Luglio 2017, destinazione Islanda
L’Islanda è un’isola dalle meraviglie naturali che negli ultimi anni sono diventate famose grazie a stupende fotografie e filmati. È una terra che sorprende e non delude, è un universo di luoghi dalla bellezza disarmante. Seppur sapendo esattamente cosa avrei incontrato, la realtà è ben lontana da quello che pensiamo di trovare e visitare. Ogni singola sfaccettatura è sorpresa, spettacolo, meraviglia. Ho scoperto posti famosissimi che toccandoli con mano si sono trasformati in luoghi mai visti; come se le immagini digitali, impresse nella mia mente prima del viaggio, diventassero immediatamente una scialba rappresentazione della loro bellezza. Raccontare l’Islanda in poche parole è impossibile, bisogna viverla almeno per una volta nella vita, ma sono certo che al vostro ritorno sentirete l’irrefrenabile voglia di tornarci un’altra volta, ma anche una terza, se non addirittura una quarta o quinta… o sesta… Il “mal d’Islanda” è sinonimo di “mal d’Africa”, penso possa bastare come descrizione.
GIORNO 2
(Seljalandsfoss – Seljavallalaug)
Sono le 4:00 di mattina. La sveglia suonerà presto in questi giorni per spremere ogni goccia di meraviglia da questo mio breve viaggio. A casa sono abituato ad alzarmi alle 5, quindi svegliarmi a orari insoliti non è propriamente difficoltoso. Meno di 9 giorni non bastano per vivere l’Islanda al meglio, ma quest’anno è tutto quello che sono riuscito a organizzare, quindi la levataccia è d’obbligo.
Il cielo cupo è pesante, sembra schiacciarmi con la sua greve incombenza; le previsioni meteorologiche davano pioggia e l’impressione è identica.
Mi preparo rapidamente per la giornata che mi aspetta, colazione fugace, auto accesa e torno al parcheggio.
Lascio il mezzo di locomozione e prendo un sentiero di terra battuta che taglia un prato punteggiato di viola e di giallo fino a portarmi nei pressi della Cascata Seljalandsfoss.
L’acqua precipita dalla cima del dirupo ed esplode sulle rocce sottostanti librando nell’aria nubi di microparticelle che si disperdono nell’etere. Dietro l’acqua in caduta libera si apre una vasta grotta scura e ombrosa che abbraccia il getto della cascata. Chi è desideroso di una rigenerante doccia è pregato di proseguire lungo il sentiero che porta nel buio anfratto, qui l’arte della natura avvampa in tutta la sua bellezza dirompente: i suoni di acqua su roccia, di aria nell’acqua e di aria fra le rocce, di profumi di acqua e di roccia bagnata, di muschio e di terra umida, di calori e colori, di freddo e di grigio, di gelo e di nero, di brividi e di emozioni.
Cedo la cascata all’ammirazione di altri turisti mattinieri e mi dirigo verso la sua vicina, la Cascata Gljufrabui, seguendo un sentiero che corre parallelo alle fondamenta della bastionata rocciosa.
Della cascata si nota solo l’ingresso e l’uscita, il resto è totalmente nascosto da sguardi indiscreti dietro un paravento di spessa roccia vulcanica ammantata di piante erbacee. Anche qui, come per l’altra cascata, bisogna munirsi di paperella gialla in gomma, shampoo e bagnoschiuma, nonché di ciabatte o infradito; il bagnetto è assicurato sia per piedi che per il corpo. Si entra in una grotta percorsa dal ruscello nato dalla cascata e, saltellando di sasso in sasso, si arriva ai piedi del salto d’acqua. Dalla luce del giorno si entra nelle tenebre della notte e in un attimo si apre il cielo sopra i miei occhi, acqua e luce si fondono mentre piovono dall’alto. Lo spettacolo è unico, la maestria della natura lascia senza fiato nel dare vita a opere di tale ingegno e stupendevolezza.
Torno all’esterno e salgo il viscido sentiero che rampa fin sopra la spaccatura circolare nella roccia in cui la cascata opera la sua scintillante magia. Da qui godo la visione artistica nella sua opposta duplicità; anche dall’alto è sorprendentemente bella.
Saluto i due gioielli tristi mentre mi allontano, anche il cielo si è intristito e, per solidarietà acquatica, piange finissime lacrime; questo è l’inizio dell’agonia.
Mi sposto verso la meta finale della seconda tappa: la Cascata Skogafoss e poi il trekking ad anello per ammirare le cascate minori del Fiume Skoga.
Lungo il tragitto decido di prendere una deviazione per raggiungere delle terme libere al pubblico non lontano dalla strada maestra, la Piscina termale Seljavallalaug; un’interessante deviazione nell’attesa che smetta di piovere.
I chilometri vengono cadenzati dal ritmico ondeggiare dei tergicristalli mentre cercano invano di asciugare il parabrezza, allo stesso tempo la pioggia smeriglia i vetri laterali dell’auto impedendomi di ammirare le alti parete ombrose alla mia sinistra e l’infinito alla mia destra.
Al corrispettivo bivio, prendo la strada mancina per seguirla lungo tutta la sua lunghezza. La via secondaria diviene ben presto sterrata, dapprima senza tante buche e pochi scossoni, poi le conchette allagate si fanno più numerose e i saltellamenti aggraziatissimi dell’auto aumentano di conseguenza; comunque sia è una strada sterrata fattibilissima con un veicolo normale.
Al parcheggio trovo diverse auto e camper, lascio il mio mezzo fra un fuoristrada e un furgone, e pedino le persone che prendono un sentiero non segnalato, ma ben tracciato, verso una valle selvaggia.
Non serve fare molti passi che la pioggerella finissima si tramuta in goccioloni; infastidito dal cambiamento repentino, torno alla macchina per recuperare la mantellona rosso fuoco.
Il sentiero percorre l’ampio letto del torrente, questo scorre gioiosamente a pochi metri di distanza. Ovunque vi è una profusione di fiori viola, bianchi, gialli, arancioni, rossi e porpora; non li conosco, ma papaveri e lupini sono facili da notare. La stretta via sassosa di nero dipinta dapprima oltrepassa un rigoletto d’acqua, poi risale in costa il versante sinistro della valle e continua con brevi saliscendi fino a giungere alla piscina fra i monti.
Nell’acqua fumante galleggiano diverse teste bionde, more o castane, femminili e maschili; le osservo mentre si godono le fredde lacrime del cielo che picchiettano il pelo d’acqua.
Torno all’auto, ora la pioggia è decisamente insistente; colgo l’occasione per prendere l’asciugamani che per distrazione ho lasciato in auto. Cammino accerchiato da fiori e sorvegliato dall’alto da troneggianti baluardi di roccia scura, tenebrose forme di orchi arcigni che si fondono con le vellutate basse nebbie.

