Luglio 2017, destinazione Islanda
L’Islanda è un’isola dalle meraviglie naturali che negli ultimi anni sono diventate famose grazie a stupende fotografie e filmati. È una terra che sorprende e non delude, è un universo di luoghi dalla bellezza disarmante. Seppur sapendo esattamente cosa avrei incontrato, la realtà è ben lontana da quello che pensiamo di trovare e visitare. Ogni singola sfaccettatura è sorpresa, spettacolo, meraviglia. Ho scoperto posti famosissimi che toccandoli con mano si sono trasformati in luoghi mai visti; come se le immagini digitali, impresse nella mia mente prima del viaggio, diventassero immediatamente una scialba rappresentazione della loro bellezza. Raccontare l’Islanda in poche parole è impossibile, bisogna viverla almeno per una volta nella vita, ma sono certo che al vostro ritorno sentirete l’irrefrenabile voglia di tornarci un’altra volta, ma anche una terza, se non addirittura una quarta o quinta… o sesta… Il “mal d’Islanda” è sinonimo di “mal d’Africa”, penso possa bastare come descrizione.
GIORNO 6
(Hverarond – Akureyri)
Scosto la nera mascherina al rintocco delle mie adorate 3:00. Oramai ho capito che, per vivere l’Islanda senza sciami di mosconi, è necessario viaggiare entro le 9 di mattina; poi, lentamente, la popolazione vacanziera inonda le mete da visitare. Dalle 19:00 in avanti si inverte la tendenza caotica per tornare finalmente alla quiete. Un ciclo senza fine che immagino perduri da inizio Luglio a fine Agosto, periodo clou dell’invasione turistica.
Caffè liofilizzato, banana, mela e un paio di fette di pane carburano l’uscita dall’auto per sgranchirmi le gambe e affrontare il freddo.
Il cielo, solcato da lunghe nuvole grigio-bluastre, assomiglia al manto tigrato del felide asiatico. I colori freddi del mattino virano gradualmente verso tonalità più calde coi primi rosa, rossi e gialli. Stiracchio i muscoli intorpiditi del mio corpo allungandomi verso le screziature della volta celeste in un ambiente silenzioso e privo di vita. Nell’ampia valle non odo nessun rumore o suono alcuno, mi sembra di essere in una terra dimenticata di un mondo disperso nell’universo; l’unico fruscio costante che mi tiene ancorato alla realtà è la calda doccia sempre contenta nello sprizzare gioia acquosa sui sassolini brunastri che la osservano dal basso.
Pronto per una nuova avventura riparto alla scoperta dell’Islanda lasciandomi alle spalle la più bella toilette pubblica che abbia mai potuto ammirare; rimarrà per sempre nei miei ricordi più bizzarri.
Oltrepasso nuovamente l’Impianto Geotermico Kröflustöð per dirigermi a Nord verso Leirhnjukur, un’area geotermica dell’immensa caldera di Krafla. La nera strada serpeggia ripidamente e velocemente fino alla sommità della valle ove un parcheggio panoramico domina l’ampia veduta sulle brulle terre vulcaniche. Una ramificazione mancina taglia la nera piana verso il vicino posteggio di Leirhnjukur ove mi fermo.
L’auto mi osserva con sguardo assonnato mentre mi allontano lungo un ampio sentiero che si allunga verso basse collinette avvolte da brume sulfuree. Carico come un mulo da soma, cammino spedito con le armi in pugno per cogliere immobili attimi fugaci del panorama islandese.
Minute onde di solida lava si estendono fino a perdita d’occhio in una piana senza fine, con loro radi ciuffetti d’erba e gli innumerevoli cuscinetti di muschi morbidosi, zompettano fra le rocce scure alla ricerca di appigli dove crescere. Montagnole e colline, forse piccoli vulcani o semplicemente basse montagne o docili colline, vicine e lontane punteggiano l’immensa piana vulcanica che caratterizza la caldera di Krafla.
La traccia da seguire viene sostituita ben presto da un moderno assito di legno color nocciola che prosegue lungo la via fino al cuore dell’area geotermica in cui le nebbie vulcaniche regnano sovrane.

