Luglio 2017, destinazione Islanda
L’Islanda è un’isola dalle meraviglie naturali che negli ultimi anni sono diventate famose grazie a stupende fotografie e filmati. È una terra che sorprende e non delude, è un universo di luoghi dalla bellezza disarmante. Seppur sapendo esattamente cosa avrei incontrato, la realtà è ben lontana da quello che pensiamo di trovare e visitare. Ogni singola sfaccettatura è sorpresa, spettacolo, meraviglia. Ho scoperto posti famosissimi che toccandoli con mano si sono trasformati in luoghi mai visti; come se le immagini digitali, impresse nella mia mente prima del viaggio, diventassero immediatamente una scialba rappresentazione della loro bellezza. Raccontare l’Islanda in poche parole è impossibile, bisogna viverla almeno per una volta nella vita, ma sono certo che al vostro ritorno sentirete l’irrefrenabile voglia di tornarci un’altra volta, ma anche una terza, se non addirittura una quarta o quinta… o sesta… Il “mal d’Islanda” è sinonimo di “mal d’Africa”, penso possa bastare come descrizione.
GIORNO 5
(Egilsstaðir – Hverarond)
La canzone “En el Muelle de San Blas” dei Manà risuona nello stretto abitacolo in un orario insolito rispetto ai giorni precedenti, quest’oggi mi sono regalato, se così si può dire, un’ora di sonno in più: il mio cellulare vibra e strimpella indicandomi le ore 4:30.
Colazione nello stomaco e via lungo la strada verso nuove mete.
Mentre guido godo ogni attimo dell’alba ammirandone i colori, è un caleidoscopio di emozioni nel cielo. La lingua asfaltata corre lungo il versate settentrionale di una morbida valle i cui pendii si sciolgono delicatamente verso il sottostante torrente, i loro colori sfumano dai delicati verdi ai rugosi marroni, le loro superfici sono increspate da ramificate rughe che ne scavano le bagnate vesti spoglie, esigui rigoletti d’acqua scivolano lentamente verso il fondovalle.
La via, che finora ha serpeggiato mollemente nella lunga vallata, entra dopo diversi chilometri in un universo di pianure senza fine, distese di erba su erba, di verdi su verdi, di erba su roccia e di verdi su grigi, marroni e rossi. In lontananza, l’orizzonte mette un limite alla monotona vista disegnando profili montuosi sovente annullati da tetre nebbie.
Il paesaggio muta coi chilometri, non immaginatevi un cambiamento radicale in questa terra di nessuno, semplicemente le immense pianure acquisiscono forme più tondeggianti che salgono flaccidamente verso il cielo cercando di imitare le lontane montagne, o a ruscelli che serpeggiano senza meta sulla piatta superficie di questa terra marziana alla ricerca di una foce in cui gettare le proprie acque.
Col trascorrere del tempo i prati si trasformano in terra e roccia. Lentamente, passo dopo passo, con la flemma ovina tipica di queste zone, le tinte verdi cedono terreno, filo dopo filo, alle tinte marroni, sasso dopo sasso.
Dapprima in lontananza, ma poi sempre più vicino, prende forma un miraggio che non avrei mai potuto immaginare. Incredulo, stropiccio gli occhi nel cercare di mettere a fuoco quello che vedo credendo in un sogno, forse sto sognando. Tre pecore stanno pascolando nella prateria rocciosa in una terra astratta dove l’unico segno di vita umana è la strada asfaltata, tutto il resto è natura incontaminata fino al limitare dell’universo. Sbigottito dalla scena, continuo il mio cammino pensando al motivo della loro presenza, senza trovarne risposta.
La via segue la sua storia senza porsi domande, si chiede solamente quale sarà la meta di ogni viaggio.
Le piatte lande desolate lasciano spazio a piccole colline nerastre o brunastre, a dolci salite e discese, a valichi o ad altre pianure senza limiti. A seconda del territorio che incontro, vedo terre arse dal freddo e dal vento, distese di erba smeraldina, pianori di sedimenti neri come la pece, morbide montagnole dipinte di rosso o marrone, spiazzi erbosi rinsecchiti e grigiastri, e nessuna traccia di artificiosità.