Fra un passo e quello successivo mi accorgo di un fiore rosa, mi ricorda un’orchidea spontanea, mi avvicino e… è un’orchidea islandese! Sono felice come un bambino davanti all’albero di Natale il 25 Dicembre; la guardo con ammirazione e stupore. Nemmeno a farlo apposta e, a pochi passi di distanza, ne scorgo una simile, ma dalla colorazione più violacea. Nemmeno a farlo apposta e, a pochi passi di distanza, ne scorgo un’altra diversa, più minuta e verdognola, coi boccioli leggermente aperti. Sono felice come una Pasqua il giorno di Natale. Mi riprometto che, quando ripasserò per andare a sguazzare nella piscina termale, mi porterò la reflex per immortalare queste tre delizie, delizie ai miei occhi.
Giungo all’auto sotto una fitta pioggia. Rimando le orchidee e di conseguenza il bagno, decido infine di concedermi un paio di ore di riposo. Necessito ardentemente di recuperare tutto il sonno dimenticato fra le stelle sopra un oceano di acqua e terre (durante le quattro ore di volo non ho chiuso occhio). Inoltre, fra un pisolo e l’altro, mi porto avanti scrivendo gli appunti di viaggio; un ottimo modo per anticipare il lavoro che mi attenderà a casa: questo scritto.
Trascorro diverse ore nell’attesa che la pioggia battente smetta o, almeno, che diminuisca di intensità; ma niente di tutto questo.
Nel tardo pomeriggio la maggior parte dei mezzi a quattro ruote ha lasciato posto a un selciato di cupi sassi e nera sabbia. La pioggia nel frattempo si è trasformata in aghi acquosi. Metto il costume e, asciugamano sotto la giacca a vento e reflex in mano, mi dirigo verso la piscina con vista sulla selvaggia valle.
Delle tre orchidee spontanee ne trovo una sola, quella violacea è svanita e non avendola come punto di riferimento non riesco a trovare quella verde che, ovviamente, non è facile da individuare in un prato; dannato/a turista che l’ha colta. Con l’amaro in bocca mi rallegro immortalando la rosata maculata di viola e sfumata di perla (Dactylorhiza maculata ssp. islandica); questa, a differenza delle altre, cresce in abbondanza in questo piccolo paradiso sperduto; sceglierne una diventa difficoltoso, quale sarà la più bella del reame?