Mi tuffo nell’umidità vorticosa dalla briosa fragranza di uova marce nel momento in cui il sole fa capolino oltre lontane colline. Le luci e le ombre giocano con spensierata fantasia nel creare contrasti lineari, geometrici e amorfi fra la legnosa passerella e l’impalpabile acqua eterea che volteggia nell’aria. Il bianco vaporoso evolve verso il cielo disegnando immaginarie storie di vite non vissute, il rosso giallastro della dura roccia lavica giace immobile nell’ammirare l’effimera bellezza del sulfureo vapore. Il silenzio è quasi assordante, solo il ribollire aritmico delle pozze fangose rompe la quiete accarezzata da una delicata brezza.

Continuo il mio cammino e, raggiunto un bivio, decido di prendere la traccia sassolosa che dovrebbe riportarmi verso il parcheggio; lascio l’altra via per una futura scampagnata, non ho minimamente idea di dove conduca.
Circumnavigo la brulla collinetta fra amorfi mostri pietrificati in tempi antichi, colori scuri e screziature sgargianti di rossi e di viola, smeraldini muschi e fiorellini rosati, e il solito immancabile lanuginoso trio intento a ruminare.

L’atono russare dell’auto viene interrotto dallo scricchiolio della bitorzoluta ghiaia sotto i miei passi.
In meno di cinque minuti e passo alla meta successiva, il Vulcano Víti.
Il sentiero solca la cresta del cratere lungo tutta la sua circonferenza e, circa a metà strada, giunge a una depressione delle mura vulcaniche nel punto in cui sono collassate, qui si trova una ristretta area geotermica di grigiastro fango e sgargianti erbe e muschi smeraldini. All’interno del vulcano, il tondeggiante Lago Víti Maar risplende di azzurro quando viene baciato dai raggi solari che ne fanno brillare le calme acque; mi ricorda paradisi tropicali ammirati nelle riviste di viaggi e, per il momento, mai toccati con mano.

Nei pressi del parcheggio sono cresciuto in altezza di un paio di centimetri, o forse più. Sotto le suole dei miei scarponi ho accumulato, lungo il breve cammino, una considerevole quantità di fango e terra. Senza considerare il paio di chilogrammi appiccicosi scorrazzati inutilmente lungo tutto il percorso. Impiego così tanto tempo a scrostare le nuove zeppe che quasi mi ritrovo senza energie, più ne tolgo e più ne accumulo con quello già a terra. Non demordo, alla fine della molliccia lotta, il vincitore è il sottoscritto, altrimenti non sarei qui a raccontare la mia breve storia.
Avanti tutta verso Hverarond dove mi aspetta uno sconosciuto trekking sulla montagnola Namafjall; una meta non prevista.
Calzo nuovamente gli scarponi e mi inoltro all’interno dell’area geotermica fra sbuffi di vapore e gorgoglianti pozze fangose. Non mi soffermo e cammino spedito verso l’ignoto. La traccia sale rapidamente in diagonale lungo il pendio ocraceo della collina vulcanica fino a un punto dove il sentiero diventa fangoso e scivolosamente instabile, manco a farlo apposto è l’esatto punto in cui si inerpica quasi verticale fra fuggevoli tornantini. Raggiunta la tondeggiante cresta vengo travolto da un tir in corso, il vento. La traccia piroetta fra cumuli di roccia fumante e bitorzolute formazioni rocciose fino alla vetta, raggiungibile con una semplicissima arrampicatina. Il vento è impetuoso.
Il panorama è completamente libero a trecentosessanta gradi: piane e colline si alternano in differenti scenari che virano dai verdi ai rossi, dagli ocra ai neri, dai grigi chiari ai grigi scuri. Distese di lava senza limite alcuno, ristrette oasi verdeggianti, terre brulle di rocce e muschi, pianure ondeggianti dai morbidi tratti o dalle grezze cicatrici. Dolci colline in sequenza, vulcani dipinti con tutte le sfumature di grigi, montagnole solitarie macchiate di rosso, verde o nero. Azzurri laghi dai toni accesi, quasi finti. Strette strade dipinte di asfalto che serpeggiano sulle piane desolate come arterie venose brulicanti di globuli rossi, ora solo un camper in lontananza da una parte e due automobili da un’altra.
Il vento soffia rabbioso.