Il sogno di qualche minuto addietro prende forma una seconda, una terza e addirittura una quarta volta. A distanza di svariati chilometri incontro altre pecore, sempre in trio, che pascolano in aree senza vita alcuna se non la loro. Pensavo di vivere in un sogno, o forse sto vivendo un déjà vu in Matrix, l’unica cosa che mi chiedo è come farà l’allevatore di turno a trovare le pecorelle prima che arrivi l’Inverno.
Giungo finalmente al bivio con la Strada n.864, lascio il nero asfalto per il marrone, nero e rosso della strada sterrata. Non mi pongo domande sulla qualità strutturale della via terrosa che andrò a solcare, la affronto di petto perché voglio raggiungere la meta a priori dalle condizioni che incontrerò. Rimango stupefatto dalla silenziosità della carrareccia, i solchi paralleli lasciati dalle coppie di pneumatici sono perfetti se non per rare sbavature di ghiaia sparsa alla rinfusa o da lievi buche o minuti dossi, sembra quasi di solcare quiete acque di un flemmatico fiume col solo ronzio della terra e della sabbia che scricchiolano sotto le vorticose ruote.

Curve e brevi tratti rettilinei mi portano ben presto verso la meta più prelibata della giornata: la Cascata Dettifoss.
Parcheggiata l’auto, seguo le indicazioni per la cascata. Saltellando su lisce piastre di scuro basalto giungo ben presto al cospetto di una bellezza violenta: Dettifoss. La cascata è a pochi metri di distanza dalla mia vista e dai miei piedi, è possibile toccarla talmente è vicina. Ne ammiro la meraviglia che si tuffa rabbiosamente nell’ampia forra da lei scavata nei millenni, mentre perdo i miei pensieri nelle nubi di vapore che si innalzano dall’orrido. Nel Film Prometheus diretto da Ridley Scott, prequel della stupenda serie di pellicole Alien, vi è una scena in cui si assapora l’imponenza terrificante di questa cascata, ma solo al suo cospetto si riesce realmente a viverne l’immane energia, indescrivibile. In lontananza, da Sud, fra due sponde di scura roccia, sbuca da dietro un’ansa una notevole massa d’acqua increspata da innumerevoli onde spumeggianti che ne rigano confusamente la superficie. Il fiume, dai tetri toni grigiastri, si avvicina prepotentemente fino al salto abissale in cui si tuffa, in questo punto le rive sono state tagliate dalla lama affilata del tempo. Le rocce basaltiche alte e lineari salgono dall’orrido tenebroso seguendo le nuvole di vapore acqueo che vola verso il cielo in turbolenti ondate umide. L’acqua gronda in copiosi ruscelli dalle sue pareti dove si condensano le volatili particelle. Il rumore è assordante, ma stranamente vi è una calma inquieta in questo luogo di guerra fra acqua e roccia. Il profumo è di acqua, di roccia, di roccia bagnata, di acqua sporca di roccia, di vita e di morte, di una lotta senza tempo fra l’energia della dinamicità e la forza della staticità.

Il cielo, nel frattempo, ha perso i caldi toni dell’alba o i celestiali azzurri, da ore i colori principali che lo tinteggiano sono tutti i grigi pantone in commercio.
Purtroppo non è facile descrivere tutto in contemporanea e talvolta si dimenticano alcuni particolari, uno fra questi, che mai ho citato in questo mio viaggio, è la pioggia; anche quest’oggi piove, o meglio per mia fortuna, pioviggina. Provo a scattare qualche fotografia, ma purtroppo non riesco a evitare che le simpaticissime e sempre apprezzate gocce si posino sulla lente frontale del mio obiettivo; mi limito a filmare con la GoPro il corso del fiume mentre salta dando vita alla Cascata Dettifoss. Magra consolazione, sfortuna vuole che non riesca a fotografarla come vorrei.
Ripresa l’auto torno sulla via che mi porta a Nord verso la meta successiva, ovvero la Cascata Hafragilsfoss.
