Luglio 2017, destinazione Islanda
L’Islanda è un’isola dalle meraviglie naturali che negli ultimi anni sono diventate famose grazie a stupende fotografie e filmati. È una terra che sorprende e non delude, è un universo di luoghi dalla bellezza disarmante. Seppur sapendo esattamente cosa avrei incontrato, la realtà è ben lontana da quello che pensiamo di trovare e visitare. Ogni singola sfaccettatura è sorpresa, spettacolo, meraviglia. Ho scoperto posti famosissimi che toccandoli con mano si sono trasformati in luoghi mai visti; come se le immagini digitali, impresse nella mia mente prima del viaggio, diventassero immediatamente una scialba rappresentazione della loro bellezza. Raccontare l’Islanda in poche parole è impossibile, bisogna viverla almeno per una volta nella vita, ma sono certo che al vostro ritorno sentirete l’irrefrenabile voglia di tornarci un’altra volta, ma anche una terza, se non addirittura una quarta o quinta… o sesta… Il “mal d’Islanda” è sinonimo di “mal d’Africa”, penso possa bastare come descrizione.
GIORNO 8
(Djúpalónssandur – Kleifarvatn)
La sveglia strimpella nell’abitacolo e il silenzio echeggia oltre le mura della mia dimora. All’esterno sembra tutto immobile, tutto tace, nessun movimento o suono suggerisce che vi sia vita oltre il vetro appannato che filtra la mia visione verso l’ambiente desolato. L’aria è statica, quasi inesistente, solo la briosa temperatura riesce a farmi percepire la sua presenza solleticandomi la pelle del visto, l’unica parte scoperta del mio corpo.
Scendo lungo il sentiero serpentiforme che si insinua nella forra, raggiungo la spiaggia sassolosa di grigio su grigio dipinta e noto numerosi resti metallici che punteggiano la rena con le loro tonalità giallo-aranciate con sfumature ramate. Su un pannello informativo leggo la storia del relitto di un peschereccio che giace inerme all’interno di questa baia rocciosa. I suoi pezzi, dalle varie dimensioni e forme, rendono ancora più magico questo affascinante luogo.
Il vento si alza e torna impetuoso come il giorno precedente, perdincibaccolina!
Zompetto qua e là alla ricerca di spunti fotografici che immortalino i contrasti cromatici fra la roccia e il metallo, e le loro differenti forme. Mi avvicino alla riva per ammirare nuovi orizzonti o scoprire nuove chicche interessanti.


Le due opposte scogliere si guardano con alterigia mostrandosi superiori l’una all’altra, mi sovrastano con la loro imponente altezza oscura chiudendo il cielo in un varco poco ampio. Le rocce a strapiombo sono affascinanti e pericolose, anche le scogliere frastagliate che si protendono verso il mare con scogli amorfi e isolati mi attraggono inesorabilmente, vengono colpite duramente dai marosi che si infrangono sulla loro superficie rugosa.

Torno sui miei passi per scoprire, esattamente dietro la gola rocciosa, uno specchio d’acqua isolato, solitario nella sua quiete irreale. Il Promontorio Djúpalónssandur, la sua spiaggia, le sue scogliere e il laghetto sono uno splendore inaspettato; sono sempre più contento di cogliere le sfumature dell’Islanda cambiando itinerario in base a quello che incontro. Ho scoperto questo meraviglioso luogo tra gli spruzzi di acqua e le lame di vento che scuotono il mio viaggio.
Riprendo la via verso nuove mete, quindi nuove scoperte. Dopo qualche chilometro dalla partenza, lungo la strada maestra incontro l’indicazione Vatnshellir che mi incuriosisce, inserita la freccia dirigo il muso del mio destriero verso il ghiaioso parcheggio.
A poca distanza si trova un minuto edificio che funge da ufficio, all’esterno numerosi manifesti mostrano l’attrazione del luogo mentre all’interno tutto tace. L’orario di apertura per visitare il tunnel lavico dista ancora un’ora dalle lancette digitali del mio cellulare, torno in auto e dedico il tempo a disposizione per continuare a scrivere queste parole. L’attesa si assottiglia man mano arrivano auto, fuoristrada e furgoni camperizzati. In poco tempo i due parcheggi si riempiono di mezzi motorizzati e persone.
