Luglio 2017, destinazione Islanda
L’Islanda è un’isola dalle meraviglie naturali che negli ultimi anni sono diventate famose grazie a stupende fotografie e filmati. È una terra che sorprende e non delude, è un universo di luoghi dalla bellezza disarmante. Seppur sapendo esattamente cosa avrei incontrato, la realtà è ben lontana da quello che pensiamo di trovare e visitare. Ogni singola sfaccettatura è sorpresa, spettacolo, meraviglia. Ho scoperto posti famosissimi che toccandoli con mano si sono trasformati in luoghi mai visti; come se le immagini digitali, impresse nella mia mente prima del viaggio, diventassero immediatamente una scialba rappresentazione della loro bellezza. Raccontare l’Islanda in poche parole è impossibile, bisogna viverla almeno per una volta nella vita, ma sono certo che al vostro ritorno sentirete l’irrefrenabile voglia di tornarci un’altra volta, ma anche una terza, se non addirittura una quarta o quinta… o sesta… Il “mal d’Islanda” è sinonimo di “mal d’Africa”, penso possa bastare come descrizione.
GIORNO 3
(Seljavallalaug – Fjallsarlon)
Mi sveglio sperando nel bel tempo, non desidero il sole, desidero solo che non piova. Il cielo mi regala uno dono stupendo: cielo completamente grigio, ma niente pioggia.
Il tempo monello ha fatto saltare la visita alla Cascata Skogafoss e anche il trekking delle cascate, entrambe previsti per il secondo giorno. Quest’oggi, quindi, sono costretto ad accorpare la Cascata Skogafoss all’itinerario programmato. Non ho assolutamente intenzione di perdermi tale gioiello, sono conscio che questo imprevisto incrinerà la programmazione alterando le tempistiche, ma purtroppo questa è l’unica strada da prendere. Tale decisione mi regala la certezza quasi assoluta di saltare il lungo trekking previsto per il pomeriggio che, dalla Cascata Svartifoss, sale fino alla cima del monte Kristinartindar. Rimando entrambe le lunghe escursioni al prossimo viaggio: l’anello delle cascate del Fiume Skoga e l’anello Cascata Svartifoss, Kristinartindar, Skaftafellsjokull per ammirare la bellezza dell’immenso ghiacciaio. Nella mia programmazione islandese è previsto un terzo trekking, ovvero quello ad anello per raggiungere la Cascata Glymur, questo previsto per il penultimo giorno. Inizio a capire che l’Islanda è imprevedibilità sincera e schietta, e che qualsiasi impeccabile organizzazione può essere stravolta in un qualsiasi momento dal suo meteo volubile.
Dimentico queste mie preoccupazioni e le lascio al parcheggio in compagni di sabbia e sassi neri. La prima meta odierna non è tanto distante e la raggiungo in pochissimo tempo.
A sinistra della via maestra si ergono alti baluardi di scura roccia e prati smeraldini, il verde e i neri si intrecciano disordinatamente, nascono dalla piana e svettano fino a toccare le basse nubi biancastre. A destra, invece, la piana si estende verso lontani infiniti dove il cielo e l’oceano si fondono in un’unica entità, verdi a perdita d’occhio dalle innumerevoli screziature e sfumature di infinite tonalità.
Dalla Ring Road la bellezza della Cascata Skogafoss è disarmante, quando la vedi in lontananza non osi pensare a quanto ti emozionerà nel vederla da vicino.
Mollo l’auto per correre da lei, ha un richiamo così sensuale e ammaliante che la si potrebbe paragonare al canto di una sirena spiaggiata su uno scoglio vestito di alghe.
I turisti dormono come ghiri nella tendopoli arcobaleno, decine di tende di variopinte forme e dimensioni punteggiano il prato che divide il parcheggio dalla cateratta. Stesi su invisibili linee ondeggiano magliette, pantaloni e felpe, preghiere al vento come lung-ta tibetani.
Il silenzio è smorzato dal fruscio delicato del vento e dal lontano rombo della cascata. Colgo al volo il momento propizio per avere la cascata e il suo rombante canto tutto per me.
Le condizioni fotografiche sono ottime: vento leggerissimo, cielo coperto, cascata gonfia d’acqua, nessun turista.
Mi riempio gli occhi di lei: cade una frangia di capelli dalla fronte della ragazza, nel volo di decine e decine di metri l’acqua evolve, muta e si trasforma in spuma spessa e impetuosa per poi danzare in aria al suono del vento che la fa librare sulle nere rocce che la avvolgono, e risuonare poi di pioggia torrenziale e di tuoni temporaleschi nell’attimo in cui abbraccia le rocce sottostanti il suo vorticoso precipitare. Il fiume riprende il suo cammino lento e voluttuoso verso l’oceano, come se niente fosse mai accaduto.