Il parcheggio è di terra rossa, mi ritrovo spiazzato nell’incontrare un’oasi rocciosa di questo colore dove il nero e il marrone hanno conquistato tutto il territorio.
Seguo la traccia che punta a un baluardo roccioso, una rocca informe di roccia ruvida e tagliente, rossa e aranciata, che sovrasta l’intero panorama. Qui il vento soffia impetuoso assieme alla pioggia affilata che mi colpisce e scarifica la pelle con le raffiche orizzontali. Il fiume, a qualche centinaio di metri di distanza, scorre biancastro e spumoso fino al salto che origina la Cascata Hafragilsfoss, poi torna a scorrere placidamente con le sue acque grigie sfumate di marrone. La cascata non è paragonabile alla precedente, ma è altresì affascinante. Interessante è un’insenatura in cui si insinua l’ampio fiume, una lingua di placida acqua cinerea che viene incisa da acque verdi, azzurre e cristalline proveniente da un piccolo corso d’acqua di cui ignoro l’origine.

Altri chilometri si susseguono ai precedenti, altre infinite distese di lava brulla e inospitale si susseguono alle precedenti, altra pioggia finissima precede quella più copiosa che susseguirà. Seppur il tempo non è clemente, mi rilasso alla guida ammirando i grigi delle nubi che diventano un tutt’uno con i marroni della terra, due mondi in antitesi, impalpabile uno e tangibile l’altro, soffice alla vista o ruvido al tatto, freddo in entrambe i casi. La Strada n.85 mi riporta alla civiltà al culmine settentrionale del suo percorso, lascio la terra battuta per l’asfalto.
Pochi minuti e prendo un’ulteriore deviazione, quest’ultima verso il Canyon Ásbyrgi. La natura non si limita mai nel creare opere d’arte, Ásbyrgi è una fra queste; un’altra chicca islandese. Il canyon è un’immensa oasi rigogliosa e fittamente boscosa che staglia completamente rispetto al paesaggio circostante, brullo e inospitale. La strada asfaltata si dirige nel cuore di questo paradiso attraverso un primo tratto pianeggiante, poi, dopo qualche centinaio di metri, ai lati della via, si ergono verso il cielo due promontori rocciosi alti decine e decine di metri. Le pareti di dura roccia bruno-grigiastra si innalzano dalla verde boscaglia per puntare verso il cielo plumbeo, sopra le loro vette tagliate orizzontalmente si intravedono cespugli e alte erbe che coprono la roccia con un morbido cappello vegetale, quasi a ostacolare la corsa della roccia verso il cielo. La vista rimane intrappolata fra betulle, ontani e altre latifoglie che adombrano la via, ai loro piedi una moltitudine di erbacee fiorite che celano la terra e i tronchi degli alberi nascondendo inimmaginabili tesori di un habitat incontaminato.

I bianchi macchiati delle betulle giocano in intrecci sgraziati disegnando amorfe forme sul tessuto verde che le circonda, sopra il manto boschivo le falesie strapiombanti sovrastano l’ambiente chiudendone la vista in una dura cornice ruvida. Nello specchio di cielo, che si affaccia oltre la finestra disegnata dalle pareti del canyon, si possono sovente ammirare le tonalità dell’azzurro o dei caldi toni dell’alba e del tramonto, anche se quest’oggi le screziature dei grigi sono l’unico non-colore a disposizione.
La strada termina in uno spiazzo circolare adibito a posteggio, la prima metà della giornata termina con essa.
Lascio l’auto e scelgo uno dei tanti sentieri che si diramano nella selva, il principale è quello che porta direttamente verso il Lago Botnstjörn. La camminata è breve e molto piacevole, sembra di essere in un fiabesco bosco in cui potrei incontrare fate o gnomi. I colori tenui dei tronchi delle betulle contrastano coi verdi delle erbacee e delle chiome degli alberi, numerosi fiori viola e gialli punteggiano il sottobosco. Uccellini invisibili canticchiano allegramente fra le fronte delle piante alla ricerca degli uni o degli altri. Rami contorni e tronchi informi, alcuni vivi e altri secchi da anni, disegnano amorfe creature dagli spettrali lineamenti.