Seguo la coda di turisti, una quindicina, che si allunga dalla porta d’ingresso dell’ufficio di fortuna. Al mio turno striscio la carta di credito, indosso il caschetto di protezione e, torcia alla mano, raggiungo il gruppetto in attesa dell’ultimo di cordata.
In previsione di avere le mani libere per poter utilizzare la mirrorless, indosso sul caschetto la mia torcia frontale e quella in dotazione alla visita la tengo di scorta in caso di necessità. La giovane guida descrive brevemente quello che andremo a visitare e scherzosamente ci indirizza verso la scala a chiocciola che penetra nelle fredde e dure viscere del sottosuolo. Lasciamo il silenzio luminoso dell’ambiente esterno per entrare nel ventre della Terra: un luogo cieco, sordo e muto. Osservo dall’alto le luci vorticose e piroettanti dei visitatori che mi precedono mentre scalino dopo scalino scendo dall’infinita scalinata roteante.

Osservo dall’alto le luci vorticose e piroettanti dei visitatori che mi precedono mentre scalino dopo scalino scendo dall’infinita scalinata roteante. Le loro torce illuminano le pareti della lunga caverna alla ricerca di chissà quali cose sconosciute, la curiosità freme nelle mani che reggono i fasci luminosi come l’occhio indagatore di Sauron mentre è alla spasmodica ricerca del Portatore dell’Anello.

Camminiamo a singhiozzo fra una spiegazione seria e un’altra variopinta e divertente della nostra guida, si sbizzarrisce in descrizioni geologiche e storie fantastiche, le prime interessanti per capire l’origine del tunnel mentre le seconde simpatiche per condire il tutto con un pizzico di spensieratezza. Non chiedetemi il nome del ragazzo perché è andato nel dimenticatoio non appena l’ha pronunciato.
Ammiro formazioni di ogni genere e tipo, forme amorfe che disegnano mostri ancestrali congelati nel tempo o sciolti come neve al sole, colori che variano dal nero al rosso, dal viola al grigio. Al suo segnale spegniamo le luci e restiamo per un minuto, forse l’eternità intera, a guardare l’assoluta oscurità e ad ascoltare il silenzio abissale; il nulla. Nella vita quotidiana, che sia a casa o al lavoro o in ferie in qualsiasi posto sperduto della Terra, è praticamente impossibile arrivare a percepire l’assenza totale del mondo come in questo luogo. È un’esperienza a dir poco inimmaginabile e stupenda.
Il tour continua per un tempo indefinito, possono essere trascorsi venti minuti come due ore. Non ha importanza il tempo quando non serve calcolarlo, ma quando la guida ci avverte che la visita è finita ci rendiamo conto che sono passati solo 45 minuti.
Lasciamo il ventre della Terra immerso nell’oblio per uscire nell’ambiente esterno: un luogo plumbeo, rumoroso e fradicio. Il vento sferza impetuoso rovesciandoci addosso secchiate d’acqua ghiacciata dal sentore salmastro, siamo passati da un luogo calmo e inerme a un altro sciroccato e folle.
Il pensiero di ognuno è rivolto all’auto in attesa. Sbatacchiati e frustati come bandiere sul pennone durante una tempesta, ci fiondiamo nei nostri rifugi motorizzati. Sono completamente zuppo, fradicio fin nel midollo. Il riscaldamento emana un tiepido alito che lentamente mi dona calore. I finestrini sono appannati e faticano a far evaporare l’umidità che ho portato con me.
Cambiato con abiti asciutti mi rilasso osservando la bufera che si scarica sul mondo, i vestiti bagnati sono appesi qua e là nella macchina e la mia dimora assomiglia al campo di battaglia dopo il passaggio di un uragano.