Scendo lungo il pendio opposto e in pochi minuti torno alla mia compagna di viaggi, questa si gode la mattinata ammirando i colori dell’area geotermale completamente illuminata dal caldo sole e accarezzata dalla gelida brezza. Incontro i primi turisti di quest’oggi, loro alla prima meta mentre il qui presente è già pronto per la quarta tappa. Sono sempre più convinto d’essere completamente pazzo, o forse cerco di godermi la vita fino al limite delle mie energie.
Il Vulcano Hverfjall sarà la prossima tappa, navigatore impostato e riprendo la guida del mio metallico destriero tutto impolverato.
La filosofia che mi accompagna in questo mio lungo viaggio è quella di scoprire l’Islanda mano a mano che la incontro, non solamente presso le mete principali. Questo mi ha permesso, mi permette e sicuramente mi permetterà, di scovare tesori inaspettati e sicuramente indimenticabili.
La Laguna Azzurra, o Blue Lake per come viene citata nel web, è la conferma di quanto appena scritto. Meta non prevista, ma solamente il suo colore basta a calamitare la mia attenzione. Il colore delle sue acque è incredibile, affascinante, seducente e ammaliante. Mentre cammino lungo la riva ammiro le sfumature delle miscroscopiche onde cristalline che increspano delicatamente la superficie del lago e poi si adagiano placidamente sull’arenile ghiaioso senza emettere alcun suono. Numerosi cartelli intimano il visitatore a non tuffarsi in queste acque per il pericolo di ustionarsi; la temperatura può innalzarsi rapidamente e inaspettatamente. Oltre la riva opposta del bacino termale vi sono alcune strutture di una centrale geotermica che sbuffano vapore a ritmo serrato.

Incantato da questo splendore seguo il navigatore di Google Maps con gli occhi ricolmi di azzurro.
Fra scure rocce bitorzolute, basse betulle e cespugli variopinti di innumerevoli sfumature di verde e marrone, seguo la strada asfaltata che in pochi minuti mi porterà allo vulcano spento Hverfjall.
Un cartello di limpida chiarezza indica, con la scritta Grjótagjá, un punto di interesse che non avevo preventivato di incontrare. Curioso come un mal di pancia, cambio rotta per arenare ben presto l’auto in un minuto parcheggio popolato da un autocaravan e un fuoristrada.
Una stretta apertura, larga abbastanza per far passare una o forse due persone, è un varco verso l’oscurità oltre il quale gli occhi fanno fatica ad abituarsi al buio, mentre all’esterno il sole splende in tutta la sua bellezza. L’aria è densa, melassa, più che da respirare sarebbe da masticare, umida e calda. La grotta è un tesoro inaspettato: un tunnel lungo una decina di metri di dura roccia vulcanica, pareti e macigni dalle sfumature ocracee e nerastre, una spaccatura nel ventre della terra in cui bollenti acque termali hanno trovato un luogo incantato e pericoloso in cui riposare. Sfumature di blu intenso e azzurro cristallino, le trasparenze acquose sciolgono i celesti, baciati dai radi raggi di luce che penetrano nell’oscura cavità, in gradazioni di turchese e poi di cobalto, ove il buio più profondo rifugge dal chiarore superficiale. Un secondo ingresso intaglia la spessa umidità facendo penetrare una tagliente lama di luce che incide le rocce e le pareti sul lato opposto del tunnel, e si tuffa nelle limpide acque termali per risplenderle.