Il Lago Botnstjörn è un’isola paradisiaca all’interno del paradiso stesso, un’oasi in un deserto di terra e lava. Le acque sono limpide e cristalline, i colori variano dallo zaffiro all’acquamarina, dallo smeraldo al turchese. Le sponde informi sono rocce crollate in tempi passati e colonizzate da muschi e licheni, erbacee e arbusti. Da una sponda si tuffa nel lago un minuto pontile in legno che permette ai visitatori di ammirarne le acque e di apprezzare il silenzio del luogo. Il sentiero continua il suo cammino verso destra, sale leggermente all’inizio e poi si inerpica rapidamente fino a raggiungere un piccolo pianoro roccioso appollaiato lungo la falesia. Dal punto di osservazione ammiro il paesaggio su tutto il canyon, l’infinito bosco di latifoglie, le pareti verticali, il laghetto, i profumi e i suoni del luogo, la quiete di questo angolo di paradiso, la pace dei sensi che invade il mio essere. Potrei perdermi ore infinite nella pace di questo paradiso, saturo di silenzio e adornato di semplice bellezza.
Sono certo che in Autunno la vegetazione nel Canyon Ásbyrgi si avvampa di bellezza coi colori della vegetazione, in particolare grazie alle numerose betulle. Da tenere in considerazione per il futuro.
Tornando all’auto concedo alla mia mente di vagare liberamente per il bosco, prendo sentieri senza nome, vie poco battute lungo le quali gli steli d’erba cercano di coprirne le tracce. Vago e divago, mi sento libero, leggero, solitario nella solitudine, solo e unico, io e la natura.
In auto consumo un pranzo frugale, riguardo le fotografie appena scattate e scrivo qualche riga su questa mia avventura. La pausa è solo un piccolo tassello del viaggio, inserito nel puzzle, cerco il prossimo da aggiungere riprendendo il mio viaggio.
Inusuali schiarite nel cielo mi sorprendono lasciando trasparire inaspettati chiarori luminosi; incrocio tutte le dita a disposizione sperando che le previsioni meteo previste per il primo pomeriggio siano completamente sbagliate (in teoria pioggia a dirotto, nella speranza nuvolo con qualche schiarita, nella pratica lo scoprirò a breve).
Dapprima Strada n.85 e subito dopo Strada n.862, entrambe asfaltate, direzione Hljóðaklettar.
Nel parcheggio sterrato di Hljóðaklettar quasi faccio fatica a trovare un posteggio per il mio mezzo, ci sono molte auto e camper; uno fra tutti colpisce la mia attenzione, un pullman 4×4 adibito a camper attraverso le cui finestre scorgo brandine a castello, attrezzature di ogni genere e tipo, e sulla carrozzeria i segni di mille avventure e innumerevoli adesivi colorati che ne attestano l’autenticità.
Seguo l’ampio sentiero, immerso fra bassi arbusti e minute betulle, che si dirige verso le Scogliere Mormoranti. La traccia diviene ben presto più stretta e arzigogolata, si inerpica brevemente su rocce grigiastre, scalini scavati nella pietra o nella terra, per poi arrivare nei pressi della prima imponente formazione rocciosa: cineree colonne di roccia basaltica incuneate le une sulle altre in un groviglio aggraziato e lineare che forma una grotta poco profonda simile all’orecchio di un gigante assopito da millenni.

Il cielo islandese replica con nuova pioggerellina; le previsioni sembrano in procinto di avverarsi.
Il sentiero mantiene la linea flessuosa zigzagando fra numerose formazioni rocciose dalle amorfe forme grottesche e mostruose. Sulla sponda occidentale del Canyon Jökulsárgljúfur queste strutture basaltiche sono più numerose rispetto al lato opposto, ma osservando il corso del fiume e le scogliere che lo accerchiano, si possono scoprire altre opere d’arte di geologica fattura che assomigliano a immensi flutti del mare o, con più fantasia, al dorso di un gigantesco serpente di mare che ondeggia nell’oceano. Kirkjan è la costruzione basaltica più famosa in questo ambiente vulcanico, assomiglia a una piccola chiesa, in verità vi dico è una grotta profonda a forma circolare che ricorda una piega di una spessa coperta, il suo tessuto è formato da una trama di dura roccia grigia intrecciata da filamenti simili a colonne esagonali.