Le condizioni fotografiche sono ottime: vento leggerissimo, cielo coperto, cascata gonfia d’acqua, nessun turista.
Mi riempio gli occhi di lei: cade una frangia di capelli dalla fronte della ragazza, nel volo di decine e decine di metri l’acqua evolve, muta e si trasforma in spuma spessa e impetuosa per poi danzare in aria al suono del vento che la fa librare sulle nere rocce che la avvolgono, e risuonare poi di pioggia torrenziale e di tuoni temporaleschi nell’attimo in cui abbraccia le rocce sottostanti il suo vorticoso precipitare. Il fiume riprende il suo cammino lento e voluttuoso verso l’oceano, come se niente fosse mai accaduto.

Un cancello in legno, posto nel punto panoramico appena sopra la cascata, definisce il confine fra il mondo meramente turistico e le terre selvagge, un portale verso l’ignoto interno di quest’isola che, minuto dopo minuto, si svela sempre più sorprendente.

Oltrepasso il varco decidendo simbolicamente di percorrere il trekking delle cascate. Mi accontento di uno, forse due chilometri su una stradina acciottolata e sassosa che sovrasta il versante orientale del canyon; il resto lo solcherò in un futuro viaggio.


La camminata è molto piacevole e di nessuna difficoltà, dedico qualche foto alle cascate minori, al canyon e, manco a farlo apposta, a una nuova orchidea spontanea (Pseudorchis albida ssp. straminea). Minuta e verdognola, insignificante ai più, si gode il paesaggio seduta su un morbido cuscino erboso.

Sogno un arrivederci a questa terra, a questo trekking, a tutte queste cascate. Sogno un arrivederci per futuri giorni che mi accompagneranno nel prossimo viaggio in Islanda.
Tornando al mio mezzo, mandrie di turisti sciamano in ogni dove affamati di selfie come locuste, il tutto senza manco guardare la cascata coi propri occhi, ma con i loro sguardi riflessi nello schermo dello smartphone o del tablet. Tempi moderni questi, tempi malati. Più trascorro il mio tempo a contatto coi turisti e più divento insofferente a questa imbecille disfunzione cerebrale che contagia morbosamente la mente degli idioti. Mi chiedo che senso abbia fare un viaggio in questa selvaggia terra con lo scopo unico di farsi autoscatti a raffica solo per mostrarli ad “amici” sui social network e sperare di raccattare “Mi piace” per caricarsi di autostima. Questo anziché vivere il mondo scolpendolo nelle proprie memorie. Senza dimenticare che almeno, e dico almeno, il 50% del paesaggio è oscurato da uno o più individui tecnologicamente avanzati che scimmiottano come estinti australopitechi.
Avanti tutta col viaggio, prossima tappa: promontorio Dyrholaey.
Metà mattino. Col passare delle ore il vento è aumentato di intensità e il grigio uniforme del cielo si è sfumato in un grigio maculato di azzurro fino a divenire un azzurro macchiato di grigio. L’asfalto scorre freneticamente sotto il roteare perpetuo delle ruote gommate, con esso i chilometri si sommano ai precedenti in una sosta senza fine. Le nuvole scivolano velocemente su un tappeto azzurro sferzato dal vento, sotto al loro naso la landa desolata muta lentamente col trascorrere del tempo.
Il promontorio si innalza dalla bassa costa irradiata dal sole e sferzata dal vento. Le sue scure, ocra e rossastre rocce vulcaniche contrastano coi tenui pastello del paesaggio.
La strada punta alla roccaforte rocciosa serpeggiando nella macchia islandese fra erbe filiformi e dune di sabbia con sfumature che variano dal topolino alla pantegana. Dapprima sale dolcemente, poi scala rapidamente il pendio fino al grigio parcheggio sassosamente dipinto.
I caldi raggi luminosi, quasi accecanti, lottano con la gelida brezza che soffia impetuosa dall’oceano e i gabbiani volteggiano leggiadri sulle onde del vento sghignazzando dei turisti imbacuccati e infagottati nei loro piumini. La scogliera precipita verticalmente sugli scogli schiaffeggiati dalle onde e i bassi fiori ondeggiano senza tanto scompiglio fra le butterate rocce immobili dai tempi che furono. Il promontorio è costantemente spazzato da un vento teso che porta con se i profumi dell’oceano e della libertà.
Poco lontano, la lunga spiaggia nera, conosciuta ai più col nome Reynisfjara, si perde verso un infinito delimitato dal promontorio opposto. I suoi neri si miscelano con le finissime particelle salate vaporizzate dalle onde che si lanciano sui sabbiosi neri di fine sabbia. Sotto il limite roccioso dell’infinito si notano infinitesimi minuscoli puntini umani che gironzolano sulla sua pelle ebano.