All’esterno la luminosità è abbacinante, strizzo gli occhi quasi a chiuderli per poter tornare a vedere. L’impalpabile aria non riesce a riempirmi i polmoni, a momenti sento annegare il mio respiro in un mare inconsistente, come se mi trovassi su un pianeta privo di atmosfera.
Riprendo il viaggio con il sorriso stampato negli occhi e arrivo ai piedi del Vulcano Hverfjall con lo stomaco brontolante. Rimediare è d’obbligo, anche perché mi attende una discreta scarpinata verso la vetta.
Il franoso pendio di roccia, pietre e sabbia è rigato da un sentiero abbastanza rettilineo che solca il brullo versante occidentale disegnando una linea chiara che sale in diagonale fino a raggiungere la cresta del cratere. Il grigio, in tutte le sue sfumature, è l’unico colore che caratterizza la montagna, tutt’attorno verdi chiari e scuri di bassi alberi e arbusti tingono la piana dipingendo un paesaggio di contrasti fra l’inerte terra e la vitale vegetazione.
Nel parcheggio l’andirivieni continuo di mezzi motorizzati solleva un leggero velo di polvere grigiastra che si deposita gradualmente sulle auto posteggiate.
Con passo spedito percorro la traccia per raggiungere la vetta senza perdere tempo, non mi soffermo a guardare il panorama perché ammirerò la sua bellezza quando sarà totale. Raggiungo due ragazze in divisa che stanno salendo la via a lunghe falcate, una gesticola mentre parla e l’altra si limita a tenere in mano un rastrello. A un primo momento non capisco, rallento e la curiosità prende il sopravvento, allungo l’orecchio, oltre lo scricchiolio dei sassolini sotto le suole degli scarponi, per capire meglio. La prima, suppongo la responsabile del centro visitatori, descrive il lavoro da svolgere alla seconda: cancellare il sentiero che un gruppo di turisti ha creato nel cratere del vulcano per raggiungere una montagnola che vi sorge al centro. Il mio stupore per l’assurdità della situazione accresce il mio interesse a tal punto da rallentare il passo e seguirle, a poca distanza, per ascoltare l’evoluzione del discorso.
Arriviamo in cresta e lo spettacolo è indescrivibilmente affascinante quanto semplice: il cereo cratere del vulcano si estende per circa un chilometro di diametro, le sponde interne scivolano precipitosamente verso la conca centrale ove spunta una collinetta non molto alta, la cresta ondeggia mollemente in tutta la sua circolare lunghezza incorniciando questo paesaggio lunare. Restiamo ad ammirare la bellezza della natura con il cuore pulsante per la fatica e l’emozione. Il nostro respiro viene soffocato dal vento teso che schiaffeggia la nuda roccia che rimane impassibile nella sua statuaria posizione.
L’inaspettata coppia si separa, la bionda gesticolante torna sui suoi passi lanciando nell’aria un saluto che viene disperso nel vorticoso etere, mentre la bionda armata osserva attentamente il fondo del vulcano per studiare il lavoro che la attende.

Il mio sguardo segue l’ondulata linea sommitale del cratere ove scorgo minuscoli bipedi che si muovono in circolo per giungere infine al punto di partenza, o di arrivo. Seguo le loro immaginarie impronte fra sassi e massi butterati che costellano questo luogo inospitale. Attorno all’ombelico terrestre si estende fino al limite della vista un paesaggio in continua evoluzione, una successione di scenari differenti adombrati da nuvole in corsa su piste invisibili. L’immenso ambiente lacustre del Lago Mývatn a Ovest, l’area di Dimmuborgir a Sud e quella di Namafjall a Nord, mentre tutto il resto del territorio è prepotentemente caratterizzato da deserto lavico macchiato da aree verdeggianti, basse colline e un arcobaleno di terre e rocce variopinte senza alcun limite di fantasia. A Occidente la chiazza verde-bluastra del lago è costellata da minuscole butterazioni simili a vulcani, innumerevoli golfi e appendici tondeggianti che disegnano il bacino lacustre con un’amorfa silhouette. A Meridione la rugosa foresta vulcanica di rocce globose e butterate, informi e grottesche, mostruose e teatrali, si stende come una coperta spelacchiata dalla quale spuntano grumi di alberi e cespugli che alternano i grigi e i neri della pietra con lussureggianti verdi smeraldini. A Settentrione le calde tinte dell’ampia area geotermale riscaldano i freddi toni del vulcano coi loro pennacchi di vapore acqueo che salgono verso il cielo mentre vengono sospinti dal vento. Il deserto vulcanico occupa tutto il resto della vista, collega i luoghi, li unisce in una ragnatela screziata di neri, rossi, gialli, grigi, ocra e verdi ove muschi, licheni, cespugli o bassi alberi sono riusciti a conquistare linfa vitale dalla terra.
Il rastrello non è più visibile, ma la microscopica sagoma della ragazza percorre una finissima linea biancastra che solca il fondo del cratere fino a raggiungere la collinetta ventrale.