Guardo le previsioni meteo che mi confermano quello che avevano predetto il giorno precedente: pioggia e vento a 20 m/s. In Islanda è necessario spirito di adattamento, di rinuncia e fiducia, di sopportazione, di spirito d’avventura e tanta spensieratezza, tutto per contrastare ogni minimo capriccio del cielo.
L’auto riprende a macinare altri chilometri, questa volta verso Sud in direzione della capitale islandese: Reykjavik. Dall’attuale situazione atmosferica non mi aspetto grandi possibilità per scoprire nuovi tesori, cedo il futuro della giornata alla provvidenza che in Islanda non smette mai di stupire; bisogna solo avere la capacità di cogliere i lati positivi di ogni attimo di cruda realtà di questo selvaggio territorio e spremerlo fino al midollo.
La volta celeste è cinerea, uniformemente priva di colori, solo le sfumature dei grigi dipingono il cielo con pennellate sospinte dal forte vento disegnando confuse linee, curve e spennellate sgraziate in una scarmigliata danza senza musica.
Oltrepasso Arnarstapi coi pensieri fra le nubi e gli occhi incollati sulla strada che mi precede. Nessun cartello attira la mia attenzione fino a quando incappo nell’esplicita indicazione nominata Rauðfeldsgjá. Inserisco la freccia e fermo l’auto in un parcheggio sterrato.
La mia attenzione non è cascata sull’immenso muraglione di roccia e erba smeraldina che si innalza verticalmente davanti alla mia vista, nemmeno la grossa fenditura oscura che ne solca il ventre come un glaciale crepaccio, bensì il semplice e facilmente comprensibile nome Rauðfeldsgjá.
Dal posteggio terroso si allunga, fino ai piedi della spaccatura, un ampio sentiero di terra e sassi battuto da decine di turisti con variopinti impermeabili o ombrelli. In questo angolo sperduto, la leggera brezza islandese ha cessato di frustare la terra lasciando nell’aria una quiete spettrale. Osservo il panorama attraverso il parabrezza rigato da lacrime di pioggia che scivolano delicatamente sulla sua trasparenza vitrea. Colorate sagome bipedi si muovono lungo la via sterrata in una confusione di silhouette amorfe, i loro contorni sono un’evoluzione continua di movimento e mutamento a seconda del lento scorrere delle goccioline sul vetro dell’auto.

Non immagino cosa possa incontrare nella forra, presumo la presenza di un ruscello, di acqua grondante dalle pareti bagnate dalle precipitazioni di questi giorni, e tanto umido. Scarponi, giacca impermeabile, combo di Fujifilm XT-2 e Fujifilm XF 23mm f/2 R WR (entrambe resistenti all’acqua) e mi inoltro verso una meta completamente sconosciuta. Avvicinandomi scorgo decine e decine di gabbiani in volo fra le pareti corrugate del bastione roccioso, piroettano schiamazzando da un nido all’altro, dalla falesia al cielo, dal cielo al mare, e di ritorno dal mare.
Il varco del canyon è largo un paio di metri, le sue pareti di nera roccia vulcanica salgono verticalmente verso le nubi in un intrico di oscure malformazioni illuminate dalla rada luce che riesce a penetrare nella stretta fenditura. Il sassoso sentiero costeggia un allegro ruscello che saltella fra massi e ghiaia per una decina di metri all’interno del ventre islandese, oltre è necessario munirsi di coraggio, un pizzico di follia e una dose di vena arrampicatoria.

Mi inerpico sulle alte rocce dalle prese ruvide come carta vetrata, nemmeno l’intensa umidità adagiata sulla pietra rischia di farmi scivolare l’appoggio del piede o la presa della mano. I turisti mi osservano e cercano invano di imitarmi, ma riescono nel loro intento mettendo in ammollo scarpe e scarponi. I più temerari arrivano fino a un salto di due metri di dura roccia, oltre, forse cinque metri o più, vi è una rigogliosa cascata alta un paio di metri che ostacola il cammino. Superabile, inzuppandosi completamente dalla testa ai piedi, tramite l’ausilio di una spessa corda che corre parallela al torrente. Disarrampico e torno verso il salto dove mi attende un’impaziente coppia di ragazzi canadesi, loro in fremente attesa per un mio ignaro aiuto necessario a oltrepassare lo sbarramento. Segue una breve spiegazione di cosa li attende e di come affrontare la bassa parete, e li saluto lasciandoli al loro incosciente destino.