Dal parcheggio parte un sentiero che raggiunge il Faro di Dyrholaey, alla sua sinistra onde senza fine e un muro di pura roccia, alta e inespugnabile, mentre a destra le terre pianeggianti salgono fino a nascondersi nelle plumbee nubi che adombrano l’entroterra montano dalle inesistenti cime. Il faro è situato nella parte più elevata del promontorio dal quale gli occhi possono ingurgitare un favoloso panorama a trecentosessanta gradi.


Qui si lancia nel vuoto, per poi tuffarsi nelle fredde acque dell’Oceano Atlantico, un arco di pietra immenso che crea una cornice stupenda. Un’arcata la cui sommità, dai tenui verdi e bruni, è tagliata piattamente da lame di vento, le sue muraglie precipitano a strapiombo verso impetuose onde. La luce filtra da Oriente nella curvatura rocciosa accecando il manto acquoso che si infrange sugli scogli, la spuma risplende di bianco abbacinante come innumerevoli microscopici soli. I gabbiani, candidi puntini piumati, volano dai nidi verso il mare aperto senza darsi tregua, frecce scoccate da arcieri appostati nelle feritoie del loro castello verso invisibili nemici in arrivo da terre lontane; la roccia piange di bianco nei punti in cui i volatili hanno appollaiato i loro nidi, indelebili ferite guanose che si sciolgono sotto i sederini adorni di piume.



Davanti ai miei occhi volteggiano gabbiani, sterne e pulcinelle di mare che vanno e vengono dai loro panoramici nidi incastonati su inesistenti approdi di fortuna scovati lungo l’altura strapiombante. È uno spettacolo vederli piroettare con leggiadria nel vorticoso etere che mi schiaffeggia senza sosta. Mi è bastata un’ora in queste condizioni per sentirmi completamente frastornato; loro, invece, giocano tutta la vita nel loro elemento.
I pennuti più divertenti sono le pulcinelle di mare, sono goffamente aggraziate nel loro planare verso i nidi; i gabbiani sono più tecnici e professionali; le sterne, al contrario, sono dirette, veloci e fulminee. Non sono sicuro di poter avere altre occasioni per osservare le pulcinelle, quindi mi godo la scena in ogni suo fotogramma.

L’auto mi aspetta fra una moltitudine di tante altre sorelle più piccole e più grosse, altre le definirei mostruose come impolverati e incrostati dinosauri del Giurassico tolti dalla formaldeide.
Tornando verso la famosa Ring Road scorgo formazioni rocciose che mi fanno pensare a cenere cementata dai millenni e modellata dal vento nei secoli a seguire. Forme e disegni, strutture e costruzioni, onde e linee, parole nella roccia e voci nel vento.