Sposto i miei passi verso Rauðhólar, una rossa collina vulcanica erosa dalle intemperie lungo il Fiume Jökulsá á Fjöllum che scorre ai suoi piedi. Sogno di vederla e fotografarla da mesi, di accarezzare la sua carne rosso sangue e di perdermi nei suoi caldi colori vulcanici. Il desiderio viene completamente inzuppato dalla pioggia sempre più insistente che ostacola la mia non voglia di risalire in auto completamente fradicio. Più passa il tempo e più mi rendo conto che, oltre a essere il viaggio della scoperta, è il viaggio della rinuncia.
Un bivio decide il futuro da intraprendere, a destra in direzione dei rossi e della pioggia, a sinistra verso il solito porto sicuro in cui ripararmi.
Circumnavigo un’immensa torre vulcanica dalla forma sgraziata, ma dal portamento fiero e autorevole. Basalto su basalto, colonne che si intrecciano in un groviglio come un abbraccio di migliaia di braccia protese a un’unione senza tempo.
Col capo chino, per non bagnarmi il viso, e lo sguardo sul selciato della via per la tristezza, a lunghe falcate riprendo il terreno percorso in precedenza lasciandomi alle spalle le Scogliere Mormoranti.
Fra le gocce di pioggia che scivolano copiose dalle fronde di una piccola betulla, una piccola orchidea spontanea si ripara dal temporale osservando il mondo dal suo piccolo rifugio. Lo stelo è chiaro, quasi paglierino, mentre i fiori sfumano dal marroncino al violetto tenue. La sua semplice bellezza si mimetizza fra le arbustive e le basse arboree, fra i morbidi verdi pastello e i marroni e grigi di piccoli tronchi e rami contorni. Il profumo è leggerissimo, quasi impalpabile, in lontananza mi ricorda note di miele, si perde tra le sfumature di muschio, di erba bagnata, di terra e roccia. La sua unicità nasce dall’essere l’unica, non riesco a scorgerne altre simili. Incurante della pioggia mi accoccolo sull’erba zuppa d’acqua e scatto qualche fotografia per immortalare questa minuscola meraviglia della natura.

Col capo chino, per non bagnarmi il viso, continuo il percorso a lunghe falcate. Scandaglio minuziosamente ogni anfratto vegetale dove possa nascondersi un’altra orchidea, niente, era l’unica.
Nel baule dell’auto lascio lo zaino, l’impermeabile, l’attrezzatura fotografica e il ricordo digitale dell’unica orchidea incontrata a Rauðhólar.
I finestrini grondano acqua all’esterno e umidità all’interno, dal cielo cadono miliardi di gocce che mi ricordano una fitta nebbia. Il mondo che mi circonda è invisibile, inesistente, annullato dall’essenza del grigio, l’auto è tutto quello che rimane di tangibile. Pantaloni e scarponi bagnati, scarpe asciutte, pesce secco e pane integrale, mele e Skir, e sorgiva acqua islandese in bottiglia.
