo in un labirinto di altre stradine dissestate che portano alle rispettive casette di villeggiatura; il navigatore non sa più che pesci pigliare. Decido quindi di lasciare la macchina in una baia riparata e nuoto lungo correnti tranquille che, a naso, dovrebbero portarmi verso il fluire dell’acqua scrosciante. Dopo diversi tentativi a vuoto e cambi di rotta, resto con un pugno di mosto senza una meta da ammirare. Chissà dove sono le due cascate, non riesco a capire dove risiede l’errore, ma sfortunatamente non ho altre soluzioni all’infuori della rinuncia. Non voglio perdere ulteriore tempo nella ricerca di qualcosa disperso chissà dove, riprendo la mia caravella impolverata e spiego nuovamente le vele alla conquista dei nuove tappe.
Geysir è a soli quindici minuti di distanza. Lascio l’auto impastoiata assieme alla mandria di sue simili e, attrezzatura fotografica in spalla, muovo nuovi passi verso affascinanti scoperte. Oltrepassato l’ingresso principale, la stradina terrosa porta i miei occhi verso Strokkur, geyser molto attivo, passando dapprima accanto a pozze ribollenti di acqua fumante e a tondeggianti incavi grandi e piccini dai quali fuoriesce costantemente vapore acqueo dalle delicate fragranze solforose.

Una ribollente pozza
Litli Geysir

Strokkur, al contrario dei cuginetti, è una piscina ampia e di forma irregolare sulla quale aleggia un misterioso alone di acqua sospesa nell’etere che congela il fiato nella trepidante attesa che separa il silenzio vaporoso in un’esplosione scintillante di forza e magnificenza. I turisti fanno il girotondo circumnavigando cerchio di gorgogliante liquido acquoso: chi in piedi, chi in ginocchio e chi seduto, tutti in attesa di guardare, fotografare, osservare, filmare o ammirare questa geniale opera d’arte ideata dalla mente estrosa della natura. Il diavoletto vulcanico si fa attendere quanto basta per alzare la tensione dell’attesa e, quando meno te lo aspetti ,si scatena facendoti prendere uno spavento con la sua repentina bellezza, violenza e altezzosità. Osservarlo una volta non è sufficiente a carpirne i segreti, nemmeno le sei o sette volte a seguire. Ogni esplosione di gas e acqua è un’esperienza differente, ognuna è splendore e gioia per gli occhi.

Strokkur

Assaporo ogni angolo di questa terra marziana fotografando i colori contrastanti che ne caratterizzano la superficie: i gialli dello zolfo, l’azzurro delle limpide acque, i grigi e gli ocra della nuda terra, i verdi delle sparute pianticelle che crescono rade e i verdi dei prati che racchiudono questo paradiso infernale, i rosa di cuscinetti fioriti soffici alla vista e i gialli di energici fiori che stagliano sopra gli alti fili d’erba dell’intorno.
Saluto questa terra marziana per tornare a poggiare i piedi sulla terra. Nel negozietto di alimentari del centro turistico acquisto lo Skyr: yogurt islandese leggermente acidulo nella versione classica, denso e morbido in tutte le versioni, poco zuccherato o aromatizzato dal mirtillo alla banana, dalla stracciatella al caramello, frutti di bosco e vaniglia compresi.
Sono solo e solamente a mezzodì del primo giorno, mi sembra di essere in viaggio da una vita intera. La stanchezza non è scritta nero su bianco, ma iniziano a germogliare i primi semi di offuscamento.
La Cascata Gullfoss è la prossima meta, la distanza è breve e in breve arrivo al parcheggio che sovrasta la cascata. Alla vista si apre un’impressionante spettacolo di un’immane massa di acqua spumeggiante che con tutta la sua inimmaginabile potenza si tuffa nella gola tagliata da migliaia di anni di duro lavoro.

Cascata Gullfoss

Dal parcheggio si può avere un’idea del numero di turisti che le formicolano attorno, ma la concretezza del numero è tangibile solamente all’affacciarsi dal balcone roccioso che sovrasta tutti e tutto.