In auto la seconda colazione, o forse terza, oramai sono sempre più in balia del mio stomaco che del tempo.

In auto la seconda colazione, o forse terza, oramai sono sempre più in balia del mio stomaco che del tempo.
Torno alla guida e proseguo la mia marcia serrata in direzione Sud.
La mia mente contorta cerca in tutti i modi di disegnare un itinerario improvvisato tra terme disperse chissà dove, cascate o altro. Invano, senza risultato alcuno, cerco di incrociare un fantomatico cartello che mi indichi la calda pozza chiamata Landbrotalaug, ma la mia vista non scorge niente che possa aiutarmi. Scoraggiato, continuo a veleggiare verso l’ignoto.
Il mio compagno di viaggio continua imperterrito a indicarmi la corretta via da seguire e, con lui, l’altra compagna di avventure mi rallegra la tristezza con un pizzico di musica rock.
Presso il paese Borgarnes, interrompo momentaneamente il viaggio per una doppia doccia gelata e pungente: esco dall’auto per fare la spesa al Bónus e vengo letteramente, fisicamente e psicologicamente inondato da un fiume di pioggia. Bagnato come un pulcino (forse è un eufemismo definirmi tale, quindi aggiungerei anche fradicio, zuppo e inzuppato per non lasciare adito a equivoci) mi inoltro fra i corridoi in tecnicolor del supermercato lasciando le mie impronte d’acqua sul candido pavimento.
Merenda in saccoccia e torno in auto per un’altra doccia, spero l’ultima della giornata. Il meteo è sempre più nefasto e ogni briciolo di speranza di poter fare qualcosa nelle prossime ore viene spazzato via con l’irruente vento.
Raggiunto il bivio fra la Strada n.1 e la Strada n.47, decido di allungare il percorso per aggiungere qualche ora alla guida e sperare di poter ammirare nuovi angoli di paradiso, magari nel frattempo il meteo cambia strategia di attacco e si ammorbidisce. Seguo il 47 e saluto nuovamente la Ring Road che continua, dapprima percorre il tunnel sottomarino che attraversa il Fiordo Hvalfjörður e infine giunge a Reykjavik.
Il programma prevedrebbe il trekking per raggiungere la Cascata Glymur (fino a qualche anno fa era la più alta d’Islanda) per proseguire poi per Reykjavik, ma la tempesta costringe a modificare i piani futuri. Ancora una volta, rinuncio e rimando.
Altri chilometri si susseguono ai precedenti seguiti da pioggia e vento senza sosta alcuna. Non vi è un microscopico anfratto riparato dalla tempesta, niente.
I paesaggi mutano a ogni curva e alla fine di ogni rettilineo, sono interessanti e in alcuni punti sono tentato di sostare per ammirarne la bellezza e immortalarla, ma la burrasca non mi permette di fare soste. Senza sosta il maltempo martella il mio viaggio. Continuo a guidare senza pensieri.
Giungo a Reykjavik nel tardo pomeriggio, vento e pioggia continuano a flagellare il mio viaggio.
Parcheggio davanti a un supermercato Bónus, spesa veloce e penso a come concludere la giornata. Sono in bilico su un valico che mi può portare in due mondi diversi: visitare la capitale o puntare direttamente alla meta finale. La scelta cade mentre la cassiera passa la confezione di pesce secco sul lettore di codici a barre emettendo il solito squillante “beep“, opto per la meta finale. Preferisco evitare di visitare la città con questo funesto tempo rischiando di rovinarmi quello che ha da mostrarmi.