Risalita la strada sterrata, che riporta sulla via principale, mi ritrovo davanti a un bivio che potrebbe decidere il mio futuro: a sinistra la strada da percorrere preceduta da un cartello che vieta il transito ai mezzi che non hanno il 4×4, a destra la via dell’andata. Prima di questo viaggio avevo cercato nel web se le strade del mio tragitto fossero percorribili con una classica auto, ma questo inghippo non l’avevo individuato. Il dubbio mi attanaglia, ripenso alle mappe di questa zona, osservo il selciato zuppo e sconnesso, valuto il dover prendere una deviazione che potrebbe allungarmi il viaggio di centinaia di chilometri, facendomi perdere tempo e mete preziose, e contemporaneamente analizzo coi pochi dati a mia disposizione cosa comporterebbe un disastro lungo una strada poco battuta in una terra di nessuno. Decisione presa: occhi sulla strada, testa sulle spalle, mano sul volante e piedi pronti a interrompere il viaggio per tornare indietro. Oltrepasso il cartello e mi lascio alle spalle la strada sicura per un’altra incognita. La velocità massima è di 30 km/h, con punte di 32 km/h e picchi minimi di 10 km/h. Forse a fare tutto il giro c’avrei impiegato meno tempo, ma va bene così, è pur sempre un’avventura. Il terreno è terroso, sabbioso e sassoso, alcune volte incontro dei piccoli massi da aggirare senza grossi problemi. È bagnato, fradicio, ma le ruote scorrono senza alcun intoppo, è costellato da pozze piccole e immense, le prime da affrontare con sicurezza e le seconde da scansare. I bordi della strada sono alti mezzo metro, come se il selciato fosse il solco di un aratro o l’impronta di un immenso mezzo che ha segnato l’umida terra. Il cielo è sempre grigio, plumbeo e carico di pioggia. La guida scorre tranquilla, il percorso non lo definirei solo per i 4×4, ma lo paragonerei a quei pochi sterrati che si possono incontrare in Italia. Sicuro, continuo il mio viaggio fra scossoni e altri scossoni. Raggiungo una vettura simile alla mia che affronta la strada, intimorita, si accosta e mi lascia passare. Nel senso opposto saluto un furgone, un’utilitaria e un fuoristrada, il resto della vita umana è lontana centinaia di chilometri da qui.
Nella nebbia scorgo mostruosi mezzi che scavano e spostano terra, intravedo una pista liscia e piatta che corre verso mete ignote; suppongo sia una futura strada asfaltata che collegherà Ásbyrgi a Dettifoss, o qualcosa del genere.
Nei pressi di Dettifoss torno a cavalcare l’asfalto, liscio, duro, nero, compatto, umido, pulito, freddo e apatico; finalmente riprendo un ritmo di marcia più sostenuto e i chilometri si susseguono più rapidamente. Stufo della pioggia incessante, salto la seconda tappa alla Cascata Dettifoss, mi piacerebbe ammirarla anche sul lato opposto, ma la pioggia torrenziale mi combatte. Continuo il viaggio, un altro arrivederci.
La strada è una lingua infinita di nero bitume che taglia la desolata landa, questa si dilegua a perdita d’occhio fino al limitare estremo dell’orizzonte in cui basse cime montuose fanno capolino verso le nubi. La pioggia diminuisce gradualmente fino a interrompersi e qualche barlume di luce illumina le nubi meno arcigne. Le previsioni meteo islandesi sembrano impeccabili ed entro un paio di ore dovrei avere l’inimmaginabile onore di essere baciato dal sole; lo spero con tutto il cuore.
Al bivio con la Ring Road, imbocco la via maestra in direzione Ovest per raggiungere in una quindicina di minuti la meta finale: Hverarond e le sue variopinte sorgenti geotermali.
Il parcheggio è completamente saturo di auto, pullman, camper, furgoni camperizzati, fuoristrada, moto e qualche bici, tutto occupato. Immagino sia una meta molto gettonata, direi proprio di si.
Rimando la meta finale di qualche ora pur di scansare la moltitudine di turisti, decido quindi di spostarmi verso Krafla, poco distante (è la tappa prevista per l’indomani mattina).
Lungo la strada scorgo sulla destra uno spiazzo con due camper fermi e un gruppetto di persone che gironzola attorno a una doccia posta al centro del parcheggio sterrato, una doccia a cielo aperto, una doccia nel bel mezzo del nulla, una doccia con calda acqua fumante. Proprio bizzarro! Spero non siano allucinazioni.