Cascata Gullfoss

Tantissime formichine vanno e vengono dal parcheggio fino alla terrazza a livello della cascata passando in uno stretto sentiero in cui le folate di aria, risalenti la forra, sbuffano miliardi di goccioline e goccioloni su per la cascata inondando i presenti. Tutti fradici, chi più chi meno, tutti assaporano nel passaggio di andata o di ritorno, o entrambe, una tonificante doccia ghiacciata.
La giornata non è ancora terminata in quanto ho altre cascate e luoghi per riempirmi il cuore di nuove emozioni, ma prima devo pensare a un passo alla volta altrimenti rischio di fare indigestione anzitempo. Mentre mi dirigo verso la Cascata Hjalparfoss mi imbatto in un fiume dal colore latte e menta, opaco, lento nel fluire come denso miele che fuoriesce da un vasetto. Al parcheggio, la scritta Hrunamannhrepp, di illuminante comprensione, dà il nome alla zona in cui mi trovo e Hvita, di più oscura comprensione, al fiume lattiginoso. Un sentiero dirige la mia attenzione alle rocce scure che svettano a poca distanza, gobbi ammassi rocciosi che racchiudono il corso d’acqua formando un canyon dalle bizzarre forme e strutture amorfe. Le pareti sono costituite da palagonite al cui interno sono inglobate, incastonate e cementificate innumerevoli rocce di basalto dalle svariate dimensioni; sembrano teste bitorzolute di antichi golem pietrificati dalla luce solare.

Bruarhlod

È uno spettacolo sorprendente nella sua semplicità, ma i contrasti fra i colori tenui dell’acqua e le levigate forme foruncolose danno vita a un ambiente straordinario. Il canyon, conosciuto col nome Bruarhlod, è lungo una decina di chilometri e, da quanto evinco dal cartello informativo, è possibile percorrerlo in rafting; interessante proposta per un futuro viaggio.

Bruarhlod

La scoperta dell’Islanda prosegue verso la doppia Cascata Hjalparfoss.
Addentrandomi nell’entroterra brullo e selvaggio, la vegetazione si riduce a sparute comparse basse e minimaliste, la roccia e i suoi colori diventano elementi maggiormente caratterizzanti, i fiori sono oramai rare entità che impreziosiscono queste terre spazzate dai venti.
Presso il parcheggio della Cascata Hjalparfoss parte un corto sentiero in discesa che termina in un terrazzino in assi di legno chiaro, questo è affacciato sull’anfiteatro basaltico che accerchia l’ansa del fiume ove le limpide acque gemelle si tuffano. Il terrazzo e lo pseudo laghetto sono separati da un declivio di tondeggianti massi e sassi dalle tinte color pantegana, la cerchia teatrale è divisa in una metà di solida roccia tubolare (dove le forme delle nere venature creano disegni astratti che contrastano con il monotono fluire delle acque sottostanti) e in un’altra metà di ghiaiosa roccia friabile e franabile (chiazzata come il manto di una giraffa da cuscini rosati dai toni saturi e da macchie di lupini con le loro screziature viola-pannose).

Cascata Hjalparfoss
Falesie nei pressi della cascata Cascata Hjalparfoss

Giro e rigiro, fotografo e ammiro, e la stanchezza prende definitivamente il sopravvento. Mi concedo una mezz’oretta di meritato riposo dalla notte insonne passata in volo, dalle oramai centinaia di chilometri solcati e dalle diverse ore alla guida, senza tralasciare lo stordimento che il vento regala sempre dopo ore sotto le sue amorevoli carezze. Spengo il cervello non appena mi sdraio sulla panchina di candidi listelli legnosi, in lontananza il fruscio del fiume culla i miei sogni. I minuti corrono troppo rapidamente e non mi concedono una ripresa decente, rintronato ritorno al mio veicolo lasciandomi alle spalle la cateratta gemella.
Prima di concludere la giornata con la Cascata Pjofafoss, non sono molto sicuro se andare diretto fino alla meta finale oppure fermarmi alla Cascata GjainfosCascata GjarfossCascata Granni e Cascata Haifoss; tutte e quattro sono molto interessanti, ma ho paura di non reggere per la stanchezza. Imposto il navigatore per la Cascata Pjofafoss per non tirarmi il collo, le due coppie di cascate le rimando al prossimo viaggio pur sapendo di rinunciare a quattro acquosi gioielli.
La strada mi porta in un territorio aspro e ostile, solo qualche erbacea resiste a denti stretti. Il resto è sassi, sabbia, roccia, ghiaia e ancora ghiaia, roccia, sabbia e sassi. L’orizzonte sembra non avere fine se non le lontane montagne che creano una cornice dura e coriacea. I pochi segni antropici sono la strada, alcuni escavatori a riposo dal duro lavoro di rubare la roccia a questo mondo arido, un paio di camion ricolmi di ghiaia e sabbia che corrono su polverose piste, e le esigue auto e fuoristrada dirette verso ignote mete. I chilometri si susseguono in rapida successione sotto le ruote dell’auto e, lentamente, davanti ai miei occhi, la monotonia di questo paesaggio marziano prende forma in un’armoniosa meraviglia di screziature ocra e grigie, morbide linee e dure geometrie. Lascio la comoda strada asfaltata per una sterrata; dapprima sembra abbastanza comoda e fattibile, ma ben presto si tramuta in una sconnessa via simile al susseguirsi di centinaia di migliaia di infinite piccole onde che continuano senza fine verso l’infinito. Non riesco a viaggiare a una velocità superiore ai 30-40km/h, il tempo si dilata non ponendosi limite alcuno, la tortura è massacrante; trascorrere un’ora in un frullatore è più piacevole. Mentre il veicolo sobbalza a ogni cresta e ventre delle onde, i fuoristrada mi sorpassano lasciandomi completamente avvolto da impenetrabili nebbie di polvere. Si allontanano velocemente e in lontananza si notano le loro scie fumose come carovane nel deserto; in effetti questo luogo è molto simile a un deserto.
Nei pressi della Cascata Pjofafoss sono talmente esausto e stufo che decido di lasciarmi alle spalle il territorio di sassi e polvere, e andare spedito verso le prime mete del giorno seguente: Cascata Seljalandsfoss e Cascata Gljufrabui.