Finita la descrizione del paesaggio, con essa termina il cammino, l’anello è chiuso.
Scendendo lungo la via di ritorno incrocio turisti ansimanti e boccheggianti, stremati da qualche decina di metri di dislivello, sogneranno l’arrivo in vetta ad ogni singolo passo; altri, invece, sono scattanti e agguerriti nell’affrontare la breve salita che si mangeranno in pochissimo tempo.
Il recondito mostro, che giace nelle viscere del mio corpo, richiama la mia attenzione emettendo cavernosi suoni alla ricerca disperata di cibo. Perso con lo sguardo rivolto alla cima del vulcano, alle nuvole che pascolano nel cielo e alla sfavillante luce che illumina il paesaggio lunare, non odo la sua voce imperiosa e solo la sua insistenza mi riporta alla realtà dei fatti: è ora di pranzo.
I turisti vanno e vengono come numerose formiche laboriose lungo il parcheggio e sul crinale del monte forato, i mezzi impolverati si crogiolano beatamente al sole mentre attendono i loro conducenti, si godono una meritata pausa dai loro vagabondaggi turistici.
Appoggiato al fianco del mio destriero, col manto dalle cinquanta sfumature di sporco, osservo il mondo in movimento fra un morso a un panino farcito di formaggio e una sorsata di fresca acqua islandese.
L’aria è secca, briosa e rinfrescante, profuma di terra e di roccia, di piante sconosciute e di piogge lontane, è come dissetarsi con pura acqua di sorgente che scivola velocemente nella gola per cancellare tutte le stanchezze e le preoccupazioni della vita.
Dimmuborgir è la prossima tappa.
Lascio il parcheggio con un’impalpabile foschia di polvere biancastra che aleggia dietro la mia scia. In pochissimi minuti arrivo alla fermata successiva, gremita di auto, pullman e svariati mezzi di ogni fattura.
Nell’arco di una decina di minuti la volta celeste è mutata da un limpido blu a un celeste punteggiato da batuffolose nuvolette, da un celeste punteggiato da batuffolose nuvolette a un uniforme grigio dalle scure sfumature acquose.
All’ingresso studio la cartina che indica i numerosi percorsi che si ramificano nel roccioso parco vulcanico. In gruppo, io e un quartetto di turisti, ci poniamo il dubbio su quali strade percorrere. Scelgo la traccia che mi porterà verso una direzione, non quella definita e certa ma quella del cuore; decido quindi di girovagare a casaccio senza un meta precisa, ma seguendo l’istinto.
Gli occhi saltellano fra le mostruose statue di lava che caratterizzano l’ambiente, forme e geometrie non hanno regole e l’anarchia regna sovrana. Le piante si contendono ogni anfratto in cui è possibile sopravvivere, erbacee fiorite, piccoli arbusti e minute betulle alternano i loro vividi verdi coi bruni, i rossi e i neri delle rocce. Sulla sinistra della strada asfaltata che serpeggia nel parco, il mio occhio adocchia una solitaria orchidea violacea che, da sotto una betulla, si ripara da occhi indiscreti. Anche oggi sono stato colto alla sprovvista dall’ennesimo incontro inaspettato. Trovata la prima non posso evitare di cercarne un’altra e, nel giro di poco, ne ritrovo altre della stessa specie (Dactylorhiza viridis).