Dalla parte opposta della chilometrica lingua di sabbia nera riprende il mio viaggio alla scoperta del promontorio che ospita la Grotta Halsanefshellir. La cavità naturale è un’ampia semisfera, una grigia volta celeste, un universo di stelle dalle forme geometriche squadrate e filiformi, un intrico di sculture basaltiche formatesi dal violento contatto fra l’incandescente lava e l’acqua gelida delle profondità marine, una tessitura di colonne incurvate le une sulle altre in un intrigante gioco di linee e volumi.


Il vento teso sferza le onde sulla nera sabbia e le schianta sull’arenile in una spumeggiante danza di acquose gonne lucenti che volteggiano liberando i colori arcobaleno dei loro tessuti, il sole ne illumina la trama e lo scintillio dei filamenti salati risplende in contrasto con i cupi colori dell’intorno.
A breve distanza, quasi a potersi toccare, severi monoliti neri (Reynisdrangur) svettano dalla oceaniche acque, sorvegliano i movimenti dei turisti e le loro effimere impronte lasciate nella sabbia.

Dedico qualche minuto alla creazione di ometti costituiti da sassi informi presi a caso dalla spiaggia, con sapiente studio di forme, pesi e baricentro, ne posiziono uno sopra l’altro cercando di realizzare equilibri precari di arte temporanea. Il mio intento conquista l’obiettivo in ben due casi: nella prima occasione ho alle mie spalle un nutrito stuolo di ammiratrici attempate che mi osserva con divertimento, tempo di scattare la foto ricordo e il forte vento mette il suo zampino facendolo collassare a terra, nato dal nulla torna a diventare nulla; la seconda creazione, al contrario, crolla nel tentativo di andare oltre il limite imposto da squilibrati equilibri, un sasso di troppo e l’ometto a forma di “A” si smaterializza fra i suoni della brezza tesa.

Estraniarmi per qualche minuto nella realizzazione delle mie piccole opere artistiche mi permette di allontanare vista, udito e mente dalla stupidaggine dei turisti che, purtroppo, non ha proprio limite. C’è chi si arrampica sulle colonne basaltiche per farsi il selfie più in alto degli altri, col rischio di cadere da altezze ben superiori ai due metri. C’è chi, per lo stesso mero obiettivo, si avvicina alle onde fregandosene bellamente di espliciti divieti, segnalazioni e ammonimenti che esprimono perentoriamente il pericolo delle onde e ne limitano immaginariamente la distanza da tenere (come se i morti dei mesi passati non fossero un monito abbastanza esplicito). C’è chi raccoglie tondeggianti sassi da portare a casa per dimenticarli poi in qualche scatola o a prendere polvere su qualche scaffale, polvere mai vista in vita loro perché spazzata dai venti e ora si andrà ad accumulare. C’è chi rincorre le gocce d’acqua che cadono dall’arco roccioso mostrando doti di innaturale bravura in danze grottesche o chi si piazza davanti alla tua macchina fotografica attendendo la venuta del messia mentre il loro neurone pensa a quale altra posa insulsa è da aggiungere al portfolio fotografico di se stessi. In tutto questo, mentre il mio singolo neurone sonnecchia cullato dal vento, mi pongo una domanda: ma non si stufano di vedersi in ogni foto nascondendo le meraviglie che hanno alle spalle? Migliaia di anni di evoluzione e l’uomo è riuscito, estremizzando, a conquistare Marte coi rover da una parte e ad ammazzarsi fra le onde dell’oceano alla ricerca del selfie perfetto da mettere su Instagram o similari dall’altra…
Finita la fase polemica, che mi accompagnerà in tutte le più turistiche tappe come un’ammorbante pestilenza, torno a macinare chilometri pensando alle bellezze passate e a quelle future.