Vulcano Hekla

Altri chilometri si mettono in coda ai precedenti e altre ore ruotano con le lancette del tempo. Le terre si trasformano per rinascere a nuova vita, più fresca e rigogliosa, verdeggiante, fiorita e satura di colori. Cavalli e pecore sono i protagonisti: i primi al gelato con gusto nocciola, liquirizia e talvolta color fiordilatte, le seconde mi ricordano lo yogurt e il cioccolato fondente, talvolta la stracciatella o in rare occasioni al gusto caffè. I cavalli, in gruppetti di cinque o sette individui, si mordicchiano i colli, guardano i compagni o osservano il passaggio dei veicoli motorizzati attraverso i loro grossi occhioni scuri, o fanno danzare le criniere al vento come dive di Hollywood. Le pecore, invece, le trovi sempre a coppie o in trio, molto di rado in quattro o più. Loro preferiscono brucare, brucare, brucare, godersi il morbido prato per riposare la soffice lana stanca dalle lunghissime giornate lavorative, o per ruminare; oppure quelle che, brucando a bordo strada, prediligono il brivido del pericolo: spiluccano l’erba, guardano il mezzo su ruote che si avvicina in velocità con occhi vacui e privi di emozioni, per poi tornare a spiluccare l’erba; tale è la loro tranquillità che mi viene da pensare a una loro apatia emozionale del brivido, quasi fosse diventato una noia.
Sulla Strada n.1Ring Road o Route 1, riesco a vedere una lontana parvenza di Oceano Atlantico, se non fosse che terra, acqua e cielo tendono a fondersi con troppa facilità e quindi diventa difficile ammirare l’orizzonte.
La pianura riesce comunque a regalare spettacoli: curva dopo curva, rettilineo dopo rettilineo, la fine della terra diventa sempre più concreta profilando un muro di scura roccia, compatta, spruzzata di smeraldo e solcata da una luminescente lama d’acqua; inizio a pregustarmi lo spettacolo che mi attende.
Prendo la strada che si dirama a sinistra e, all’avvicinarmi alla meta, la Cascata Seljalandsfoss si manifesta in tutta la sua magnificenza.
L’auto rimane nel parcheggio, mentre le mie gambe portano i miei occhi ad ammirarne la bellezza capace in un attimo di cancellare qualsiasi tipo di stanchezza. Un muro di roccia, spruzzato di erba e muschio, si innalza verticale dalla pianura sottostante come un’imponente muraglia di un mastodontico castello. Dal culmine lineare si lancia nel vuoto un candido fiume che si libra nel vento irradiando goccioline di umidità in tutto l’intorno. Al limitare inferiore, nasce un ruscelletto tranquillo e beato che serpeggia nel prato; tanta maestosità prima, tanta placidità dopo. Nel cuore della cascata, nel suo ventre fra roccia e acqua, si insinua un sentiero che inonda i turisti da vaporosi scrosci di pioggia.
La sera è molto luminosa, le nuvole celano completamente il sole che non ha intenzione alcuna di tramontare e la grigia luce si diffonde sul paesaggio annullando i contrasti; mi godo il concludersi della mia prima giornata in terra islandese.
Mi allontano dal parcheggio e posiziono l’auto in una piazzola lontana dagli altri turisti, mentre la zuppa di cereali e legumi cuoce al riparo dell’auto dal teso venticello, in macchina mi preparo per la notte mentre riordino pensieri ed emozioni, immagini e colori, di una vacanza che si preannuncia un continuo spettacolo.
Calo la mascherina sugli occhi e il buio immaginario mi fa sognare nuovi orizzonti.


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