Spengo l’auto in un posteggio panoramico che sovrasta la valle. I pensieri tornano alla doccia, lo sguardo si allunga verso la valle al centro della quale troneggiano le futuristiche strutture dell’Impianto Geotermico Kröflustöð. Le colonne di vapore acqueo della centrale elettrica salgono verso le alte nubi, alcune vengono stiracchiate dal vento che le inclina facendole quasi cadere a terra. Il panorama è brullo, marrone con sfumature rossicce o nerastre, terra e roccia, spoglio di vegetazione tranne per alcuni crinali leggermente erbosi, verde sbiadito con tracce giallognole e ocracee, erba e terra e roccia. Le nubi tendono a diradarsi nell’area di Hverarond, ma in lontananza, verso le terre di nessuno, sta sopraggiungendo un muro grigio antracite che minaccia l’intera zona con il suo nubifragio. Dapprima investe le lontane zone geotermali, poi imbocca la valle e come un branco di elefanti imbizzarriti si scaglia con tutta la sua irruente violenza sull’intera zona. Oblio, nulla, grigio, io e l’auto, il resto è stato ingurgitato dal mostruoso temporale che ha fagocitato il mondo intero. Sulla carrozzeria e sui vetri si schiantano milioni di milioni di pingui goccioloni, ho seriamente paura che abbiano intenzione di demolirmi l’auto. Con la stessa velocità con cui è arrivato il mastodontico nubifragio, così repentinamente se ne va. Silenzio. Esco e non vola una mosca, forse sono annegate tutte. Alle mie spalle il nero si schiarisce sfumandosi in tonalità sempre più chiare di grigio, davanti ai miei occhi il cielo livido inizia a schiarirsi e a far trapelare numerosi raggi di luce.
Ora della merenda, o forse della cena o del pranzo? Svegliandomi sempre all’alba e mangiucchiando più volte al giorno ha sfasato completamente la mia concezione del tempo. Lo stomaco brontola in continuazione e ad ogni tappa sono obbligato a sfamare la bestia affamata.
Torno alle sorgenti geotermali di Hverarond nel tardo pomeriggio, forse sera. Adesso il parcheggio conta un numero nettamente inferiore di auto, sono sparpagliate nella pozza di terra battuta, questa è rigata da centinaia di coppie grecate dalle scritte incomprensibili delle varie marche di pneumatici.
Senza la ressa schiamazzante di turisti, tipica dei luoghi più famosi, immagino di potermi muovere liberamente, libero di pensare a nuove fotografie, di sognare e osservare la vita dell’inferno con una nuova pace non più schiava del caotico vociare cosmopolita.
Scarponi ai piedi, attrezzatura fotografica alla mano, mi tuffo alla scoperta di questo nuovo mondo. Dirigo i miei passi verso la terrazza sul lago di terra che ne sovrasta la veduta, mentre una coppia di turisti torna al suo mezzo con le scarpe completamente inzaccherate di fango grigio-ocraceo. La scelta degli scarponi è quantomeno azzeccata in questo luogo infradiciato dal temporale, e con le scarpe di ricambio che sonnecchiano in auto.
Dapprima lo sguardo si muove lentamente lungo la circoscritta piana fangosa per osservare minuziosamente quello che ha da offrire, per poi saettare da un punto all’altro alla ricerca di fuggenti attimi da catturare. Il profumo solforoso aleggia nell’aria sospinto da un vento leggero, mi avvolge completamente inzuppandomi le vesti con il tipico aroma di uova marce che, da oggi in avanti, mi accompagnerà con certezza per tutto il viaggio. Ai miei occhi si mostra un panorama terroso dai colori grigio, rosso, ocra, giallo e arancione con tutte le loro relative variazioni di tenui tonalità che vanno a sfumarsi, le une con le altre, in un confuso dipinto di disordinata armonia. Alcune pozze cineree esalano trasparenti velature biancastre che si sciolgono rapidamente nell’etere cristallino accarezzato dalla brezza serale, altre gorgheggiano con cupi suoni gutturali all’interno delle loro buie cavità melmose sprizzando, verso l’esterno, mollicci lapilli cinerei come microscopici vulcani incompiuti. Esigue lacrime di sangue graffiano il suolo con un lento fluire di acque ferrose che ne ravvivano i toni con screziature di rossi e arancioni. In lontananza, basse piramidi di rocce evaporano furiosamente in un turbinio di colonne di fumo grigiastro, ululano al cielo con rombanti fischi di forza ed energia, canti infernali di anime dannate che il vento disperde nelle vicine lande desolate dimenticandone ben presto le parole. Il sentiero che nasce dalla torreggiante piattaforma lignea si dirama in questo mondo tracciando lievi vie che segnano il confine fra il Purgatorio umano e l’Inferno vulcanico, oppure indicano l’ingresso agli inferi qualora l’insolente turista decida di oltrepassare l’effimero cordone di sicurezza per accarezzare l’idea di un ribollente selfie. Dalla sua eterea altezza celeste, il Paradiso atmosferico osserva il mondo con immaginari occhi nebulosi sospinti dalle correnti d’aria, mentre un tramonto senza fine ne satura i colori con gialli e arancioni pastello.