Finita la fase polemica, che mi accompagnerà in tutte le più turistiche tappe come un’ammorbante pestilenza, torno a macinare chilometri pensando alle bellezze passate e a quelle future.
Frastornato dal vento, decido di concedermi una sosta ristoratrice presso Víkurskáli, ristorantino alla buona o meglio tavola calda, nella spensierata cittadina di Vik. Non mi aspetto nulla di eccelso, ma mi accontento anche di poco. La merenda, perché di questo si tratta, non consiste nelle torte messe in bella mostra, bensì in un piatto di calda zuppa di agnello e verdure varie, un piatto di fette di pane leggermente indurito da inzuppare nel brodo e una birra lager. La zuppa non sarà forse la più buona del mondo, sono più le verdure dell’agnello, forse sarà cara per quello che vale, ma poco importa; godo ogni cucchiaiata come se fosse l’ultima. È sempre bello concedersi questi sfizi quando si è sfiniti, si assaporano con maggior intensità.
Lascio Vik alle mie spalle, ora mi attende una marcia lunga e serrata fino alla Cascata Svartifoss.
Alla mia sinistra colline dolci e talvolta rugose si alternano in morbide onde verdeggianti, la nera roccia vulcanica intaglia la smeraldina monotonia cromatica con disegni e forme astratte. Alla mia destra la liscia piana di pascoli si perde nell’orizzonte in cui nasce il cielo, solo una sottilissima linea scura separa i due elementi, terra e aria, con una striscia d’acqua. Ai lati della strada la pianura è sfumata da tinte gialle, bianche e viola, talvolta anche di bianco ove le pecore brucano placidamente. Case, stalle e fattorie si incontrano di rado lungo la via, alcune sono prossime al selciato asfaltato, altre sono distanti e raggiungibili solo percorrendo tratti sterrati.
Il paesaggio cambia radicalmente raggiungendo il Mýrdalssandur, una distesa a perdita d’occhio di sedimenti vulcanici lasciati dalle inondazioni alluvionali del Ghiacciaio Mýrdalsjökull che, grazie al sotterraneo riscaldamento geotermico o ad esplosioni vulcaniche, produce un’immane quantità di acque di disgelo che portano verso l’Oceano Atlantico altrettanti immani quantità di detriti. Il paesaggio cambia radicalmente a sinistra, le colline lasciano spazio a una piana senza fine, la stessa piana che a destra si fonde con il cielo, a sinistra si fonde con eteree montagne. In queste immense distese di scura roccia, la vita lotta per conquistare nuova luce. Ogni muschio e lichene, anche il più insignificante, si avvinghia alla solida lava pur di impadronirsi della povera linfa vitale che offre questo ambiente. Cuscini di verde sbiadito sono morbidamente adagiati sulle amorfe rocce laviche come una soffice nevicata. Contrasti di colori pastello, di verdi sfumati di grigio coi duri, rugosi e butterati neri vulcanici.
La sosta per riposare mente e corpo casca a fagiolo presso la terra degli ometti in pietra: Laufskalavarde. Girovago fra montagnette sassose alte o basse, minute o cicciotte, graziose o distorte. La distesa che colleziona le piramidi è un ambiente affascinante nella sua semplicità: decine, se non centinaia, di omini informi punteggiano questo luogo delimitato da una pianura senza limiti, brulla e desolata, che termina solo in lontananza ai piedi di alte montagne ricoperte da ghiacci perenni; questa sua insolita bellezza rende questo posto incantato, forse magico. Fra le sottilissime nubi stiracchiate dal vento in quota penetrano caldi raggi di luce che intiepidiscono l’aria con toni giallo-aranciati.

I resti sparpagliati di un ometto mi spingono a lasciare la mia firma, un’impronta effimera di arte in equilibrio. Coi sette sassi a mia disposizione metto in posizione una pietra sopra l’altra, scelgo accuratamente la sequenza in base al peso, alla forma informe e al baricentro, per regalare lunga vita a questa mia opera in quanto vorrei farla vivere oltre a qualche misera ora. Andando avanti nel tempo di qualche giorno, in un futuro prossimo a oggi, andrò a scoprire nel gruppo “Amici dell’Islanda” su Facebook che, ben quattro giorni dopo il mio passaggio, un viaggiatore ha notato la mia opera verticale. Mi sono colmato di soddisfazione per l’ottimo lavoro svolto, mai un mio ometto è durato oltre un giorno; forse il luogo è davvero magico.