Avvicinandomi alle terme, le basse nuvole sono risalite leggermente lungo i versanti lasciando intravedere due serie di cascate che, in sequenze di cinque o sei balzi, scendono dai pendii lungo profonde rughe intagliate nella dura roccia. Il paesaggio è magico. La piscina rettangolare è appollaiata sul basamento del versante sinistro della valle, le sue mura chiare stagliano con la sua acqua scura e le scure rocce tutt’attorno. Gli smeraldini prati che ammantano i pendii sono screziati da gialli e viola, e punteggiati da sparuti cespugliotti lanuginosi neri e bianchi che placidamente brucano l’erba. Il torrente gorgheggia sul fondo e saltella di sasso in masso con spumeggiante libertà. Sopra tutto e tutti un tetto dalle più svariate sfumature di grigio. L’aria è frizzante e briosa con una nota umida dal sentore di erba e di muschio, di roccia bagnata e di pioggia.

Accanto alla piscina c’è una biancastra casettina adibita a spogliatoi nella quale diversi appendini tengono indumenti e zaini ben lontani dal pavimento bagnato e terroso, sporco e sudicio di chi non ha rispetto. Mi tuffo in acqua senza saggiarla e…non è così calda, anzi è tiepidina in superficie e gelida sul fondo. Cercando di nuotare mantenendo ogni mia singola parte del corpo a una profondità non superiore ai 40cm, mi dirigo verso il lato opposto dove una decina di foche bipedi sono quasi ammassate per godere della temperatura maggiore nel punto in cui entra l’acqua termale. Per temperatura maggiore intendo 2-3°C in più, forse anche meno. Diciamoci la verità, il calore aumenterà in modo non considerevole, quindi forse più piacevole, ma in quel punto la profondità della vasca è maggiore e il freddo è considerevolmente congelante, quindi per sopravvivere all’ipotermia delle gambe è d’obbligo galleggiare in superficie. Il morto non mi viene così bene in acqua dolce, ma è la soluzione migliore per assorbire più tepore possibile e godermi un’altra massiccia dose di relax.
Nella mia mente turbina il pensiero del congelamento all’uscita dall’acqua calda, immagino un forte contrasto fra l’aria e l’acqua, la brezza e la pioggerella avranno una temperatura sicuramente inferiore a 15°C. In verità vi dico, lo sbalzo si rivela minimo e non rischio di ghiacciare come il mio incubo preannunciava.
Asciugato e rivestito, torno all’auto salutando questo posto incantevole, magico e stupendo. Ammiro nuovamente ogni angolo di questa valle magica, incantevole, selvaggia e quasi incontaminata. È rilassante la sua vista quanto il silenzio che la impregna, solo il torrente ne rompe la quiete, ma anch’esso ne allieta la tranquillità arricchendola in un armonioso concerto.

Nei pressi del parcheggio, girovago fra le rigogliose erbacee alla ricerca di orchidee perdute o altre leccornie per i miei occhi; è sempre interessante gironzolare senza meta per scoprire una chissà quale cosa che mi dipinga il sorriso sul volto. Fra lupini, papaveri gialli o aranciati, saponarie rosè, incontro altre orchidee rosa-violacee e bianche; da una prima occhiata sembrano poche, ma aguzzando la vista si moltiplicano a dismisura.


Al parcheggio la mia auto è in compagnia di altre due che, in pochi minuti, vengono recuperate dagli ultimi nuotatori.
Resto solo in un paradiso solitario.
La seconda giornata è oramai volta al termine, la calante luminosità del cielo è più cupa grazie all’impenetrabile coltre umida che nasconde le montagne.
Ristorato lo stomaco, preparo il giaciglio e dedico un’oretta a leggere passi di avventure scritte da altri avventurieri in terre immaginarie.
Fuori torna a piovere, i vetri imperlati di rigonfie gocce vengono rigati dai rigoletti che scappano verso terra incalzati dalla gravità.
Saluto l’Islanda, mi addormento cullato dal ticchettio metallico della pioggia sull’auto e con gli occhi ricolmi delle semplici bellezze della natura.