Sbaglio strada, perché ce n’è una giusta e una sbagliata nell’andare a casaccio; solo la meta ignota conosce quale sia l’una o l’altra. Mi ritrovo sotto il ventre massiccio di Hverjall, il vulcano se non fosse chiaro, a centinaia di metri da Dimmuborgir; una breve deviazione fuori programma. Gambe in spalla e riprendo i miei passi lasciati lungo il sentiero fino al bivio ove prendo la strada mancata.
La pista mi fa scoprire nuove forme d’arte della roccia che mai avrei pensato potessero esistere: amorfo e informe definiscono perfettamente l’impossibilità di descrivere quello che la forma non è, ma solo quello che possiamo immaginare possa essere. Il labirinto della Fortezza Oscura, Dimmuborgir per coloro che masticano abitualmente l’Islandese, mi porta alla formazione rocciosa della chiesa, Kirkjan, che svetta sull’ambiente circostante grazie alla sua forma a sesto acuto. Il tunnel, lungo alcuni metri, si apre con due portali che custodiscono al suo interno strutture naturali simili a cappelle e altari.


Lungo il sentierino sterrato, che mi riporta verso una stradina asfaltata, vengo a conoscenza di un’altra forma d’arte, tipica e frequente in Islanda, direi quasi sconosciuta: la pioggia. Allungo il passo.
Il parcheggio non è molto distante, mollo il mio fardello nel bagagliaio e, salito in auto, mi concedo uno spuntino con della frutta.
La Ring Road mi attende col suo numero “1” stampato in fronte, direzione Goðafoss. Navigo lungo un sinuoso canale di duro asfalto e osservo i paesaggi che si susseguono ed evolvono: dapprima il Lago Mývatn con le sue tinte verdi e bluastre, le formazioni rocciose di Höfði che si innalzano dall’acqua e la collina vulcanica di Skútustaðagígar. A seguire arrivano distese di prati ondulati che dondolano sinuosamente come un mare gonfiato da un vento leggero, alcune fattorie e piccoli villaggi o agglomerati di case, il Lago Másavatn e, fra altre praterie verdeggianti e casupole qua e là, il paesaggio si ferma nel parcheggio che sovrasta la Cascata Goðafoss, la maggiore, e la Cascata Geitafoss, la minore.
Mi sembra di essere in viaggio da una vita intera, forse è una frase pensata e scritta innumerevoli volte durante questo viaggio, ma in questo momento credo di essere arrivato al culmine; e la giornata non è ancora finita. Concedo a corpo e mente una meritata pausa, Skyr al cioccolato per ricaricarmi e alcune indelebili righe di inchiostro per non dimenticare.
I turisti agguerriti sciamano come vespe inferocite su entrambe i lati del canyon in cui il Fiume Skjálfandafljót scalcia, si agita e si dimena nell’incontrare massi e pareti rocciose che ne ostacolano il turbolente cammino. Un timido sole squarcia le ombrose nubi irradiando tiepidamente l’aria umida e briosa graffiata da gelide gocce di pioggia. Il vento è leggero, impalpabile, quasi inesistente, profuma di erba e di terra bagnata. Osservo cori di voci multietniche che volano nell’etere senza prendere una direzione, evaporano nell’intangibile trasparenza dell’aria per miscelarsi in un intruglio cacofonico senza significato.
Muovo i primi passi sulla rocciosa sponda orientale fino alla Cascata Goðafoss per venire ben presto investito da miliardi e miliardi di finissimi moscerini liquidi di acqua gelida. Impossibile fotografare.
Ritento sul lato occidentale, quindi ripercorro il sentiero, attraverso il vicino ponte e mi sposto lungo il ribollente fiume lattiginoso per poi fermarmi sul promontorio che troneggia sulla Cascata Goðafoss. Le due pareti rocciose che racchiudono il Fiume Skjálfandafljót sono graffiate dal tempo, dalle intemperie e dalle poderose onde biancastre del grosso torrente. Precipitano verticali su massi e rocce crollate nei secoli passati, attendono il trascorrere dell’attesa senza fine cullati dai frangenti fluviali.