Riprendo la mia corsa all’oro islandese, o meglio ai diamanti incastonanti in questa terra unica.
La pianura alluvionale, ammantata di sofficiosi muschi, a volte lascia spazio a stretti corsi d’acqua che corrono docilmente verso il distante mare o ad ampi fiumi che si ramificano serpeggiando nella landa desolata; questi ultimi ne scavano lentamente il dorso per lasciare trasparire la friabile carne sassosa, ghiaiosa e sabbiosa celata sotto le pioniere piante islandesi. I volubili disegni astratti mutano a ogni disgelo, i solchi e le linee di fuga scavati dall’acqua tracciano nella terra essenziali linee artistiche di un’opera che non trova compimento se non nell’attimo in cui viene ammirata. I contrasti, di duri neri e sgretolabili grigi con le trasparenze fluide che scorrono imperturbabili, descrivono il tempo che fluisce in questa selvaggia terra.
Lasciando Mýrdalssandur il paesaggio cambia radicalmente a sinistra: la piana senza fine lascia spazio a colline dolci e talvolta rugose che si alternano in morbide onde verdeggianti, la nera roccia vulcanica intaglia la smeraldina monotonia cromatica con disegni e forme astratte. Alla mia destra la liscia piana di pascoli si perde nell’orizzonte in cui nasce il cielo, solo una sottilissima linea scura separa i due elementi, terra e aria, con una striscia di acqua. Ai lati della strada la pianura è sfumata da tinte gialle, bianche e viola, talvolta anche di bianco ove le pecore brucano placidamente. Case, stalle e fattorie si incontrano di rado lungo la via, alcune sono prossime al selciato asfaltato, altre sono distanti e raggiungibili solo percorrendo tratti sterrati.
Alcune volte la monotonia del paesaggio islandese può sembrare noiosa e ripetitiva, ripetitiva e noiosa, ma il suo fascino selvaggio nasconde sempre qualche sfumatura di emozione, quell’emozione che rende l’Islanda di un’armonia unica e seducente. È difficile, se non impossibile, descriverne lo splendore, non bastano le parole o le immagini, non sono sufficienti fantasiose elaborazioni letterarie o fotografie ritoccate al computer per esaltarne le bellezze, l’unico modo per avvicinarsi a carpirne l’anima è viverla toccandone l’aspra terra e respirandone la pura aria.
La lingua di nero asfalto tratteggiata da bianche linee intermittenti continua senza sosta verso mete remote da scoprire.
Giungo nei pressi del popoloso paese Kirkjubæjarklaustur, circa 120 anime, e scorgo la Cascata Systrafoss che scivola dalla cima dell’irta collina sulla quale il Lago Systravtn ne alimenta le acque. Dal finestrino dell’auto in corsa, ammiro le due lingue d’acqua spumeggiante che piombano al suolo dietro il centro abitato. Un misero boschetto di abeti dai verdi scuri, o tali mi sembrano, cinge il piccolo villaggio e ne separa le abitazioni dai rugosi pendii scoscesi dell’altura rocciosa.
Il paesaggio successivo assomiglia a quelli precedenti: colline erbose intagliate nella roccia vulcanica a destra e infinite lande desolate a sinistra, continua così per chilometri senza mai annoiare in quanto è continuamente in evoluzione, seppur minima, grazie ai giochi di luce e di ombre che si creano fra le nervature astratte delle colline, le nuvole e il sole.
Lungo la strada maestra si incontrano di rado abitazioni, stalle o edifici differenti, le forme e le dimensioni non sono mai uguali, simili forse, ma mai identiche. La caratteristica che le accomuna, senza distinzioni, sono il colore bianco delle pareti e il rosso dei tetti.
Foss á Síðu è il classico esempio di come l’affascinante monotonia del paesaggio viene impreziosita da deliziosi dettagli di splendore. La Cascata Foss á Síðu si lancia nel vuoto per un salto di decine di metri, dal piatto altopiano si libra per abbracciare il vento e scrosciare poi sulle dure rocce sottostanti. Il promontorio roccioso cresce verticale da antichi depositi di crolli o frane della sua struttura vulcanica, ora completamente ammantati da fitte erbe smeraldine. La costa della muraglia si erge in altezza come un castello medioevale lasciato al suo destino e ora rudere del suo passato glorioso.
I chilometri di asfalto continuano a susseguirsi portandomi al limitare della piana alluvionale di detriti vulcanici. Skeidararsandur è un’immane distesa di sabbia, un infinito deserto senza limiti, una pianura creata dalle possenti forze dell’acqua che modellano questa terra durante ogni inondazione. La brulla pianura non è mai uguale, mostra sfaccettature differenti che si alternano, si sostituiscono, si accavallano e si intrecciano: sabbia, muschi sofficiosi, rocce amorfe, corsi d’acqua, spiagge brune, desolazioni grigie e nere, ghiaioni senza fine e butterazioni scure intagliate da incivili segni di fuoristrada, prati scarni di erbe filiformi, cartelli stradali solitari o solitari cespugli dagli smorti verdi, abitazioni e stalle dove il terreno è più fertile, quieti torrentelli avvolti da piante palustri e fiumi impetuosi dalle gelatinose acque.
Il percorso della Ring Road si avvicina ad alcuni baluardi rocciosi, come Lómagnúpur, che si innalzano orgogliosamente sovrastando la landa desertica e mostrando la loro forza e tempra.
Avvicinandomi alla meta, il Ghiacciaio Vatnajökull schiaccia montagne e vulcani con la sua infinita mole e, come i tentacoli di una piovra, si allunga in ogni vallata, su ogni pendio e verso ogni vetta col suo rugoso biancore increspato da tinte azzurre, grigie, rosse o nere a seconda della roccia che ingloba lungo il suo lento e inesorabile passaggio.