Gironzolo nel labirinto alla ricerca di qualsiasi dettaglio che mi regali nuove emozioni.

Soffermo lo sguardo all’interno delle fermenti cavità melmose che gorgheggiano in suoni baritonali, nel loro ventre le untuose bolle di fango esplodono in danze grottesche nel tentativo di creare una chimerica perfezione.

Perdo i pensieri nelle voluttuose entità vaporose che aleggiano sulla superficie del terreno come spettrali memorie di persone perdute alla ricerca di se stessi. Specchio la mia scura ombra nelle delicate acque cristalline che fluiscono staticamente in minuti rigagnoli rossicci, le loro invisibili onde increspano i contorni della mia immagine sbiadendo la riflessione della mia figura. Le piramidi fumanti sbucano dal terreno come foruncoli ricolmi di indignazione per una risentimento senza nome, avvolgono le persone cancellandone i particolari, i lineamenti e i linguaggi che chiamano le cose col loro nome. Mi avvicino quasi a toccarle per carpirne il fascino segreto: urlano senza voce grida di disperazione, di sofferenza e di odio mortale, cantano odi di felicità, di gioia e di energia vitale. Il suono è quasi assordante, rimbomba nelle orecchie in ferventi toni profondi, allo stesso modo è affascinante, ammaliante nella sua singolare unicità e semplicità.

Torno al mio assopito mezzo impolverato calpestando pesantemente il suolo del parcheggio per liberarmi da un’impertinente crosta terrosa che si è aggrappata tenacemente sotto, sopra e ai lati dei miei scarponi, un tutt’uno di fango, gomma e tessuto. Un sacchetto di plastica li attende come li attende con ansia il primo ruscello che li laverà.
In auto mangiucchio del pesce essiccato e qualche fetta di pane, rivivo la bellezza di questo luogo con l’inchiostro che disegna le parole che state leggendo.
L’inusuale fascino bizzarro della doccia en plein air sarà culla per la meta finale del mio viaggio. Torno a percorrere la lingua asfaltata che serpeggia nel fondovalle e giunto nella piazzola da bagno, posteggio l’auto in un suo angolino per non disturbare eventuali turisti. Mentre preparo il giaciglio e la cena, nel parcheggio si ferma una monovolume dalla quale escono due turiste che, a turno, si lavano sotto la doccia. Ai maliziosi lascio la fantasia, ai lettori scrivo di un costume intero nero per una e un due pezzi violaceo per l’altra. Al mio turno facciamo il cambio, loro si asciugano i capelli in un turbinio di parole ispaniche e io mi godo le calde acque della doccia più inusuale che abbia mai visto. Indosso la fantasia per i maliziosi e un boxer azzurro acquistato in Jamaica molti anni addietro per i lettori. Come sono arrivate svaniscono, manco un “ciao” o “cosa ne pensi dell’eutrofizzazione dei laghi?”.

Col sorriso a 400 denti per aver apprezzato questo indimenticabile bagno all’aria aperta, come un riccio gode a strofinarsi sulla spugnetta abrasiva, torno al mio solitario viaggio per gustarmi una zuppa calda. Un altro giorno si conclude per dare nuova linfa al giorno che seguirà. Ritemprato dall’inaspettata doccia calda e rinvigorito da una cena veloce, piombo in un sonno profondo che mi cullerà per tutta la luminescente notte islandese.