Impostato il navigatore. Il tempo e la distanza che mi separano dal Lago Kleifarvatn sono dettati esclusivamente dalle impetuose folate di aria gelida e dalle incalcolabili gocce di pioggia che punzecchiano freneticamente l’auto. Lasciata la civiltà perdo la coscienza del luogo in cui sono. Bassissime nubi, costituite da sola pioggia orizzontale, cancellano la strada, a tratti sterrata e in altri asfaltata, che sto percorrendo. Il navigatore è l’unico a sapere dove sono.
Inaspettatamente, in un punto ove la strada discende lungo il delicato dorso di un collina, l’acquosa nebbia apre la vista verso acque scure attorniate da rocce brune e ocracee. La via prosegue seguendo la costa occidentale che serpeggia fra torrioni rocciosi e rocce deformi, spiagge dalla sfumature grigio-nerastre e desolazione senza un’anima di vita.
Sbatacchiato dall’irrefrenabile vento, scelgo un parcheggio che sembra un’oasi nel deserto: una piccola insenatura nel pendio della collina nella quale una lussureggiante vegetazione entra perfettamente in contrasto con l’ambiente circostante. Mi viene da pensare che in questo angolo di paradiso le condizioni climatiche siano generalmente più favorevoli alla vita. I lupini ondeggiano come alghe ancorate al fondo marino, sfilano sinuosamente verso i bagliori luminosi irradiati attraverso la superficie marina, si muovono in una danza morbida e suadente mentre le ventose correnti continuano a soffiare sui loro fiori. Le corrugate rocce osservano impassibili la fischiante massa d’aria che scuote erbe e piante senza concedere un attimo di tregua; sembra un mare burrascoso ove onde immense schiaffeggiano le inermi rive.
Con un ultimo ansimo, il vento esala l’ultimo respiro, assenza, quiete, inerzia, il silenzio prende a cantare laudi di pace. Tutto giace congelato, immobile. Il tempo si è fermato, l’unica cosa che ne scandisce l’avanzare è il battito lento del mio cuore col il suo cadenzato muto ticchettio.
Lascio l’auto nel suo piccolo angolo di paradiso, l’unico anfratto dove i fiori bianco-violacei hanno trovato un luogo tranquillo e sereno in cui risplendere, tutt’attorno le amorfe rocce vulcaniche controllano arcigne le rigogliose erbacee. I miei passi incidono la sabbia bruno-rossiccia con labili orme, i poco profondi solchi sono una cerniera che collega la dura roccia alla plasmabile acqua del lago. Mi fermo lungo la riva, impercettibili onde screziate di varie tonalità di marrone serpeggiano lungo l’arenile, increspature che narrano storie e raccontano la vita del lago e delle sue frangenti parole acquose. Il pelo dell’acqua è un enorme specchio che riflette la voluttuosità delle nubi, fotografa il continuo susseguirsi di fotogrammi che colgono attimi di vita primitiva, aspra e inospitale, dolce e incantevole. Le colline contornano le ampie acque scure disegnando una cornice curvilinea che fluttua nel grigio etere. Assaporo questo momento di pace, ascolto la voce del silenzio, un’indescrivibile emozione di vuoto di rarissima bellezza, un tesoro che difficilmente è possibile scovare nella rumorosa vita quotidiana. Lascio vagare la mente nell’infinito universo dell’afona melodia che risuona nella staticità dell’ambiente, chiudo gli occhi e il mio essere viene proiettato nello spazio siderale del nulla. Vengo strappato prepotentemente dall’utopia dell’assordante suono di un auto che lentamente passa lungo la strada mentre i suoi viaggiatori osservano il panorama. Silenziosamente si allontana, come è venuta.
Anche quest’oggi la giornata è stata lunga e impegnativa, l’ora non è tarda, ma la stanchezza cerca riposo.
Cena veloce con pane multicereali, pomodori islandesi, arrosto di agnello affumicato e gli ultimi avanzi di pesce secco; non la definire una cena libidinosa, ma in questa landa desolata è il meglio che mi posso offrire.
Calo la mascherina sugli occhi, ora è tempo di farsi cullare dal cantico dei cantici: il silenzio.