Giungo presso l’info point di Svartifoss e sono indeciso se proseguire l’itinerario andando ad ammirare l’omonima cascata, trovare un posto dove mangiare e dormire, oppure lasciare questa meta al prossimo viaggio e, quindi, rimettermi in marcia fino alla Laguna Fjallsarlon dove mi fermerò per la notte. Decidere se fare le cose di corsa in un modo o rimandarle in un altro per farle con calma, è arduo e difficoltoso, ma puntare direttamente alla Laguna Fjallsarlon è la scelta migliore. Questa mia decisione mi permetterà di godermi il giorno successivo con più agio evitando di fare le corse pur di mettere una tacca sulla cintura.
Affamato e assonnato arrivo alla fine della giornata mollando l’auto nel parcheggio presso il Café Glacial Lagoon della laguna glaciale. Prima di pensare alla cena e al giaciglio, mi muovo verso il lago per anticipare quello che mi gusterò l’indomani.
Il cielo limpido irradia luce sugli irti pendii delle montagne, sui crepacci arcigni che si specchiano sulle quiete acque, sul pelo dell’acqua immobile come se fosse ghiacciata da tempo, sugli amorfi blocchi di ghiaccio che galleggiano placidamente nei pressi della riva, sui sassi, ciottoli e massi esplosi ovunque come una coperta che si perde a vista d’occhio, sulla morena glaciale che sigilla questo angolo di paradiso incontaminato dal resto del mondo.
Al riparo di una ruota preparo la zuppa cereali e legumi insaporita con un mix di spezie preparato ad hoc con tutto quello che offriva la mia etnica dispensa casalinga.
Gli ultimi turisti lasciano il parcheggio, siamo rimasti in pochi: io con la mia auto grigio tortora, un ragazzo con la sua quattroruote grigio balena e una coppia con il fuoristrada bianco dalle sfumature ocra e marroni. Tutti intenti a mangiucchiare qualcosa e prossimi a dormire sui comodissimi sedili.
Il cielo azzurro sfumato di arancio mi augura sogni d’oro mentre vengo cullato dal silenzio dell’immobile quiete serale.