Sotto il ponte, che attraversa il fremente fiume, scorgo una coppia di pescatori che si riparano dai turisti in un anfratto roccioso, buio e tenebroso. Custoditi dalle braccia materne della dura roccia vulcanica si godono il silenzio delle acque gorgheggianti e la quiete del loro remoto paradiso. Ci sono talmente tanti turisti tutti assiepati gli uni sugli altri che la mia vena artistica è perennemente ostacolata da una decina di persone.


Riprendo la marcia serrata lungo il mio infinito cammino alla scoperta dell’isola atlantica, direzione Akureyri. I prossimi passi, o meglio i chilometri a seguire, non hanno una meta vera e propria in quanto l’obiettivo è di consumare più strada possibile per togliere metri di asfalto al giorno successivo. Akureyri la tengo solo come eventuale meta qualora l’orario non sia troppo avanzato o il qui presente non sia troppo stanco per una sosta non programmata.
Il paesaggio vira dalle tonalità pianeggianti e mollemente collinari a screziature montane che si innalzano da ampie valli glaciali, da sfumature di lente salite verso il Passo Víkurskarð a ripide discese in direzione del Fiordo Eyjafjörður, da viraggi di ambienti selvaggi a gradazioni di bianchi e di grigi della città di Akureyri.
Oltrepassato il ponte, che collega le due sponde del fiordo su cui si affaccia la cittadina, cerco un supermercato per una spesa veloce, ma l’ora è tarda e sono tutti chiusi o in chiusura. Vorrei fermarmi per perdermi fra le vie cittadine o camminare lungo le strade del porto, ma ho veramente tanti chilometri da percorrere che non mi permettono di sostare a lungo. La stanchezza non mi farebbe godere un solo attimo fra le mura di Akureyri, quindi preferisco evitare di rovinarmela; la città non scappa e mi aspetterà. Questo è il viaggio nel lato selvaggio dell’Islanda, non sono più di tanto attirato dal lato antropico.
Al distributore di carburante rimpinzo i due serbatoi, benzina alla pompa e acqua dal rubinetto della stazione di servizio, un paio di Skyr che non devono mai mancare e riprendo il cammino alla ricerca di un posto dove sostare. Una curiosità islandese: in Islanda l’acqua in bottiglia è molto cara, è buona, ma non vale il prezzo da pagare, ma tale inconveniente si può ovviare riempiendo le bottiglie alle stazioni di servizi in totale libertà. Il servizio è gratuito e chiedendolo gentilmente nessuno lo vieta, se poi accompagni la richiesta con l’acquisto di carburante, cibarie o altro, di sicuro nessuno si lamenta per la richiesta. A quanto ho capito è una cosa normale. Come organizzarsi: all’arrivo in Islanda consiglio di comprare un bottiglione da cinque litri che man mano si userà per il rabbocco; un piccolo investimento iniziale per un risparmio successivo.
Oltre la città seguo la strada che per qualche chilometro percorre la riva occidentale della vallata marina, poi si incunea verso occidente in un susseguirsi di ampie valli glaciali dai delicati pendii tinteggiati di verde e di nero.

I chilometri percorsi e le ore trascorse in questa giornata interminabile mettono nero su bianco la parola fine indicandomi una piazzola di sosta lunga la strada.
Provo a prepararmi una zuppa dietro la ruota dell’auto, al riparo dal vento, ma il freddo anestetizza ogni briciolo di calore delle fiamme del fornelletto. Rinuncio e torno in auto completamente intirizzito, mangio la zuppa tiepida e non molto cotta (pazienza, sopravvivrò), qualche pezzo di pesce secco, un bastoncino di agnello pepato, e una mela per sciacquarmi la bocca. Il mio pensiero non è rivolto alla cena, qualunque essa possa essere, ma solamente a una profonda dormita.
Chiudo gli occhi ascoltando le goccioline ghiacciate di pioggia che tintinnano sul parabrezza, avvolto nel caldo sacco a pelo scivolo dolcemente in un sonno profondo e senza sogni.